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Olimpiadi, umanesimo, trascendenza

di Renzo Giorgetti - 15/07/2008

 

1. Mentre milioni di persone nel mondo si apprestano a seguire, in un modo o nell’altro, il grande spettacolo dei giochi olimpici, ci sentiamo di scrivere queste brevi note per permettere di valutare meglio il fenomeno ed offrirne una visione più approfondita ed il più possibile corretta; inoltre approfitteremo di una simile occasione per considerazioni non solo contingenti, ma più generali riguardo a temi, come questo, che non sempre sono visti nella giusta prospettiva.

Incominciando quindi il nostro discorso con i giochi olimpici possiamo dire che questo grande spettacolo di massa, diviso tra gara, festa, dramma, manifestazione culturale e mondana, pur essendo uno di quegli eventi in grado di affascinare e di catalizzare l’attenzione del grande pubblico in maniera decisamente notevole, non sempre risulta pienamente chiaro ed intelligibile per quanto riguarda la sua ragion d’essere e la sua ideologia fondante. Un simile evento infatti, pur avendo la sua origine in attitudini ed inclinazioni naturali, si è però caricato con il tempo di valori e significati molto diversi.

L’amore per l’azione, tipica dell’uomo occidentale, lo ha sempre portato a cercare la competizione con i propri simili, esprimentesi in modi e forme differenti, e a stabilire a tal fine precise regole di condotta; l’attitudine competitivo-attivistica ha svolto in passato una felice funzione aggregante all’interno delle comunità e ha alimentato un clima di vitale socialità. Nell’Ottocento, che secondo Huizinga è il secolo della storia che più si è preso sul serio, queste esigenze a lungo trascurate ritornano in auge e cercano una loro espressione nuova, sia pure cercando di imitare le forme del passato. Il barone De Coubertin ed altri con lui, fermamente convinti del valore pedagogico dello sport come strumento di formazione del carattere, di educazione e di disciplina personale, decisero di lanciare una manifestazione in grado di permettere una competizione su scala internazionale, che potesse essere non solo un confronto tra i vari sportivi, ma anche un momento di socializzazione tra i popoli. L’idea fu quindi quella di riportare in vita gli antichi giochi olimpici (di pochi anni prima sono gli scavi archeologici ad Olimpia), ma il clima culturale profondamente cambiato colorerà presto di tinte differenti tale idea, il prodotto di un’epoca positivista, industrialista e di massa non potendo avere che ben poco in comune con un passato così lontano. E simili cambiamenti non furono solo di facciata, datosi che più che un semplice aggiornamento alla sensibilità dei tempi, vi fu un nuovo spirito animatore ed ispiratore.

Riproponendo nella forma moderna l’antica manifestazione infatti, la si caricò più o meno volontariamente dei nuovi valori caratteristici della nuova temperie culturale, valori che assomigliavano a quelli del passato solo in una maniera molto pallida.

Spesso si sostiene  a questo riguardo che l’olimpiade moderna, riprendendo il discorso interrotto secoli prima, sia una celebrazione pagana o paganeggiante; non condividendo una tale interpretazione, ci sembra giusto spendere due parole per descrivere le finalità delle feste sportive del passato.

Le olimpiadi antiche, come tutti gli altri giochi dell’Ellade, erano a tutti gli effetti delle ricorrenze sacre. Sempre legate ad un santuario, aperte da solenni sacrifici, condotte secondo precise regole e con precise prescrizioni, gli antichi ludi erano dei veri e propri riti che volevano celebrare la vittoria degli dei sulle forze infere, onorare le divinità e ricreare un legame con loro. Instaurando un parallelismo tra visibile ed invisibile, l’atleta con lo sforzo riviveva la lotta, con la vittoria esaltava se stesso ed onorava la divinità. Nell’era moderna tutto questo non è più presente, essendo venuto a mancare ogni collegamento con un ordine superiore, nell’olimpiade attuale infatti il discorso è mutato: l’uomo, avendo perso contatto con il Cielo, non può che rivolgere l’attenzione verso di sé e porsi al centro della scena.

Egli, vero protagonista dello spettacolo, recita tutti i ruoli previsti dal copione, attore e spettatore ad un tempo, prendendosi anche piuttosto sul serio. Quello che ne risulta è una specie di “rito civile” che vuole fornire alla massa un surrogato umano dei veri riti religiosi.

L’uomo celebra se stesso quindi, sia collettivamente, come umanità accomunata in una fratellanza intesa secondo la sua declinazione più bassa, cioè biologica, sia individualmente esaltando il vincitore, l’esemplare tipo che si è spinto oltre tutti gli altri suoi simili, l’uomo che ha vinto i vincoli della propria specie e gli ostacoli della natura onorando così l’intera umanità[1]. Egli è il divo, l’eroe, prototipo dell’uomo in perenne miglioramento. L’ideologia portante è chiaramente umanistica ed immanentistica, un’esaltazione dell’uomo che nel suo cammino evolutivo supera i propri limiti e si proietta verso una perfezione indefinita[2]; è logico che in simile contesto sia facile perdere il senso della misura.

Dove finisce la sana competizione sportiva e dove comincia un culto dell’azione fine a se stesso?

In questa celebrazione tutta umana non c’è forse il rischio di ripiegarsi verso un’autoidolatria? Anche il barone De Coubertin, nonostante fosse un appassionato sportivo, già dopo pochi anni aveva intravisto questa possibilità:

 

“Le plus naturel à l’homme quand il se détourne de Dieu, n’est-il pas le culte de

 soi-même[3]?”

 

2.

La frase del De Coubertin può portarci ad ulteriori considerazioni più generali riguardo questo tema. Egli era ben conscio infatti di come lo sport e la competizione non solo potessero essere eventi creatori di cultura, ma anche che questi potessero rapportarsi con lo spirito dei tempi ed esserne a tutti gli effetti rappresentanti e collaboratori.

 Nell’epoca del positivismo e dell’industrializzazione, lo sport può formare secondo questa concezione un uomo pratico, sano, disciplinato e responsabile, ben sviluppato nella propria totalità psico-fisica pronto ad agire nel mondo in maniera attiva, fiduciosa e piena. Un uomo educato in questa maniera potrebbe essere il più degno rappresentante di un’aristocrazia materiale pienamente in sintonia con lo spirito dei tempi.

Nelle sue “note sull’educazione pubblica” egli ammette infatti che: “la tendenza oggi è verso la cultura totale. Non è soltanto la democrazia che lo vuole ma è soprattutto la trasformazione del lavoro, il carattere industriale dell’epoca, la onnipotente dea Attività che già senza dubbio regna”[4].

Non solo, ma è anche la stessa democrazia che potrebbe aiutare, in un rapporto di simbiosi, lo stesso movimento sportivo: “lo sport è grandemente aiutato nei suoi progressi dall’intensa emulazione che risulta, ad un tempo, dalla democrazia e dall’internazionalismo” … “da ciò deriva che la democrazia è propizia allo sport; gli fornisce una base molto larga e delle risorse inesauribili per il reclutamento dei suoi adepti.[5]

Così il cittadino più utile alla nuova società non sarà lo spirituale o il contemplativo, ma “quello che entrerà nella vita attiva, già allenato allo sforzo collettivo, abituato inconsciamente ai movimenti, al ritmo, ai sacrifici che questo sforzo esige”[6].

Con il perfezionamento corporale dell’uomo si aggiungerebbe quindi anche quello morale, così creando un prototipo umano più in sintonia con la società e il mondo; questo contesto immanentistico risulta essere molto interessante soprattutto se lo si confronta con altri dati simili ma di fonte differente. L’epoca di qui stiamo trattando non fu soltanto caratterizzata dal materialismo, ma conobbe anche una decisa rinascita di un filone spiritualistico che con tinte più o meno misticheggianti cercava di rivisitare la tradizione europea e ridare nuovo slancio e una nuova direzione ai bisogni spirituali delle popolazioni. Così mentre da un lato la realtà diventava sempre più ristretta, limitandosi al solo ambito fisico, dall’altro si cercava, in maniera più o meno varia, una via per superare i vincoli della materialità e giungere a più alte vette di trascendenza. Se, per usare le parole di madame Blavatsky, “dalle acque stesse del materialismo sorge la corrente mistica”, così dal cuore stesso del positivismo ebbero origine tutte le scuole neospiritualistiche che vollero imporsi come sentimento religioso del tempo. Venne però in questa maniera a crearsi una tensione che portò a risultati spesso contraddittori e sicuramente negativi. Il materialismo ed una mistica priva di radici tradizionali non possono portare ad altro che a fraintendimenti e a distorsioni della realtà.

Se in una società così chiusa il soprannaturale non ha diritto di cittadinanza, essendo ormai nella cosiddetta epoca della secolarizzazione, “è invece il <<superumano>> che si approssima, ossia lo stato dell’uomo che attraverso la gnosi giungerà all’identificazione del proprio sé divino[7]”.

Realizzazione spirituale immanente da un lato, e dall’altra realizzazione delle proprie potenzialità fisiche nel mondo.

Mentre l’iniziato procede con i suoi “esercizi spirituali” per realizzare nella sua ristretta cerchia la ierofania, a livello pubblico con la creazione del nuovo uomo forgiato secondo i principi dell’attivismo e della democrazia si otterrà l’emersione di uno spirito creativo che “permetterà l’apparizione sulla scena della storia di una politica che si risolve in arte, in bellezza, in armonia.[8]

Alcuni anni dopo, nonostante gli stravolgimenti della guerra avessero reso questa atmosfera leggermente diversa, simili considerazioni furono pubblicamente espresse in maniera chiara ed efficace in un contesto piuttosto inaspettato, una conferenza teosofica. Ci sia d’aiuto una citazione.

Eugenio Pavia, esponente della Società teosofica italiana, nel 1920 tiene un discorso particolarmente significativo. Egli dicendosi certo dell’arrivo di una nuova era, naturalmente piena di nuova spiritualità, spiega come questa vedrà anche uno sviluppo delle qualità fisiche dell’essere umano e sarà contrassegnata non solo dalle “liturgie popolari”, ma anche da giochi ginnici, come “il salto, la corsa a piedi, il nuoto, la palla, il disco, il tiro d’arco, le danze classiche”, tutte attività in grado di fare riacquistare un “dinamismo plastico” e portare allo sviluppo di un nuovo tipo umano.

 

“Un mezzo quasi onnipotente per elevar gli individui, ma più le folle, a stati estetici di coscienza- sono gli spettacoli” […] “Poiché, salvo in casi specialissimi, la dura logica da sola non sa dar l’ali all’anima per sfere superiori: e la magia cerimoniale, questo convergere di suoni e tinte, di suoni e incensi, nelle feste di razza, di culto collettivo, nelle coreografie, nei misteri-opere, può compiere il prodigio, rapire invero le folle assorte”[9].

 

E la forma politica del nuovo ciclo sarà una “democrazia in volto d’armonia”, in cui opererà un ordine “che ha nome comunione”, incarnato da alcuni uomini in grado di unire potere temporale e spirituale in una nuova sintesi, quei “dolci despoti democratici” cantati da Whitmann, di cui si ebbe una prima realizzazione nei regimi degli anni ’20-40 e di cui, ne siamo sicuri, avremo sempre più a che fare nei tempi futuri.



[1] Il motto del Comitato Olimpico Internazionale è citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte).

[2] Durante le olimpiadi di Atene, nel 2004, le coreografie della cerimonia di apertura celebravano il progresso dell’umanità ed il suo cammino evolutivo.

[3] P.De Coubertin, Essais de psychologie sportive, Payot, Paris et Lausanne, 1913, p.134.

[4] P.De Coubertin, Notes sur l’éducation publique, Hachette, Paris, 1901, p.199 (traduzione nostra).

[5] P.De Coubertin, idem, p.200.

[6] P.De Coubertin, idem, p.225-226.

[7] G.Vannoni, Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica, Laterza, Bari, 1980, p.129.

[8] G.Vannoni, , idem, p.127.

[9] E. Pavia, A chi la bellezza?, in Gnosi. rivista bimestrale di teosofia, gennaio-febbraio 1921, p.37, citato in G.Vannoni, idem, p.127.