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Quando la donna è il cattivo genio dell'uomo (e di se stessa)

di Francesco Lamendola - 09/07/2008

 

 

L'uomo e la donna si cercano per istinto, ma raramente il loro incontro è armonioso e tale da donare ad essi conforto, sostegno, incoraggiamento al fine di realizzarsi reciprocamente come persone. Un equivoco di fondo fa sì che essi credano di parlare delle stesse cose e di nutrire i medesimi impulsi e desideri; mentre sentono, pensano e vivono su due piani di realtà enormemente distanti l'uno dall'altro e, spesso, incompatibili.

Quando si tratta di un incontro riuscito, non vi sono quasi limiti a ciò che queste due creature possono fare insieme, e a ciò che possono fare l'una per l'altra (cfr. il nostro articolo Nella parabola del Maestro e Margherita l'incontro felice tra il maschile e il femminile, consultabile sul sito di Arianna Editrice). Ma ciò accade di rado, e per un motivo abbastanza semplice: il requisito essenziale è quello che l'uomo e la donna siano veramente uomo e donna; che conoscano a fondo se stessi, e sappiano giudicarsi senza indulgenze né ipocrisie. Solo a questo patto, la loro unione diverrà la somma di due forze positive, feconda di solidarietà e comprensione, e non il terreno di scontro di due debolezze cariche di frustrazione e di rancore.

Per l'uomo, è cosa relativamente facile lasciarsi irretire da un ideale femminile negativo, che personifichi le sue pulsioni inconfessabili e nel quale egli possa trovare lo sfogo brutale dei sensi, ma al prezzo di degradarsi davanti a se stesso e di distruggere ogni fiducia nella possibilità di una comunione spirituale con la donna, ridotta ora al rango di animale da letto. Ne ha parlato, con straordinaria acutezza, lo scrittore C. S. Lewis nelle sue Lettere di Berlicche, e nessuno ha saputo dipingere meglio il pericolo mortale costituito, per l'uomo, dal lasciarsi andare a un tal genere di passione (cfr. F. Lamendola, La « Venere infernale » come pedina diabolica nella partita che ha per posta l'anima dell'uomo, sempre sul sito di Arianna).

 

L'incontro felice tra uomo e donna è già di per sé una cosa difficile; ma, con l'avvento della modernità, esso si è appesantito di una difficoltà ulteriore: lo spirito di spossante competizione e, tendenzialmente, di autentica inimicizia, provocato dalla diffusione delle teorie femministe. Non è un caso che le prime, acute rappresentazioni letterarie di questa nuova difficoltà, tutta "moderna", vengano dal mondo scandinavo, ossia da quelle società ove, per prime, le idee femministe sono state recepite dalla cultura corrente e dall'ordinamento giuridico.

Alcuni dei drammi più intensi di Henrik Ibsen (1828-1906) ruotano intorno a queste figure femminili deliranti, assetate di libertà illimitata, ma congenitamente incapaci di donarsi, le quali, nell'incontro con l'uomo, sanno portare solamente rabbia, dolore e una sottile istigazione ad autodistruggersi.

In Hedda Gabler, ad esempio, la protagonista, prima di finire ella stessa suicida, spinge al suicidio un suo antico amore, lo scrittore Eylert Lövborg, per la sola ed unica ragione che lei è totalmente insoddisfatta della propria vita, mentre lui, a distanza di anni, da debole e inconcludente che era, è divenuto un uomo energico e fiducioso, grazie all'amore di un'altra donna.

Ne Il costruttore Solness la giovane Hilde Wangel (figlia della protagonista del precedente dramma  La donna del mare) esige dall'uomo che ama che mantenga una promessa fattale quand'era soltanto una bambina, e che salga - lui che soffre di vertigini - in cima alla torre della sua casa nuova, per appendervi la corona inaugurale. L'uomo lo fa e, giunto in cima, precipita, uccidendosi. «Ma ha toccato la cima - grida Hilda, esaltata dal suo tragico trionfo - e ho sentito suoni d'arpa nell'aria». Solness è morto, ma Hilda, cui da piccola egli aveva promesso un regno, ha l'illusione di aver realizzato il proprio sogno segreto, e ne è comunque appagata.

 

Lo scrittore, tuttavia, che più di ogni altro ha messo spietatamente a nudo i meccanismi perversi di una femminilità che non riesce a incontrarsi armoniosamente con la virilità, ma, al contrario, trasforma la naturale attrazione fra uomo e donna in una lotta selvaggia e senza quartiere, è senza dubbio August Strindberg (1849-1912), anche perché egli vi ha portato il sofferto bagaglio della sua personale esperienza.

Molto si potrebbe dire - ed è stato detto - sulla sua misoginia, sulla sua mania di persecuzione, sui suoi complessi sociali (come quello di essere «il figlio della serva»), tutti elementi i quali, certamente, potrebbero renderlo un "testimone" assai poco attendibile; ciò non toglie che la sua analisi sia di una lucidità impressionante. Pertanto, se è vero che egli è passato attraverso una delusione esistenziale che lo ha condotto ad abbattere l'idolo femminile, da lui inizialmente idealizzato, trasformandolo nella figura inquietante del vampiro che distrugge spiritualmente l'uomo, questo però non rende inattendibile il quadro da lui tracciato.

Chi troppo si fida di qualcuno, troppo rimane, poi, deluso e finisce per cadere in uno stato di sfiducia totale e irrecuperabile verso i propri simili (cfr. F. Lamendola, La grande minaccia a una vita piena e consapevole è la sfiducia negli uomini e nelle idee, sul sito di Arianna). D'altra parte, la disponibilità a fidarsi dell'altro è un requisito indispensabile per la costruzione di relazioni affettive gratificanti e positive, nelle quali la possibilità di evolvere spiritualmente grazie all'aiuto reciproco è in relazione diretta con la capacità di aprirsi e di mostrarsi come si è veramente, senza difese e senza nascondimenti. Equilibrio quanto mai difficile e delicato, che richiede il concorso di due personalità coraggiose e leali: per cui è sostanzialmente vero il paradosso che una vera relazione tra due persone diviene possibile, solo quando ciascuna di esse ha sviluppato la capacità di essere perfettamente autonoma.

Ma, tornando a Strindberg, bisogna riconoscere che egli, in tempi assolutamente non sospetti, ebbe una chiara intuizione di quale piega disastrosa avrebbero preso i rapporti fra uomo e donna, una volta che quest'ultima avesse raggiunto, nelle forme desiderate, la piena emancipazione sociale ed economica.

In una lettera all'amico Carl Larsson, scritta da Copenaghen il 27 maggio 1887 - dunque, all'età di trentotto anni -, egli così si esprimeva in proposito (da: Thérèse Dubois Janni, August Strindberg: una biografia, traduzione italiana dell'Autrice e di Marco Janni, Gabriele Mazzotta Editore, 1970, p. 102):

 

Due anni fa quando ti parlavo del socialismo, tu rispondevi: niente socialismo, piuttosto anarchia! Esperienze, studi, la vita mi hanno portato proprio a questo: sono un anarchico! Ma dillo, scrivilo, e non troverai più un sasso su cui poggiare il capo nella solitudine, meno ancora un rifugio o una casa!

La mia aspirazione è stata sempre: nessun legame, nessun programma, libertà per tutto e tutti, libertà per noi di sconfiggere le superstizioni, i privilegi, l'autorità.

I giovani invece se ne stanno a studiare un programma, e tutto quello che i giovani fanno è liberale.

Nella loro stoltezza essi lavorano per una nuova classe privilegiata. Le donne, che devono avere diritti senza i doveri corrispondenti Diritto di voto senza obbligo di leva, diritto di invadere il mercato del lavoro maschile senza obbligo di mantenimento della famiglia. E così via. Questa non è libertà per l'uomo, ma soltanto per la donna.

Io non sono d'accordo, e mi chiamano conservatore!

Non sono neppure d'accordo che gli operai dell'industria da soli (una minoranza) debbano riformare la società, ma voglio includere contadini e servi. Conservatore!…

 

Dicevamo delle dolorose esperienze personali che hanno spinto un uomo come Strindberg, così attratto dal sesso femminile, a collezionare esperienze affettive fallimentari. Più di ogni altra, ha pesato nella sua vita - degradando irreparabilmente la sua immagine della femminilità -  quella con l'attrice Siri von Essen, che fu sua moglie per alcuni anni travagliati e che gli diede dei bellissimi bambini. Alta, elegante, bionda, sensuale e ambiziosa, ella era anche nobile, cosa che fece scalpore perché non si era mai vista, prima d'allora, una baronessa calcare le scene del teatro, ambiente borghese per eccellenza.

Il matrimonio, dopo un breve idillio iniziale, si trasformò gradualmente in una tortura insopportabile per entrambi: qualche cosa di molto simile all'infernale e distruttivo ménage dei due protagonisti del bergmaniano Scene da un matrimonio. Lui era geloso e istintivo, lei era naturalmente desiderosa di essere ammirata da tutti; e non solo le piaceva fare la civetta con gli uomini, aveva anche un segreto che il marito scoprì poco a poco: amava le donne.

Nel libro Autodifesa di un folle (scritto in francese: titolo originale. Le plaidoyer d'un fou, 1887-88; traduzione italiana di Giuseppe De Col, SE, Milano, 1989), «un libro atroce», come lo definì il suo stesso autore, Strindberg smaschera senza misericordia il lato oscuro di Siri, a partire da quando egli fece la scoperta delle inclinazioni omosessuali di lei (pp. 212-213).

 

Dunque, una sera che la cameriera stava stendendo il copriletto nella stanza di Maria, che era contigua alla mia, sento gridolini soffocati, dei risolini smorzati, nervosi come provocato dal solletico. Avverto uno strano dolore, e, cedendo a una angoscia inspiegabile, pronta a trasformarsi in furore, spingo bruscamente la porta e sorprendo Maria con le mani nel busto della cameriera, mezza nuda, con le labbra avide vicino ai seni splendenti di un biancore da madreperla.

«Cosa state facendo, disgraziate! Siete pazze, in verità», gridai, con voce tonante.

«E allora? che c'è?… stavo giocando con la domestica», mi risponde sfrontatamente Maria. «Ti riguarda forse?».

«Sì, mi riguarda. Vieni qui».

E, faccia a faccia, le spiego la licenziosità del suo comportamento.

Ma lei si ribella contro ciò che volgarmente chiama la mia «sporca fantasia». Mi accusa di essere un depravato, che vede ovunque azioni vergognose.

È pericoloso sorprendere una donna in flagrante. Costei mi riversa sul capo pitali d'ingiurie.

Durante la discussione, le ricordo l'amore che un tempo mi confessò, quell'amore insensato per la cugina, la bella Mathilde. Col tono più innocente del mondo mi risponde che anch'ella si era grandemente stupita di quell'amore, non immaginando «che fosse possibile ad una donna innamorarsi di un'altra in modo così folle».

Disarmato da quell'ingenua confessione, mi ricordai che in effetti Maria, in casa di suo suocero, aveva pubblicamente proclamato i suoi sentimenti d'amore per la cugina, senza arrossire, senza neppure rendersi conto del crimine che così commetteva.

Eppure la cosa mi irrita. In termini controllati le consiglio di astenersi da quelle pratiche, forse innocenti all'inizio, ma presto lascive e capaci d'avere deplorevoli conseguenze.

Allora lei comincia a sragionare, a trattarmi da imbecille - mi tratta sempre così, come l'ultimo degli imbecilli -, e alla fine dichiara che mento.

A che scopo spiegarle che il codice condanna ai lavori forzati questo tipo di crimini? Perché convincerla che quei palpeggiamenti eccitanti il piacere sono, nei trattai medici, classificati come vizi?

Sono io il dissoluto, essendo a conoscenza di tutti i vizi! E niente può distoglierla dai suoi giochetti innocenti.

È una di quelle incoscienti scellerate che sarebbe preferibile chiudere negli istituti di correzione speciali per donne, piuttosto che tenerle a casa propria.

 

E più avanti, nello stesso libro, Strindberg si è rivelato sono in fondo, in quelle che sono forse le pagine più straziate da parte di un marito che non riesce a farsi amare dalla propria moglie, e che la vede innamorarsi senza vergogna, sotto i suoi occhi, di altre donne (pp. 258-260).

 

In privato mi vendico e infliggo a Maria la punizione che merita.

«P…!».

«Perché?».

«Perché ti fai trattare da puttana!».

«Sei geloso?».

«Sì, certo; sono geloso; geloso del mio onore, della dignità della mia famiglia, del buon nome di mia moglie, dell'avvenire dei miei figli! E la tua cattiva condotta ci ha messi al bando dal consorzio delle donne oneste. Farsi baciare così in pubblico da un estraneo! Non sei che una pazza, sappilo, perché non vedi niente non senti niente, non capisci niente e rinunci ad ogni senso del dovere! Ma io ti farò rinchiudere se non ti correggi, e per cominciare ti proibisco da questo momento di vedere le tua amiche».

«Sei tu che mi hai incoraggiata a sedurre l'ultima venuta».

«Per tenderti una trappola e sorprenderti, sì!».

«ma hai delle prove sul tipo di relazioni che sospetti esistano fra le mie amiche e me?».

«Prove, no. Ma ho tutte le tue confessioni, le cose che mi hai cinicamente raccontato. E poi la tua amica Z… non ha forse dichiarati davanti a me che sarebbe stata condannata alla deportazione per le sue abitudini se fosse rimasta nel suo paese?».

«Credevo che tu non lo conoscessi, il "vizio"!».

«Che quelle signorine si divertano come meglio credono, questo non mi riguarda! Ma poiché questa "particolarità", se tu preferisci, ci causa delle noie, diviene per noi dannosa. In quanto filosofo, non esistono vizi per me, è vero, ad eccezione dei difetti fisici e psichici. E quando la Camera dei deputati di Parigi si è recentemente occupata di questa materia, ossia dei vizi contro natura, tutti i più illustri medici hanno convenuto che la legge non deve occuparsi di queste cose, salvo nei casi in cui i cittadini siano colpiti nei loro interessi».

Ma era come predicare ai pesci! Che illusione cercare di far capire una distinzione filosofica a quella donna che obbedisce solo al suo istinto bestiale!

Per liberarmi dalle voci che circolano, spedisco una lettera a un amico devoto di Parigi, pregandolo di dirmi tutto.

Mi risponde con franchezza che, secondo le opinioni arretrate degli scandinavi, mia moglie avrebbe un'inclinazione per gli amori illeciti, e che in ogni caso le due signorine danesi sono conosciute come lesbiche notorie a Parigi, dove frequentano i caffè in compagnia di altre lesbiche.

Indebitati con la pensione, senza risorse, non avevamo alcuna possibilità di fuga. Fortunatamente per noi, le danesi, che avevano sedotto una bellissima ragazza del paese, si attirarono l'odio dei contadini e furono costrette ad andarsene. Ma la frequentazione con loro, che durava ormai da otto mesi, non si poteva rompere così bruscamente, e poiché quelle ragazze di buona famiglia, bene educate, erano diventate mie compagne di sventura, desideravo preparar loro una ritirata onorevole. Un pranzo d'addio fu così organizzato nello studio di un giovane artista.

Al dessert l'ebbrezza non tarda ad esplodere, e Maria, trascinata dal sentimento, si alzò per cantare una romanza da lei composta sulla ben nota aria di Mignon. Diceva così addio all'Adorata.

Aveva cantato con slancio, con un sentimento così vivo, con quei suoi occhi a mandorla inumiditi di lacrime al riflesso delle candele,

aveva aperto così appassionatamente il suo cuore che, lo giuro, io stesso ne fui commosso e rapito! C'era in quel canto un'ingenuità, una sincerità così toccante che ogni idea lubrica svaniva udendo quella donna cantare d'amore per una donna. Fatto strano, ella non aveva né i tratti dell'uomo-donna, no, era la donna amante e tenera, misteriosa, enigmatica, inafferrabile.

E l'oggetto di quell'amore, bisognava vederlo! Rossa di pelo, mascolina di corporatura, naso ricurvo e pendente, doppio mento, occhi giallastri, guance gonfie dal troppo bere, il seno piatto, le mani adunche, era la donna più detestabile, la più esecrabile che si possa immaginare, una che neppure un servo di stalla avrebbe voluto.

Dopo aver cantato la sua romanza, Maria va a sedersi accanto al mostro, che si alza a sua volta, le prende la testa fra le mani con la bocca spalancata, le succhia le labbra in un bacio. «Almeno è un amore carnale», mi dico, e bevendo con la rossa l'ubriaco a morte.

Cade in ginocchio, mi guarda coi suoi occhioni sgomenti, emettendo ridolini e singulti da demente, con il corpo insaccato contro il muro.

Non ho mai veduto una mostruosità simile in forma umana, e le mie idee sulla emancipazione femminile si fissano una volta per tutte.

Dopo uno scandalo in strada, dove si trovò la figlia del pittore seduta su un paracarro a urlare terribilmente fra un conato di vomito e l'altro, la festa ebbe fine, e l'indomani le due amiche se n'erano andate.

Maria attraversa una crisi orribile che m'ispira solo pietà, tanto langue per la sua amica, tanto soffre, offrendo un autentico spettacolo di un amore infelice. Vaga solitaria per i boschi, cantando canzoni d'amore, ricerca i luoghi preferiti dall'amica, mostra tutti i sintomi di un cuore ulcerato, al punto che temo per la sua ragione. È disperata e non riesco a distrarla. Evita le mie carezze, mi respinge quando voglio abbracciarla, ed io comincio a detestare mortalmente quell'amica che mi riva dell'amore di mia moglie.

Maria, più incosciente che mai, non dissimula affatto la causa del suo soffrire. Ovunque risuonano gli echi dei suoi lamenti e dei suoi spasimi d'amore…

 

Come si vede, per Strindberg esiste una relazione fra l'emancipazione femminile, l'incapacità della donna di donarsi al suo uomo, e l'affiorare del fondo omosessuale presente nell'animo di lei.

Certo, è sin troppo facile obiettare che l'uomo non dovrebbe lamentarsi del disamore della propria donna, bensì fare in modo da guadagnarsi il suo amore. E Strindberg, evidentemente, non ne era in grado, visto che quella con Siri von Essen non fu certo la sua unica relazione fallimentare con una donna. Anche il suo secondo matrimonio naufragò miseramente, e in un tempo ancora più breve: due anni appena.

Ha scritto Nietzsche, in un aureo aforisma, che la donna non perdona all'uomo capace di attrarla, ma non abbastanza forte da attirarla fino a sé. Strinbger, probabilmente, piaceva alle donne - dopotutto, poteva considerarsi un bell'uomo, e per giunta con il fascino del poeta maledetto -, ma non sapeva legarle a sé, né trattenerle. E questa, forse, è la tragedia del maschio nella società moderna: non è forte abbastanza per stringere a sé la donna.

Sempre Nietzsche osservava, nello Zarathustra, che quando gli uomini sono incapaci di farsi amare veramente dalle donne, queste ultime si virilizzano. Straordinaria intuizione, se si pensa che veniva formulata all'inizio degli anni Ottanta del XIX secolo: più di centoventi anni fa. Oggi quella intuizione - o, se si preferisce, quella profezia - è divenuta realtà.

Gli uomini non sono abbastanza virili da saper legare a sé le donne, e le donne si mettono a giocare il gioco del maschio. Non necessariamente si dedicano alle pratiche di Gomorra: semplicemente, all'interno della relazione con l'uomo, sono esse ad assumere il ruolo virile.

Può darsi che, per alcune di esse - quelle, appunto, con una più spiccata componente di omosessualità latente; o, semplicemente, quelle frigide o più amanti del potere - ciò costituisca un surrogato accettabile alle soddisfazioni che, come donne, avrebbero potuto aspettarsi in una relazione equilibrata con l'uomo. Questo, almeno, è quanto può sembrare.

Tuttavia, per la gran maggioranza delle donne, siamo propensi a ritenere che un gioco così   innaturale finisca per diventare pesante (ogni gioco è bello purché sia di breve durata), e che i lati negativi non compensino adeguatamente i vantaggi. Prima o poi, il senso di profonda insoddisfazione finisce per emergere e per avvelenare ogni giorno, ogni ora. Non si può vivere in maniera serena, sentendo che si sta sacrificando  indefinitamente la parte più profonda e più vera di sé stessi.

 

Se questa è la diagnosi, più difficile è indicare dei possibili rimedi. Il male è già molto avanzato, si è radicato nella mente e nelle abitudini delle persone, divenendo parte - in apparenza - della normalità quotidiana.

Per tentare una inversione di tendenza, bisognerebbe in primo luogo ripartire da se stessi, mediante una doverosa - anche se difficile - operazione di verità. Per poter essere uomo o donna, bisogna prima essere persone.

Quante persone vi sono oggi in circolazione, nel gran mare degli automi eterodiretti, incapaci della benché minima riflessione critica su sé stessi, sulle proprie false certezze, sulle proprie comode vigliaccherie?