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Il Mahatma e Sir Winston

di Federico Rampini - 09/07/2008

   
Gandhi and Churchill di Arthur Herman costituisce un peculiare approccio biografico a due uomini che segnarono la storia del mondo. Basato sul confronto fra i due leader, il libro non parte dai loro successi rispettivamente nell’indipendenza indiana e nella Seconda guerra mondiale, quanto piuttosto dai loro errori: secondo Herman, Churchill sottovalutò il ruolo del leader indiano e contribuì al disfacimento dell’impero britannico, mentre Gandhi non capì il pericolo nazista e non riuscì a gestire il fanatismo religioso di cui rimase vittima.
Federico Rampini segue il ragionamento di Herman restituendoci alcuni tratti di due uomini che divennero icone del proprio tempo.


È difficile immaginare due vite parallele e al tempo stesso così diverse. Da una parte l’apostolo della non violenza; dall’altra un vincitore della Seconda guerra mondiale. Uno è il simbolo del dialogo fra le religioni e della tolleranza multietnica, l’altro è un paladino della superiorità europea. Per il primo la libertà è un dono di Dio; per il secondo è il valore supremo della civiltà occidentale. Gandhi e Churchill si sono visti di persona una sola volta, brevemente, nel 1906 a Londra: un incontro fugace e insignificante. Hanno passato il resto della loro vita a non capirsi, a combattersi a distanza, cercando di trascinare la storia del Novecento in direzioni opposte.
Mohandas Karamchand Gandhi nasce nel 1869 in una piccola città di provincia del Gujarat, a nord di Bombay, da una famiglia della casta dei banias (mercanti). [...]. In un ambiente impregnato di spiritualità, molti conoscenti e amici di famiglia sono giainisti, appartengono a una religione che insegna il vegetarianesimo e il rispetto di tutti gli esseri viventi [...]. Secondo le consuetudini, all’età di tredici anni i genitori lo sposano con una bambina di loro scelta, figlia di un commerciante.
Più giovane di cinque anni, nel 1874 Winston Leonard Spencer Churchill vede la luce in un ambiente che è davvero l’altra estremità del mondo. Nasce nel palazzo più grande d’Inghilterra dopo la dimora reale, il castello di Blenheim: 187 stanze. Tra i suoi avi annovera il primo duca di Marlborough, il generale le cui vittorie all’inizio dell’Ottocento hanno contribuito a costruire l’Impero britannico. A differenza di Gandhi il piccolo Churchill ha un’infanzia infelice. È trascurato dalla madre, impegnata con troppi amanti. Il padre Randolph è un politico brillante e ambizioso che ricambia la sconfinata ammirazione di Winston con il disprezzo, abbandona il figlio in collegio, e da vecchio viene distrutto dalla sifilide. Le strade di Gandhi e Churchill si avvicinano - senza veramente incrociarsi - per la prima volta in un paese lontano dall’India e dall’Inghilterra. È in Sudafrica che Gandhi fa carriera come avvocato e scopre la sua prima vocazione politica: difendere i diritti civili della minoranza indiana, immigrati colpiti dalle discriminazioni e dall’apartheid. Nella guerra dei Boeri (1899-1902) Gandhi aiuta gli inglesi creando un corpo di volontari indiani per soccorrere ai feriti. È la stessa guerra in cui Churchill si distingue per il suo eroismo militare combattendo in un reggimento di cavalleria degli ussari di Sua Maestà. Da lì si trasferisce in India, dove riempie i tempi morti della guarnigione studiando la storia dell’antica Roma di Gibbon, la storia inglese di Macaulay, e L’origine delle specie di Darwin.
Per la prima volta oggi uno studioso si cimenta con il confronto tra due icone così universali e antitetiche, scrivendone le biografie incrociate. Arthur Herman ha appena pubblicato Gandhi and Churchill (editore Bantam, Londra e New York). Il sottotitolo è: L’epica rivalità che distrusse un impero e diede forma alla nostra epoca. Herman prende in contropiede la tradizione agiografica. Castiga il vizio di interpretare queste due vite nel modo più scontato, cioè partendo dall’apice della gloria per illuminare tutto il percorso dei due personaggi. Lui fa il contrario. Il massimo dell’attenzione la dedica alle loro sconfitte. Perché gli insuccessi di Gandhi e quelli di Churchill sono collegati fra loro. I due sono entrati in rotta di collisione anche per le loro speculari rigidità, l’incapacità di dialogare e di trovare dei compromessi. Forse furono simili proprio in questo: ebbero in comune una tenacia che sconfinava nell’ostinazione, visioni grandiose e profetiche che potevano diventare ossessive, monomaniacali. Dei loro trionfi sapevamo già quasi tutto. Sono giganti della storia che hanno plasmato due nazioni. Il loro irriducibile antagonismo è meno esplorato. I loro errori oggi ci incuriosiscono di più.
Churchill è ricordato per la sua lucidità nel capire il pericolo nazista, la forza con cui trascina l’Inghilterra - per un tempo da sola - a resistere contro la travolgente avanzata delle potenze dell’Asse, per l’abilità che dispiega nel convincere Roosevelt a far scendere in campo l’America. È anche un notevole scrittore, premio Nobel della letteratura nel 1953 per la sua storia della Seconda guerra mondiale. Ma non riuscirà mai a capire Gandhi, che gli ispira solo irritazione. Lo definisce «un avvocaticchio che si atteggia a fachiro, una figura comune in Oriente». Per tutta la sua vita resta convinto che l’Impero britannico è una forza benefica, un pilastro di stabilità su cui fondare l’ordine internazionale, un maestro di progresso per i popoli dominati. Rifiuta l’idea dell’indipendenza indiana: «Non sono diventato primo ministro per presiedere allo smantellamento dell’Impero britannico». Bisogna aspettare che gli elettori inglesi lo caccino all’opposizione dopo la vittoria contro Hitler: l’India diventa sovrana nel 1947 quando a Londra governano i laburisti. Con un errore di valutazione storica che oggi sembra incredibile, Churchill ha una ripugnanza identica verso il nazismo, lo stalinismo e il gandhismo. Gli sembrano avere una caratteristica in comune, quello scatenamento di movimenti di massa che nel Novecento sconvolgono l’ordine costituito.
[...] Nell’Impero britannico vede un potere disciplinante, che può portare modernità e libertà attraverso regole e istituzioni collaudate. È l’unico statista mondiale a non esprimere le sue condoglianze per l’assassinio del Mahatma nel 1948. Quell’uccisione gli appare, scrive Herman, «solo un morto in più nella lunga catena di stragi» provocate dal fanatismo religioso. Malgrado il suo acume di studioso della storia, Churchill non si rende conto che un suo errore ha accelerato i tempi della decolonizzazione: nella Prima guerra mondiale la sua decisione di lanciare l’offensiva di Gallipoli contro la Turchia ha alienato alla Gran Bretagna l’appoggio della minoranza musulmana in India, gettandola (per un po’) nelle braccia di Gandhi. La pervicace opposizione all’indipendenza indiana lo ha indebolito perfino in Inghilterra, rendendolo meno credibile quando negli anni Trenta lancia profetici avvertimenti contro il pericolo del riarmo tedesco.
Gli errori storici di Gandhi non sono meno gravi. Il suo pacifismo gli fa velo al punto di trasformarsi in una folle ingenuità di fronte al nazifascismo. Quando insiste perché i soldati inglesi lascino l’India nel cuore della Seconda guerra mondiale, non capisce che spianerebbero la strada al ricongiungimento delle forze tedesche e giapponesi, consegnando a Hitler il petrolio del mondo arabo. Durante i bombardamenti della Luftwaffe su Londra lancia agli inglesi un appello sconcertante: «Invitate Hitler e Mussolini a prendersi quei Paesi che considerate vostri. Lasciate che s’impadroniscano della vostra bella isola. Gli darete la terra ma non le vostre menti né le vostre anime». Agli ebrei tedeschi perseguitati dal nazismo consiglia di «dimostrare con calma che la forza di soffrire è un dono di Dio, e la dignità umana convertirà i persecutori». Anche agli etiopi aveva suggerito di non resistere contro le truppe italiane, fino ad accettare lo sterminio, «perché tanto a Mussolini non serve conquistare un deserto». Se l’India fosse caduta nelle mani dei giapponesi - che ci arrivarono molto vicini, in Birmania e a Singapore - la storia della guerra mondiale poteva cambiare. Hitler da parte sua aveva le idee chiare su Gandhi. Nel 1938, prima che esplodessero le ostilità, aveva offerto un consiglio disinteressato a Lord Halifax sul modo migliore per trattare il movimento indipendentista indiano. «Fucilate Gandhi per primo - aveva detto il Führer - e se non basta fucilate una dozzina di leader del suo partito del Congresso. Se ancora non basta fucilatene duecento. E andate avanti così, finché l’ordine sarà ristabilito».
Le vite di Gandhi e Churchill si concludono su fallimenti paralleli. Le battaglie a cui tenevano di più non sono quelle in cui hanno trionfato. Per Churchill l’ambizione più grande era tenere unito l’Impero britannico, che invece si disintegrò in pochi anni dopo la sconfitta di Hitler. Per Gandhi il traguardo era l’affermazione dell’amore universale: dovette assistere impotente alla tragedia della Partizione1 , la secessione del Pakistan voluta dai leader islamici, i terribili pogrom fra le comunità indù, musulmane e sikh che fecero quasi due milioni di vittime. In un certo senso l’uno e l’altro furono prigionieri di una visione idealizzata del passato: per Churchill la missione civilizzatrice dell’Impero britannico, il «fardello dell’uomo bianco»; per Gandhi il mito dell’India ancestrale fondata sull’economia dei villaggi, l’autarchia, il rifiuto dello sviluppo economico. [...]

NOTE
1 Partizione: violenta separazione fra induisti e mussulmani avvenuta nell’Agosto del 1947. Dopo la conquista dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, si verificarono aspri scontri religiosi, che portarono alla costituzione di due Stati indipendenti: India e Pakistan. 11 milioni fra induisti e pakistani si trasferirono rispettivamente nei due nuovi Stati: fu uno dei più grandi migrazioni forzate di massa nella storia dell’umanità. Durante l’esodo, gli scontri fra le due comunità portarono alla morte di oltre mezzo milione di persone.