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Riflessioni afghane. Aspettando il 4 luglio

di G.S. - 04/07/2008

 



Kabul,2 Luglio 2008

Siedo insieme ad europei ad un tavolo nell´enorme mensa di Camp Phoenix - la Fenice, l´uccello mitico che risorge dalle sue ceneri, un nome che suona già come un programma politico se si tiene a mente la scena da cui questa guerra è cominciata: le due torri gemelle che collassano colpite dagli aerei dirottati.

Sì, perché non bisogna dimenticare che ufficialmente questo fronte afghano della "terza grande guerra" è stato aperto in risposta agli eventi dell´11 settembre.
La tesi americana è che i talebani, all´epoca al governo dell´intero Afghanistan (oggi del sud), erano responsabili di aver fornito supporto logistico ad al-Qaida e al suo capo Bin Laden.

In questo refettorio della Superpotenza ogni giorno vengono serviti pasti per 2.500 soldati americani. La prima impressione è quella di stare in un grande Mc Donald´s: non mancano hamburger, patatine fritte, litri di coca cola e coppe di gelato di proporzioni epiche.

Fra due giorni ci sarà anche l´immancabile tacchino del giorno del ringraziamento e magari in gran segreto arriverà la Condoleeza Rice o addirittura il presidente Bush a rendere omaggio e a portare coraggio dicendo la solita frase "we are doing well, we are on track!". Ma basta poco per realizzare che al di là del colesterolo e delle apparenze, lo scenario è un altro.

Nella parete di fronte a me una grande scritta recita "4th July: Proud to be American" . Le foto delle macerie ancora fumanti di Ground Zero ricordano perché si è qui... Tutt´intorno foto di giovani coi capelli cortissimi che sorridono. O meglio sorridevano. Sono i "compagni" della base caduti nella guerra d´Afghanistan. Per loro c´è sempre un posto in mensa, anche se non consumano più. I loro sguardi sono ormai di cristallo, i colori tendono al giallo, la tonalità del deserto, della morte - io credo. I nomi di molti di loro, dopo esser stati pronunciati dall´ennesimo notiziario "Breaking news" della CNN, sono ormai dimenticati, restano patrimonio di pochi familiari. I vassoio ricolmi di cibo, gli altri soldati, i vivi, si muovono assuefatti, insensibili di fronte a questo "muro del pianto". La sensazione è che essi stessi sono (e forse avvertono di esserlo) dei potenziali "dead men walking" (uomini morti che camminano). Sì, perché sono gli americani quelli che statisticamente "muoiono di più" qui in Afghanistan.

L´America è in guerra: il governo di Washington avrà pure le sue ragioni ufficiali (la lotta al terrorismo? L´esportazione della democrazia?) ed ufficiose (il controllo sulle risorse strategiche?); ma questi ragazzi, che vengono dalle periferie delle megalopoli o dalle sperdute campagne e villaggi dell´America, perché sono qui? L´esercito, le missioni all´estero sono un po´ ciò che erano le legioni stranieri all´epoca dell´Impero Romano: un´occasione di sottrarsi alla miseria accettando il rischio - assai vicino alla realtà - di perdere la vita.

C´è molto disagio umano e sociale dietro l´apparente compattezza della macchina da guerra americana. E noi europei (intendo dell´Unione Europea), dal nostro piccolo tavolo, stiamo a guardare, il destino di questi "compagni", senza esser troppo convinti che forse si tratta anche del nostro.

Noi non facciamo le guerre, siamo una superpotenza economica, crediamo di essere una potenza civile che con strumenti diversi esporta valori, diritti, principi... Non sono molto convinto di queste cose, che comunque continuo a studiare ricercandovi una chiave per capire il senso della mia presenza qui, sul "limes" afghano. L´Unione Europea - la nostra missione civile- assomiglia tanto ad una missione gesuita (con compiti di evangelizzazione) al seguito dell´avida armata spagnola in qualche territorio vergine dell´America latina.