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L'alba di una nuova civiltà*

di Enrique Dussel - 07/07/2008





 

Il tema dell'uscita dalla crescita può anche essere formulato come l'inizio di una nuova civiltà che conclude un processo di più di 10.000 anni e non soltanto dei 500 anni della modernità. Vorrei fare una storia di questo processo di distruzione non necessaria ma conflittuale della natura, perché l'uomo e il suo sviluppo hanno una relazione distruttiva con essa fin dall'origine. È necessario perciò prendere coscienza dell'antichità della crisi. Nel 1972 un ricercatore nord-americano ha scritto un libro molto conosciuto intitolato Il limite della crescita: è stata la prima volta nella storia dell'umanità in cui abbiamo capito che le risorse della terra non sono infinite, come l'umanità aveva sempre pensato. Nel 1972, solo 35 anni fa, l'umanità ha cominciato a prendere coscienza del limite, ha compreso che la terra è finita e che noi siamo un elemento della distruzione del pianeta.

La distruzione sistematica della terra è iniziata nel processo di passaggio dal paleolitico al neolitico. In questo periodo hanno cominciato, in qualche parte del mondo, a sorgere le città, che avevano bisogno di due rivoluzioni: quella agricola, che ha rappresentato il dominio sopra la fauna e i vegetali, e quella della pastorizia, che ha segnato il dominio distruttivo sugli animali, perché i pastori hanno cominciato ad allevare gli animali per la riproduzione della vita umana, come i cavalli e le mucche, tutti gli altri non erano necessari e si è iniziato a eliminarli tragicamente.

La storia della civiltà è la storia progressiva della crescita e della distruzione della terra.

Una nuova visione della storia

La visione che noi abbiamo della storia è completamente eurocentrica. Noi parliamo dell'antichità, del Medioevo e della modernità, ma questa prospettiva non ha nessun fondamento scientifico, è semplicemente ideologica ed eurocentrica, perché la storia dell'umanità è completamente diversa.

Noi menzioniamo l'antichità, per esempio, e pensiamo al tempo dei greci, dei romani; ma i romani non sono mai stati in India, che è una parte dell'umanità completamente diversa. Anche la Cina non ha avuto alcun contatto con il Mediterraneo. Parlare dell'antichità senza tenere conto di queste due grandi civiltà è pura ideologia. Anche la denominazione di Medioevo è impropria, perché suppone che si tratti di un'epoca a cavallo tra l'antichità e la modernità. Il Medioevo invece è il tempo del feudalesimo, un fenomeno esclusivamente europeo che non esiste in nessun'altra cultura. In questo periodo i paesi arabi avevano un altro tipo di sistema. Fez in Marocco contava 600 mila abitanti nel X secolo. Il mondo islamico si estendeva dal nord del Maghreb all'Egitto, dalle grandi regioni della Mongolia fino al mar Caspio, all'Iran, all'Iraq, ai califfati del nord dell'India, all'Indonesia e alle Filippine. Insomma, dal Pacifico all'Atlantico. L'Europa nei 3.000 chilometri che separano Vienna da Granada contava appena 60 milioni di abitanti nel secolo XV, mentre il mondo arabo andava dal Marocco alle Filippine. Era questo il mondo universale, l'altro è stato assolutamente provinciale e il feudalesimo è stato un fenomeno puramente europeo.

Marx ha parlato di un modo di produzione asiatico, ma non conosceva niente dell'Asia. Il modo di produzione asiatico non è mai esistito, la realtà è differente. Noi abbiamo bisogno di una nuova visione della storia per capire che cosa succede oggi, nel momento in cui la Cina aumenta la sua importanza e l'India comincia a svilupparsi.

La rivoluzione del neolitico

Il neolitico è una rivoluzione che è cominciata nel sud dell'attuale Turchia e nel nord dell'Iraq dove 7.000 anni prima di Cristo c'erano le città, che avevano bisogno dell'agricoltura, dello sfruttamento del mondo vegetale e della pastorizia. Si trattava comunque di un luogo molto circoscritto; tutto il resto dell'umanità viveva nel noma-
dismo e realizzava uno sfruttamento minimo, equilibrato.

Dopo qella mesopotamica, 3.000 anni prima di Cristo, nasce la civiltà egizia, nel bacino di un fiume che permette lo sfruttamento della terra; lungo un altro fiume, in India, sorge un'altra civiltà e poi è la volta della Cina. In America nasce la civiltà del Messico con i Maya e gli Aztechi e in Perù quella degli Incas. La storia del neolitico si sviluppa dall'ovest verso l'est, contrariamente all'opinione di Hegel il quale riteneva che il movimento fosse da est verso ovest. Hegel pensava che la Cina, seguita dalle civiltà della Persia, dei greci e dei romani rappresentasse l'infanzia dell'umanità e che l'Europa fosse il centro e la realizzazione della storia universale.

Dopo la prima rivoluzione neolitica e le grandi civiltà dell'ovest nasce la seconda, la civiltà del cavallo e del ferro, che rappresenta un momento decisivo della storia dell'umanità. Nel Gobi, a nord della Cina, 6.000 anni a.C. c'è stata la scoperta del cavallo, che ha costituito lo strumento essenziale per percorrere gli spazi fino al XIX secolo, quando il treno ha cominciato ad andare più veloce del cavallo. Fino a 150 anni fa il cavallo è stato l'unico mezzo di trasporto veloce sulla terra e il ferro è stato lo strumento principale, perché serviva a ferrare il cavallo permettendogli di percorrere più chilometri, a fare gli strumenti per la bocca del cavallo, le armi e poi l'aratro, che consente una penetrazione più profonda della terra, una maggiore ossigenazione, un aumento della produzione e una esplosione della popolazione.

Il ferro viene utilizzato per la costruzione di molti attrezzi, ma è anche uno strumento distruttivo perché con l'ascia si sono potuti eliminare più rapidamente i boschi per liberare la terra per l'agricoltura. La diffusione del cavallo e del ferro ha favorito un'espansione distruttiva, feroce, in tutti i continenti, meno che in America. In questo continente il cavallo e il ferro sono arrivati solo nel 1492. E questo è stato l'effetto civilizzatore della scoperta.

Nella seconda fase del neolitico sono sorte nuove civiltà: la persiana, la prima con il cavallo e il ferro, e successivamente quella greca, l'indiana, e dopo il 200 a.C. la fioritura del grande impero cinese, che ha avuto uno sviluppo fino al 1800, perché la Cina non ha fatto la rivoluzione industriale. Non ha nemmeno praticato la colo-
nizzazione, sebbene a metà del Quattrocento potesse mettere in mare 600 navi con più di 30 mila marinai. Più tardi l'imperatore decise di interrompere queste spedizioni perché troppo costose. Comunque la Cina non ha mai pensato a un sistema coloniale perché aveva un territorio fantastico da sfruttare e una popolazione enorme, che alimentandosi con la soia, una proteina vegetale, e con il riso non aveva bisogno di carne. L'uso della soia e del riso ha favorito l'esplosione demografica. La Cina è stata sempre più avanzata dell'Europa: ha inventato la stampa nel VI secolo d.C., molto prima di Gutemberg che l'ha realizzata nel 1486. I cinesi hanno scoperto la carta nel 600 e nel 900 hanno impresso la carta moneta; l'Europa lo farà mille anni più tardi. La Cina ha inventato la polvere da sparo nel X secolo e l'ha usata nella costruzione della Grande Muraglia. Lo ricordo perché dobbiamo avere un'altra visione della storia. Questa è la seconda tappa della distruzione della terra, provocata dalla crescita e dallo sviluppo della civiltà.

La terza tappa è rappresentata dall'espansione semita, col giudaismo prima, poi con il cristianesimo nell'impero romano, ma soprattutto con l'islam, che ha occupato tutto il sud e l'est dell'Europa, che era stata latina ed elle-
nista, e in seguito si è diffuso per tutte le steppe che vanno dal mar Caspio alla Mongolia e, più tardi, fino alle Filippine. Siamo di fronte a una semitizzazione della storia mondiale.

La quarta tappa è l'invasione, non la scoperta, dell'America, perché gli esseri umani abitavano in America 40.000 anni prima di Cristo, essendo passati attraverso lo stretto di Bering. Oggi ci sono documenti che lo comprovano. Nel 1421-22 i cinesi hanno tracciato una mappa molto precisa di tutto il nord e il sud dell'America e della costa pacifica e atlantica. Colombo, che era un genovese, aveva una mappa che nell'Asia presentava quattro penisole: la penisola arabica, quella dell'India, quella del-
l'Indocina e, a sud della Cina, la quarta penisola, che era esattamente l'America del sud. Colombo possedeva questa carta e sapeva che si trattava di un continente. Non ha scoperto, ha riconosciuto un continente. I cinesi avevano fatto molte spedizioni e avevano tracciato una mappa di tutto il mondo già nel 1423; le carte dei cinesi attraverso Venezia erano arrivate in Portogallo e in Spagna, per cui i grandi navigatori spagnoli e portoghesi avevano mappe tracciate dai cinesi. Nel 1507, quando ancora nessun europeo era arrivato nel Pacifico, un tedesco aveva tracciato una mappa del continente americano con le Montagne Rocciose, le Ande e il profilo della Groenlandia. A Istanbul nel palazzo del Sultano c'è una mappa del 1513, sedici anni prima di Magellano, dove si trova disegnata la Patagonia e persino la costa dell'Antartico con le isole; il che significa che almeno 30 o 40 navi erano state mesi in Patagonia per realizzare tali rilievi. Tutto questo oggi è riconosciuto dagli storici.

L'inizio del capitalismo e del colonialismo

Quella che noi chiamiamo “scoperta dell'America” rappresenta un grande momento della distruzione della terra, perché con essa inizia il capitalismo. Il plus-valore dell'Europa è stato molto piccolo, ma la scoperta dell'America le ha permesso un grande accumulo di ricchezza, 20.000 tonnellate di argento in un secolo, che hanno provocato la svalutazione del denaro in tutto il sistema antico, dalla Cina fino al mondo arabo. E quest'ultimo in un secolo è diventato povero senza perdere denaro, semplicemente perché i suoi soldi avevano meno valore. La svalutazione ha rappresentato l'ecatombe del mondo mu-
sulmano e la fine della centralità islamica. Prima del 1492 i musulmani, grazie alla via della seta, commerciavano con la Cina e raggiungevano l'India attraverso Kabul. In-
somma, il mondo arabo si trovava al centro della storia dell'antico continente. La scoperta dell'America ha fatto sparire questo commercio, perché i portoghesi andavano per mare e non c'era più bisogno delle antiche vie di comunicazioni. Così il mondo arabo è entrato in una crisi che perdura ancora oggi. È sintomatico che gli arabi non mettano in relazione la scoperta dell'America e il declino della civiltà islamica. Eppure è esattamente questo il problema. In Africa, a sud del Sahara, vi erano molti regni che possedevano l'oro, ma quello a bassissimo costo proveniente dall'America li ha messi in crisi. E così hanno catturato i loro fratelli e le loro sorelle e li hanno venduti come schiavi agli europei. La depressione economica di questi regni, che non avevano più la possibilità di vendere l'oro attraverso il Sahara nel bacino del Mediterraneo, ha provocato la tratta degli schiavi.

La scoperta dell'America è stata una ecatombe civilizzatrice anzitutto per gli indiani, ma intorno a essa si sono intrecciati quattro fenomeni simultanei. Prima di tutto il capitalismo, come accumulazione della ricchezza americana in Europa. Quest'ultima poteva utilizzare per l'agricoltura 2 milioni di km², con la scoperta dell'America è entrata in possesso di 10 milioni di km² di territori nuovi e ha realizzato una espansione fantastica dal punto di vista territoriale. Inoltre ha potuto sfruttare una popolazione di più di 15 milioni di persone, gli indiani, e ha preso schiavi in America per portarli a lavorare in Europa. È stata un'accumulazione di capitale grandissima.

Ma il capitalismo è legato al colonialismo, che è una novità moderna. Roma, per esempio, aveva colonie, ma esse erano situate nello stesso territorio dell'impero o in luoghi a esso contigui. Il colonialismo moderno invece è differente e ideologicamente dà origine al fenomeno dell'eurocentrismo, che consiste nell'accentuare l'importanza dell'Europa in relazione all'America e nel considerare centrale la storia europea, mentre non lo è mai stata. L'europeo fino al 1491 sapeva che il mondo arabo era molto più sviluppato ed era cosciente della propria inferiorità. L'essere arrivata in America e l'aver accresciuto la propria ricchezza ha cominciato a donare all'Europa una nuova consapevolezza. Così è nato il fenomeno della modernità, che prende avvio dalla colonizzazione dell'America e dalla conseguente crisi del mondo arabo che all'epoca era più sviluppato.

I momenti della modernità

Possiamo distinguere tre momenti della modernità. Il primo, che non è così distruttivo, è quello mercantile che consiste nel prendere le merci prodotte e incentivare il commercio fra l'America e l'Europa. In questo processo quasi tutto l'argento americano è confluito in Cina, che fino al 1800 è stata, assieme all'India, il centro della produzione mondiale delle merci, particolarmente della porcellana e della seta. Tutta l'aristocrazia del mondo, in Russia come in Africa, in Europa come in America o in Australia, usava la seta cinese. L'Europa non poteva vendere niente alla Cina, perché essa possedeva già tutti i prodotti; poteva comperare soltanto, con l'argento americano, sul mercato cinese. E così è avvenuto fino alla ri-
voluzione industriale.

Il secondo momento della modernità è rappresentato appunto dalla rivoluzione industriale. È necessario prendere coscienza di che cosa abbia significato per la crescita e per la distruzione della terra una rivoluzione che ha cambiato l'importanza geopolitica dell'Europa. Per la prima volta, nei 200 anni che vanno dal 1789 al 1989, grosso modo dalla Rivoluzione francese fino al crollo dell'Unione Sovietica, l'Europa è diventata il centro della storia universale. E ciò non era avvenuto né con l'impero romano e nemmeno con la scoperta dell'America, perché essa non aveva conferito all'Europa la centralità, dal momento che la Cina e l'India restavano il nucleo della potenza produttiva.

Occorre chiedersi perché la rivoluzione industriale si sia realizzata in Inghilterra e in Francia e non in una regione più avanzata come la valle dello Yangtze in Cina. Molti studi recenti rispondono semplicemente perché in Europa, nel triangolo che va da Londra a Parigi a Bruxelles fino alla Germania, c'è una regione ricca di ferro e carbone. Carbone e ferro hanno permesso di dar vita alla rivoluzione industriale; i contadini infatti hanno potuto abbandonare i campi ed entrare nell'industria perché avevano a disposizione alimenti a buon mercato che provenivano dall'America. È stato il colonialismo, insomma, a consentire il decollo dell'industria. La Cina, al contrario, aveva una crisi di produzione alimentare e i contadini che avevano cominciato a lavorare nell'industria sono do-
vuti tornare ai campi. E non hanno potuto dar vita a quella rivoluzione industriale, che era più facile realizzare in Cina che in Inghilterra, la quale non aveva colonie né carbone sufficiente. L'evento è stato puramente casuale e non è avvenuto perché quella europea era una civiltà superiore.

Quando l'Europa ha realizzato la rivoluzione industriale, in 30-40 anni si è cominciato a notare la differenza con il resto del mondo. Per questo Hegel nella Filosofia del diritto del 1818 ha scritto che l'Europa era l'unica grande civiltà, mentre per la Cina, l'India e l'Asia in genere si cominciava a parlare di dispotismo orientale e nasceva così il fenomeno dell'orientalismo. Hegel è stato il primo, dopo Kant, ad aver avuto questa impressione trionfale del destino dell'Europa e ha rifatto la storia che noi abbiamo studiato. È di decisiva importanza analizzare cosa significhino il capitale e la rivoluzione industriale per la crescita e la distruzione della terra. Il capitale è denaro che proviene dalla miniere d'argento dell'America e provoca una grande accumulazione in Europa. Con il denaro io posso comprare le materie prime, gli strumenti tecnici e anche il lavoro pagando un salario. Il lavoro, insieme alla materia e alla tecnologia, realizza un prodotto che viene immesso sul mercato come merce: io vendo la merce e ottengo più denaro realizzando un profitto, che Marx chiama il plus-valore. Ritengo che il pensiero di Marx diventerà sempre più importante nel secolo XXI e non sarà relegato né all'Unione Sovietica né al marxismo dogmatico, ma provocherà una nuova lettura della realtà di cui vorrei offrire un saggio.

Io sostengo che la rivoluzione tecnologica non è una condizione del capitale, ma il capitale è la condizione della rivoluzione tecnologica e la rivoluzione scientifica è un prodotto della necessaria rivoluzione tecnologica indotta dal capitale. In epistemologia e in filosofia abitualmente si dice che prima c'è stata la grande scoperta scientifica, la quale poi è stata applicata alla tecnologia, che successivamente è stata immessa nel processo industriale di produzione. Io ritengo che sia proprio l'inverso: primaria è l'importanza del capitale, il quale induce un processo di produzione che provoca una rivoluzione tecnologica che, a sua volta, richiede una rivoluzione scientifica. Cerco di chiarire il mio pensiero con l'esempio della produzione tessile.

La Cina aveva la seta che, essendo usata dall'aristocrazia di tutto il mondo, era molto cara; solo i vescovi e i re potevano permettersela. La rivoluzione tessile ha reso la seta popolare, così ci si è posti il problema di produrre con il cotone vestiti per tutta l'umanità. In questa produzione, tanto per indicare un numero, il 5% del valore era dato dal cotone, ma il 95% dal lavoro, perché si trattava di un lavoro molto difficile. Il salario era perciò il valore del lavoro posto in un metro di tessuto. Si presentò subito la questione di come diminuire la proporzione del salario nel valore del prodotto, perché se io utilizzo uno strumento che mi permette di realizzare lo stesso prodotto in metà tempo, allora io non uso il 95% del salario, ma soltanto il 47,5% e tutto il resto è profitto. Ho bisogno quindi di impiegare la tecnologia come mezzo per ridurre la proporzione del salario nel valore del prodotto. Per questo in Inghilterra viene indetto un concorso per realizzare una macchina per filare. Nessuno ci aveva pensato; un giapponese la inventa e mette a punto una tecnologia per arrivare a una riduzione del salario.

Questo significa che l'essenza del capitale è l'aumento del tasso di profitto: ecco la razionalità intrinseca al capitale. Nel processo di produzione della merce il denaro è impiegato come materia prima, come salario, come tecnologia e il prodotto assume un determinato valore; quando ha meno valore ha meno prezzo. Se una persona vende un prodotto con 100 di valore e l'altra vende lo stesso prodotto con 50, io compero quello che costa 50. È il fenomeno che si chiama concorrenza. La concorrenza fa sì che il capitale che produce con maggior valore non possa vendere e questo significa il suo fallimento. Per produrre con minor valore, il capitale, per la prima volta nella storia, fa la rivoluzione tecnologica; mai la tecnologia era stata un mezzo necessario per l'aumento del tasso di profitto.

Il pericolo, dunque, non è la tecnologia, ma il capitale. È quest'ultimo a essere distruttivo, non la tecnologia, perché la crescita è un espediente artificiale per aumentare il profitto del capitale. Questa è la razionalità della modernità come tale e questa è la quarta tappa della storia.

La contraddizione tra il capitale e la vita

La scienza e la tecnologia hanno compiuto fantastici progressi, hanno scoperto la struttura della realtà, ma si sono basate sull'erroneo presupposto che la terra avesse risorse infinite. Questo è un fatale errore perché la terra è limitata e indica che di tutto il processo scientifico noi vediamo soltanto gli effetti positivi e non quelli negativi. Per capire come siamo finiti nel vicolo cieco è necessario risalire all'opera di Adam Smith, il grande iniziatore dell'economia politica. Egli non era un economista, ma un filosofo dell'etica che insegnava a Glasgow. Già nella sua prima opera, La teoria dei sentimenti morali , Adam Smith incorpora il mercato per risolvere il conflitto che Mandeville aveva espresso con questa formulazione: come è possibile che atti cattivi producano effetti buoni? Per spiegare questa contraddizione Smith ricorre al mercato: io posso essere egoista e lottare per il profitto e questo non è virtuoso, ma io lavoro bene e produco bene per ottenere il profitto, l'altro fa la stessa cosa e tutti noi non ne abbiamo coscienza, perché la mano di un Dio meta-
storico mette ordine in tutto questo egoismo. Il risultato è unintentional ; ogni coscienza produce un effetto buono perché Dio provvidente fa in modo che questo egoismo realizzi il bene della società.

Per Adam Smith, il mercato è una mediazione metafisica per arrivare a risolvere un conflitto etico, non economico, ma egli non ha visto gli effetti negativi del mercato rappresentati dalla povertà. Per Smith l'esistenza della povertà è una questione di natura, come è naturale che nello stato di capitale i ricchi comprino il lavoro dei poveri. Marx sostiene invece che questo è l'effetto di un sistema storico e non della natura, perché l'esistenza di ricchi e poveri è frutto della struttura di dominazione. Coglie però solo uno degli effetti negativi del sistema economico, la povertà, ma non s'accorge della distruzione della terra, perché a suo avviso la terra non può essere distrutta. Oggi corriamo il rischio che la vita possa essere distrutta, e la vita umana è il centro di una evoluzione fantastica che è arrivata fino agli animali con il sistema nervoso e al cervello umano, che è il sistema nervoso più sviluppato. Noi siamo il prodotto più splendido dell'evoluzione della vita sulla terra. Il problema attuale è la contraddizione che si è aperta tra il capitale, guidato dalla razionalità del profitto e teso all'aumento del tasso di profitto, e la vita.

La scelta tra la vita e la morte

La razionalità legata al profitto è contraria alla vita e, se produce la morte, allora ci troviamo di fronte a una questione di vita o di morte. Mai nella storia l'umanità aveva compreso la posizione della vita e della morte come un limite assoluto; noi siamo la prima generazione dell'umanità che ne ha preso coscienza. Viviamo la fine di una civiltà che è cominciata con la rivoluzione neolitica e che è cresciuta geometricamente con l'industrializzazione. Ormai l'umanità si accorge che è un suicidio continuare su questa linea, perché va necessariamente incontro alla distruzione da qui a qualche decennio, non tra qualche secolo. Allora il problema etico più profondo e più importante non è ristabilire un'etica dei valori, o della virtù, ma la scelta tra la vita e la morte. È necessaria una nuova etica più profonda; io ho scritto una Ética de la liberación en la edad de la globalización y de l'exclu-
sión
che si propone questo obiettivo. Hans Jonas, filosofo tedesco che vive in America, ha parlato del “principio di responsabilità”: noi siamo responsabili della vita sulla terra. Egli ha sottolineato che il timore può essere il motivo determinante per assumere responsabilità; io penso, invece, che non ci si deve affidare soltanto al timore, perché la responsabilità è qualche cosa di molto più profondo. Qui noi tocchiamo l'essenza del pensiero di Marx e del Vangelo, due posizioni metafisicamente identiche e atee rispetto al feticismo del capitale. Marx ha scritto nel 1844, che l'ateismo non ha altro senso che la negazione della negazione dell'uomo e ha sempre sostenuto che il capitale non è Dio, bensì Moloch, un idolo, un feticcio. Egli ha preso la parola feticcio dal portoghese, perché ha letto un libro di un antropologo che, studiando l'Africa, sosteneva che gli africani fanno il dio con le mani e poi adorano il prodotto delle loro mani. Sono le espressioni di Isaia e del salmo 113 che dice: «gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno orecchi e non odono, li avete fatti con le vostre mani». Questa è l'espressione esplicita di Marx: il capitale l'avete fatto con le vostre mani, è un feticcio, è un idolo. Questo è assolutamente teologico.

Marx metafisicamente ha una visione dell'economia più vicina all'Antico e al Nuovo Testamento della dottrina sociale della chiesa. Non è una metafora; cercherò di provarlo tecnicamente. La dottrina sociale della chiesa nella Rerum Novarum del 1892 dice che la dignità della persona è primaria, ma ammette anche che la proprietà è naturale. Per San Tommaso è impossibile dire che la proprietà è naturale perché, senza il peccato originale, non avremmo necessità della proprietà privata. Questo è pacifico per tutta la tradizione fino al secolo XIX. In quel periodo i Gesuiti, che hanno scritto con il Papa la Rerum Novarum , hanno utilizzato i testi di Locke sulla proprietà privata. Marx invece sostiene che l'operaio produce valore nel tempo necessario per riprodurre il valore del salario, ma che c'è un altro tempo oltre quello necessario alla riproduzione del valore del salario. Marx lo ha chiamato plus tempo ( mehr zeit ) e ha chiamato questo lavoro plus-lavoro ( mehr arbeit ). Nel plus-tempo del plus-lavoro il lavoratore crea, è un creatore. Marx non utilizza la parola produce o riproduce, ma la parola Shoepfung : il lavoratore è il creatore del valore dal nulla del capitale, perché pone valore senza essere pagato. Si tratta di una creazione dal nulla. Marx è l'unico filosofo che ha prospettato una visione semitico-cristiana dell'economia e ha collegato dottrina della creazione ed economia; nessun papa ne ha mai avuto sentore.

Ho prospettato queste idee nel mio libro Un Marx sconosciuto e sono convinto che Marx diventerà in questo secolo XXI un padre della chiesa, come lo è diventato Aristotele dopo che San Tommaso lo ha utilizzato per fare teologia. Eppure Aristotele era stato condannato nei primi secoli dell'era cristiana perché non parlava della creazione ed era un filosofo pagano. La stessa cosa avverrà con Marx, perché è l'unico filosofo ad aver fatto una critica metafisica al capitale che è all'origine della crescita distruttiva della terra. Noi abbiamo bisogno di questa critica che oppone la vita alla morte. Per Marx il capitale è morto e la vita, invece, è il soggetto che lavora. Egli lo chiama “lavoro vivo”, per indicare che è un soggetto corporale che ha bisogno di mangiare altrimenti muore, ma che è obbligato a vendere il corpo come una prostituta perché un'altra persona comperi il suo lavoro e si appropri della produzione del suo lavoro. Questa è una feticizzazione del corpo e considerare il corpo come una merce è un peccato. E questo è ciò che commette ogni giorno il capitalista quando invita gli operai ad andare nella sua fabbrica. Curiosamente in tedesco chi dona lavoro, Arbeitgeber , è l'impresario; in inglese si dice: io ti dono un job , ma è il lavoratore, non l'impresario, che dona. Il capitale dona la possibilità di usufruire del lavoro dell'altro e compera una persona con una dignità assoluta, divina. La compera, la sfrutta e produce il profitto, mentre l'altro muore nella povertà. E questo accade non soltanto all'operaio, ma a tutto il mondo coloniale della modernità.

Un'etica della vita

In questi ultimi 50 anni della mia vita ho approfondito il significato di “essere colonizzato”. L'espressione indica un essere non umano per quel centro che è l'Europa. La persona colonizzata è una eccezione assoluta, perché non è riconosciuta come persona ma sfruttata come appartenente a una colonia. Il capitalismo perciò non è soltanto una relazione capitale-lavoro ma anche centro-periferia e nel capitalismo mondiale il problema della globa-
lizzazione è impensabile senza lo sfruttamento della periferia. Investire il capitale in un paese periferico è molto più redditizio che farlo in un paese del centro. La Volk-
swagen, ad esempio, ha una grande fabbrica in Messico, dove il salario di un operaio ammonta a 100 euro al mese, mentre in Europa se ne pagano 1.500; 1.400 euro di differenza che costituiscono il vantaggio di impiantare una fabbrica in un paese periferico. I 1.400 euro che l'azienda ha risparmiato rifluiscono in Germania e rappresentano il profitto della Volkswagen. Questo è sfruttamento della vita perché, per Marx, giustamente, il valore del prodotto è oggettivazione della vita.

È una visione umanistica profonda, perché sostiene che il lavoratore mette la sua vita nel prodotto e questo si chiama valore. Il valore per Marx è l'oggettivazione della vita. Per il popolo ebraico, la vita è il sangue e i cattolici credono che l'eucarestia sia il corpo e il sangue di Cristo, che separati significano, simbolicamente, la morte. Perciò Feuerbach ha scritto che l'essenza del cristianesimo è mangiare e bere: mangiare il corpo e bere il san-
gue di Cristo. Ma mangiare significa essere vivo, usare energia e aver bisogno della produzione di energia. Donare il pane a chi ha fame, è un atto buono non per gli antichi romani o per i greci, ma per i semiti e per i cristiani perché io sono vivente. Donare l'acqua all'assetato è un atto etico, perché produce la vita; mettere un vestito per continuare a mantenere la temperatura; donare una casa per potersi riposare; visitare l'infermo per fargli riacquistare la salute sono tutti atti necessari a mantenere l'esistenza in un vivente. Il criterio etico è la vita: dare pane all'affamato, da bere all'assetato, una casa al pellegrino, sono necessità vitali, come testimonia il Libro dei morti dell'Egitto di tremila anni prima di Cristo. Anche Gesù è stato in Egitto come esiliato politico perché Erode l'ha perseguitato. Una volta al Cairo, in una chiesa di una piccola comunità copta, mi hanno detto: qui è stato Cristo.

Io sono scappato dall'Argentina per sfuggire ai militari, perché Kissinger, tramite il Pentagono e la Cia, aveva organizzato tutte le dittature dell'America Latina, formando i militari per instaurarle. Kissinger davvero è il maestro dei dittatori latinoamericani. Il feticismo del capitale è terribile, specie quando ricorre come in Iraq alla forza militare.

C'è bisogno di un'etica della vita, il cui contenuto potrebbe essere enunciato così: noi dobbiamo produrre, riprodurre e sviluppare la vita umana. E non soltanto della nostra comunità, ma di tutta l'umanità contro il nazionalismo vitalista e nazista. L'affermazione della vita deve essere il principio materiale universale; io non sono post-moderno, sono razionalista. Il discorso frammentario è ideale per la globalizzazione, perché i dogmatici del mercato mondiale fanno un discorso forte e universale e chiedono alla gente di adottare un pensiero debole, come ha teorizzato il mio amico Vattimo. Secondo me, il pensiero deve essere forte e universale in favore delle vittime della universalità del capitale.

I postulati dell'etica della vita

Dobbiamo riaffermare una nuova universalità della vita. Vorrei delineare perciò i postulati di quest'etica della vita. Anzitutto voglio però chiarire che cosa significa postulato. L'ultimo Kant parla di postulati e di pace perpetua: noi dovremmo lottare per una umanità dove la guerra è completamente bandita e iniziare a pensare a una pace perpetua. Ci vorranno forse molti secoli e può anche darsi sia impossibile. Ma qualcosa che può essere pensato, che è pienamente razionale eppure empiricamente impossibile, serve come principio regolativo. Ho sempre apprezzato i cinesi che utilizzavano una stella a nord per navigare di notte. La stella è impossibile da raggiungere, ma è molto utile perché permette di orientarsi durante la navigazione notturna. Un postulato, dunque, è qualche cosa di logicamente possibile e di empiricamente impossibile che serve come principio di orientamento: io devo lottare in tutte le relazioni umane per arrivare alla pace perpetua.

Io prendo lo stesso principio, lo trasferisco nel campo della vita e ottengo un nuovo postulato che si chiama “la vita perpetua”. Il postulato è enunciato come principio normativo: io devo lottare per produrre, riprodurre e aumentare la vita. Parlo di una crescita non puramente quan-
titativa ma qualitativa, che Marx ha chiamato “il regno della libertà”. La vita perpetua significherebbe fare in mo-
do che tutte le azioni che intraprendo permettano che la vita sia perpetua sulla terra.

Un amico mi ha mostrato tre possibili formulazioni di questo postulato. La prima è che il tasso di uso delle risorse rinnovabili non deve superare il tasso di recupero di queste risorse. Io non devo usare più grano delle possibilità di recuperare lo stesso grano. Il secondo principio sarebbe: il tasso di uso delle risorse non rinnovabili deve essere proporzionale alla possibilità di riprodurne la stessa quantità con fonti non rinnovabili. Come dire che le energie rinnovabili devono cominciare a sostituire il petrolio. Non dobbiamo usare più le risorse non rinnovabili, ma dedicarci all'invenzione di risorse rinnovabili per poter dire che la vita sarà perpetua per i prossimi mille anni. Nel sistema parlamentare i governi cambiano ogni 4 o 5 anni e i responsabili politici sono abituati a rimandare le questioni di fondo, per cui abbiamo una politica di corto respiro che conduce al suicidio dell'umanità. Dovremmo invece tener presente tutta l'umanità e domandarci cosa dovremmo fare per vivere almeno i prossimi mille anni (e questo sarebbe un progetto a medio termine); per il lungo termine dovremmo abbracciare diecimila anni e realizzare una inversione del neolitico. Siccome questo non è possibile, significa che tutto è irrazionale, completamente irrazionale, e che non c'è alcun sentore del problema.

Il terzo principio sarebbe: il tasso di emissioni inquinanti deve essere uguale alla quantità che è possibile rici-
clare. Se io produco dieci contaminazioni, devo realizzare l'invenzione per riciclare queste dieci; se io ne recupero di meno, comincia la distruzione della terra.

Il principio etico assolutamente fondamentale è l'affermazione della vita come criterio di razionalità. Il capitale è irrazionale perché aumenta la produzione per distruggere la vita. È quello che il mio amico Hinkelammert, grande pensatore dell'America Latina, chiama l'irrazionalità della razionalizzazione del sistema. L'unico principio di razionalità è la promozione della vita attuata nel lungo termine.

Pensare il futuro dalla parte delle vittime

L'altro grande principio dell'etica che io propongo invita a considerare gli effetti negativi del sistema, i quali producono sempre gente che soffre: le vittime. In India, in Bangladesh, in Africa c'è povertà, noi abbiamo disoccupazione, aumento dello smog. Tutti questi effetti negativi provocano vittime. Il principio dice: le vittime non possono vivere; è necessario cambiare il sistema e permettere la vita delle vittime. Questo è il principio di trasformazione dell'intero sistema. L'agricoltura, la pastorizia sono necessarie, ma arriva un momento in cui sono pericolose e in questo momento è necessaria la trasformazione. Io penso che siamo giunti al termine dei 500 anni della modernità, che è cominciata con l'invasione dell'America, ha visto l'espansione dell'Europa e che sol-
tanto negli ultimi 200 anni ha segnato la centralità dell'Europa e adesso degli Stati Uniti e della Russia. Ormai la Cina ritorna dopo una pausa di 200 anni, ma non riparte da zero, perché è stata la più avanzata civiltà dell'umanità fino a 200 anni fa e, rispetto ad altri, presenta molti vantaggi. Per esempio, una scrittura che non è fonetica ma ideografica e permette di rendere un'idea con un'immagine astratta. Questo significa che scrivendo si apprende tutta una struttura logica e culturale. Si tratta di una scrittura molto difficile, che può essere considerata più profonda e più sviluppata di quella fonetica. È basata su 64 segni; il segno più significativo è costituito da tre linee parallele che rappresentano la perfezione, mentre le stesse linee interrotte indicano il male. Insomma proviene da una lunga storia, come anche l'India. Nel VII secolo lungo le rive del Gange c'era una città con più di tren-
tamila studenti di filosofia che approfondivano il buddhismo e il pensiero vedanta. La filosofia, perciò, non è occidentale, non è nata con i greci. Il mondo indiano ha un altro tipo di filosofia veramente interessante e certamente più ecologica, perché non ha sofferto la nostra rivoluzione tecnologica, che ha molti aspetti positivi ma anche molti altri negativi.

Il transmoderno

Dobbiamo dar vita a una nuova civiltà. Marx parlava del regno della libertà che avrebbe soppiantato quello dell'economia e della produzione. Possiamo pensare, co-
me postulato, a un tempo di lavoro zero, che significherebbe non lavorare più. È qualcosa di pensabile ma anche di impossibile, però viene anticipato quando la giornata di lavoro comincia a diminuire. Attualmente, in Venezuela, Hugo Chavez ha già proposto 6 ore di lavoro al giorno. Sarebbe il primo paese al mondo e della storia in cui tutti i cittadini lavorerebbero 6 ore e avrebbero più tempo libero. Il tempo della libertà è il tempo liberato dal lavoro e dedicato allo spirito, alla cultura, all'arte e alla religione. Questo l'ha detto Marx, il quale non ha mai pensato che l'economia fosse più importante dello spirito. Il capitalismo cristiano ha feticizzato il tempo del lavoro e ci costringe a lavorare sempre. Chi non lavora è povero, emarginato e destinato al cimitero. Nel secondo Manoscritto del 1844 Marx parla di questi fantasmi che sono esclusi dal sistema e pensa al medico che cura i poveri e al custode del cimitero che prende i cadaveri e li seppellisce. Marx non ha mai pensato che noi potessimo lavorare 6-4-3 ore. Allora il tempo della libertà è la crescita di una nuova civiltà nella quale noi non abbiamo bisogno dei vestiti, di cibo, di materiali, perché abbiamo tutto il necessario e forse anche di più, ma dobbiamo realizzare una civilizzazione più austera, quasi monastica. Quando in Israele in un kibbutz ho visto la vita di una famiglia credente, padre, madre, figlie, che avevano tutto il necessario per la vita, lavoravano ed erano liberi, mi sono detto: ecco l'esempio dell'umanità futura, che non è succube del mercato che crea nuove merci e ci fa preoccupare di cose materiali, superficiali e sempre meno importanti.

La nuova civiltà sarà caratterizzata dalla comunicazione e, come spiega Lacan in un suo testo, sarà un tempo molto religioso, perché la religione è la metafora di tutte le cose che la scienza non può spiegare. La scienza accresce in proporzione geometrica la conoscenza delle cose, ma parallelamente cresce anche l'ignoranza delle cose che non sappiamo. Ci è noto che 18 miliardi di anni fa c'è stato il “big bang”, ma non sappiamo se esso sia stato la contrazione di un universo più antico o se sia stato il primo “big bang”. In quest'ultimo caso ci chiediamo come sia possibile, dal momento che niente viene dal nulla. Inoltre la scienza non potrà mai risolvere il grande problema umano del nostro destino dopo la morte. L'Egitto ha inventato il mito della resurrezione, che prima d'essere ebraico e cristiano è egizio; le piramidi infatti sono tombe che aspettano la resurrezione. Si tratta di una prospettiva che dà valore al corpo e alla sessualità e all'interno della quale soccorrere chi ha fame diventa un criterio etico.

Per i greci noi abbiamo un'anima ( psiche ) e un corpo, ma il corpo non ha nessuna importanza e per essi il peccato originale è costituito dall'avere un corpo. Io sono completamente contrario ai greci e agli antichi romani, che negavano la sessualità e giustificavano il dominio sulle donne. Io sono un semita. L'affermazione della cor-
poralità destinata alla resurrezione è un'altra antropologia e un altro mito. Il mio maestro alla Sorbona, Paul Ri-
coeur, diceva che il simbolo “dà a pensare”. In effetti, i simboli sono la metafora della realtà e il mito è razionale perché è una spiegazione simbolica di quello che la scienza non potrà mai risolvere. L'epoca a venire sarà un gran tempo di festa e di trascendenza, il segno della libertà consisterà nella decrescita di questa psicopatica tendenza a possedere più cose, la novità si esprimerà, al contrario, in una infinita creatività dei beni culturali e religiosi.

Una civiltà può essere superiore a un'altra in molti aspetti. La civiltà tecnico-capitalistica moderna, ad esempio, può essere superiore a una comunità americana maya per quanto riguarda la tecnologia, ma sotto il profilo della relazione con la natura, quest'ultima ha una visione molto più sviluppata. Le civiltà premoderne e simultanee alla modernità sono postulati futuri di come noi dobbiamo usare la natura, senza affannarci per produrre più merci e per distruggere la terra.

La modernità si è confrontata con il mondo musulmano nel Mediterraneo, con quello americano, con l'India un poco, per niente con la Cina che non è mai stata colonizzata, per cui solo alcuni aspetti di queste civiltà sono stati inclusi nella modernità europea. Ma le dimensioni più valide non sono state assunte, perché l'Europa moderna le ha ritenute inutili e le ha lasciate cadere. Adesso questi mondi cominciano a recuperare il senso del loro valore e a sviluppare la possibilità di una cultura indiana, latino-americana. L'islam inizia a riscoprire una nuova erme-
neutica del Corano, che non è tutto fanatico ma, al contrario, è alla base del rinnovamento europeo del secolo XIII. Aristotele è arrivato in Europa, a Cordova, per mezzo degli arabi e san Tommaso, san Bonaventura sono tutti filosofi averroisti. Averroé, Avicenna sono stati i grandi maestri della filosofia medievale. Averroé ha sostenuto che la razionalità scientifica, astronomica, matematica non è in contraddizione con il Corano. Lo stesso ha fatto san Tommaso nel 1200 nei confronti della Bibbia. Quando l'Europa moderna comincerà a sviluppare gli spunti positivi offerti da altre culture si realizzerà non un universo ma un pluriverso, nel quale risuonerà una sinfonia di voci. In questo regno della libertà futura, per molti secoli, l'umanità non sarà una, ma è bene che non lo sia altrimenti sarebbe molto noiosa.

Questo processo non lo chiamo post-moderno, quasi fosse un'ultima tappa della modernità europea, ma trans-moderno, perché sarà una civiltà altra, caratterizzata dalla decrescita della crescita quantitativa del capitale e dalla crescita qualitativa della cultura, dello spirito e della relazione con la natura. Noi possiamo fin d'ora vivere questa nuova prospettiva perché possiamo ridimensionare i nostri bisogni e impegnare il tempo in altre cose: la solidarietà, il pensiero, l'allegria, il gioco, l'arte, le molteplici attività dello spirito umano. In questo caso, cominciamo a porci fuori dal mercato, che è necessario come strumento, ma che non può trasformarsi in fine. Il mercato è un'istituzione al servizio dell'uomo, non l'uomo al servizio del mercato. E l'uomo si sviluppa, per chi ha fede, fino ad approdare a Dio, al Dio vivo. Allora tutto quello che ho detto, per chi crede in Dio, è una conferma; per chi non ci crede può diventare uno stimolo a lottare per la vita e per l'umanità della nuova civiltà.
*tratto da "La sfida della decrescita", edizioni l'Altrapagina (92 pagine, 10 euro)