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Dal ricco politecnico medioevale alla moderna monotecnica, «pentagono» di un potere inumano

di Francesco Lamendola - 15/07/2008

Troppo in fretta la cultura contemporanea sembra essersi dimenticata di un pensatore del calibro di Lewis Mumford (Flushing, 1895- New York, 1990), autore di libri assai significativi come Storia delle utopie (1922), Il giorno d'oro (1926), La cultura delle città (1938), La condizione dell'uomo (1944); La città nella storia (1961), Il pentagono del potere (1964).

Mumford era un eclettico geniale e anticonformista, spregiatore dello specialismo miope e borioso, un umanista nel senso più ampio del termine; lo si sarebbe potuto dire un uomo del Rinascimento, nel senso migliore del termine. La vastità delle sue conoscenze in tutti i campi dello scibile, il suo acume critico e l'originalità e indipendenza dei suoi giudizi  gli consentivano di abbracciare l'intera vicenda della storia umana, delineando una vera e propria filosofia della storia universale, come un Burckhardt, uno Spengler o un Toynbee. Ma per molti esponenti della cultura ufficiale, che dovette digerire un po' di malavoglia il suo meritato successo di pubblico, egli era pur sempre un urbanista e un sociologo che si improvvisava filosofo della storia: per loro, la sua tensione verso una cultura organica, che conciliasse arte e tecnologia e consentisse una ricomposizione dell'immagine disgregata dell'uomo, era proprio ciò che tacitamente gli rimproveravano.

La sua avversione per l'idolatria della macchina e per lo strapotere della tecnica; la sua sensibilità per i mille camuffamenti che la tentazione totalitaria assume nella storia, in regime democratico ancor più che nei sistemi dittatoriali; la sua demistificazione di molti aspetti retorici e ipocriti della cultura americana e la scomoda obiettività con cui giudicava i fatti della storia (fu uno dei primi scrittori autorevoli a denunciare i bombardamenti aerei alleati sull'Europa e sul Giappone come azioni criminali): tutto questo era fatto per irritare segretamente molti di coloro che, facendo buon viso a cattivo gioco, avevano pur dovuto riconoscere l'importanza e l'autorevolezza della sua riflessione storica e antropologica.

D'altra parte, Mumford non aveva nulla del demagogo. A differenza di Sartre o di Marcuse, pur riconoscendo la giustezza e la profonda istanza etica del movimento studentesco degli anni Sessanta, non esitò a denunciare le forme aberranti da esso imboccate, la tentazione totalitaria in esso latente, l'equivalenza dei metodi violenti da esso impiegati rispetto a quelli degli apparati repressivi dello Stato (di nuovo: le mille maschere del potere!):. Non cercava la tribuna, non inseguiva l'applauso: era un uomo saggio ed equilibrato, cui la passione morale e civile non faceva velo alla lucidità dello sguardo con cui indagava la realtà a trecentossessanta gradi.

Soprattutto, era un urbanista che sognava un ambiente sociale integrato, armonioso, conviviale, ponendosi sulla stessa lunghezza d'onda - pur se con minore violenza polemica - di un Ivan Illich; ed era un umanista che sognava di veder conciliate scienza ed arte, funzionalità e bellezza, un po' come John Ruskin, William Morris ed altri utopisti del tardo XIX secolo. Non, si badi, un uomo del compromesso ad ogni costo; egli prendeva posizione con estrema chiarezza su ogni questione, su ogni implicazione della sua proposta neo-umanista. Per lui, la civiltà della macchina ha oltrepassato il segno e si è avviata su una strada fatalmente autodistruttiva; sosteneva con vigore che è necessario un cambiamento di rotta; e vedeva nella città organica, cresciuta in base alle esigenze delle single comunità, del lavoro, della cultura e dello svago, il modello sociale ideale, contrapposto alla città tecnologica, pianificata, centralizzata, eterodiretta, ove l'individuo è gettato a caso e alienato dalla parte migliore di sé stesso e della vita comunitaria.

 

Ma quando, esattamente, la civiltà occidentale ha incominciato a deragliare, quando è avvenuta la rottura con le proprie radici comunitarie, solidaristiche, creative, per consegnarsi a una pianificazione tecnologica basata sulla massimizzazione produttiva, su un efficientismo esasperato e su una tecnocrazia che ha preso il posto delle vecchie religioni?

Per Mumford, non c'è dubbio. Anche se alcuni segnali inquietanti si erano già verificati nella storia antica, in particolare all'epoca del "gigantismo" faraonico, di cui le Piramidi sono il simbolo e il prodotto, l'equilibrio si è spezzato definitivamente all'indomani del Rinascimento, con la cosiddetta Rivoluzione scientifica e con l'affermazione del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa, di sostanza spirituale e sostanza materiale. Tuttavia, segnali di una progressiva erosione dell'equilibrio erano incominciati fin dal 1300, quando - con la crisi del modello feudale - si era creato un "vuoto spirituale" che una nuova forma di religiosità laica aveva incominciato a colmare: il mito del lavoro produttivo, del profitto, della quantità; insomma, l'avvento della mentalità borghese, per sua natura quantitativa, di contro a quella aristocratico-feudale, per sua natura qualitativa.

In anni nei quali ciò non era affatto stabilito (e tanto meno di moda, come lo è oggi), Mumford rivalutava l'universo medioevale sostenendo che gli artigiani, gli architetti, i commercianti medioevali non ignoravano affatto le possibilità della macchina e, anzi, se ne servivano ampiamente (mulini a vento e ad acqua, tornio, orologio meccanico). Tuttavia, una serie di fattori concomitanti, sia materiali che psicologici, contribuirono a far sì che il meccanismo produttivo non si spostasse interamente sullo sfruttamento intensivo delle macchine, ciò che avrebbe stravolto l'intera struttura sociale e avrebbe reso, alla fine, l'uomo schiavo delle sue creazioni.

Cosa che è accaduta, invece, a partire dalla fine del XVI secolo, imponendo alla società europea (e alla sua appendice americana) ritmi di lavoro e di vita disumani e alienanti, i quali avrebbero bandito ogni spazio di spiritualità, creatività, bellezza e pura contemplazione estetica.

 

Nel suo libro Il pentagono del potere (titolo originale: The Pentagon of Power, 1964; traduzione italiana di Marina Bianchi, Il Saggiatore, Milano, 1973, pp. 235-239), Mumford coglie con estrema chiarezza quel passaggio cruciale della storia occidentale moderna:

 

[Nella] tradizione tardo medievale della tecnologia moderna [vi sono] due punti che di solito vengono trascurati. In primo luogo, non è vero che l'epoca compresa fra il XII e il XVIII secolo fosse tecnicamente stagnante, al contrario; come non è vero che l'unica produzione disponibile o apprezzata fosse quella a mano. Si trattava invece di una economia sempre più basata sulla sfruttamento di energia non umana, e le macchine, dal mulino ad acqua al mulino a vento, dall'orologio meccanico al tornio, erano parti integranti di essa. La combinazione di energia non umana e politecnico artigianale aveva promosso una maggiore libertà; ma il ritmo della produzione, il costante impegno in opere artistiche, le abitudini conservatrici degli antichi mestieri manuali, tutt'insieme riuscirono a impedire che tale economia  assumesse un dinamismo malsano o si trasformasse in una conquista unilaterale e disumana.

Nei paesi europei più avanzati i lineamenti di un'economia equilibrata, fondata su una tecnologia piena di risorse, erano apparsi entro il XVI secolo, e sarebbe bastato conservare con cura tutte le sue varie componenti per far sì che la nuova ondata di meccanizzazione andasse a beneficio degli uomini nei diversi settori del lavoro senza tuttavia snaturare l'equilibrio economico.

Il secondo punto da chiarire è che dal XIV secolo questa tecnologia cominciò a fuggire di mano, perché fu scossa la stabilità feudale fondata su usanze, consuetudini, costumi e riti, un crollo dovuto soprattutto al comparire dei nuovi principi e incentivi del capitalismo finanziario, coni suoi appetiti acquisitivi e la passione per l'incremento del numero e della quantità, in sé simboli di un nuovo tipo di prestigio, di nuove prese di potere. Queste motivazioni erano a loro volta esaltate dalle imperiose domande di armi e armamenti, in coincidenza con l'unificazione nazionale e l'espansione colonialista.

La messa a punto della nuova concezione meccanica a partire dal XVI secolo conferiva a tutti questi disparati sforzi la necessaria unità soggettiva perché potessero  avere il sopravvento: frattanto la tecnica stessa, da sempre radicata nella agricoltura sotto tutti i riguardi la sua industria fondamentale,  e radicata inoltre nel contesto regionale, si liberava  dagli antichi vincoli e limiti per trasformarsi gradatamente in una monotecnica, concentrata su velocità, quantità, controllo; tutti i fattori tendenti a limitare l'eccessiva crescita  della tecnica stessa, scomparirono uno a uno, e prosperava frattanto un'economia della macchina, al mondo in cui il cardo canadese  'è visto prosperare per un certo tempo nelle pampe argentine, dove con la sua invasione distrusse il complesso ecologico che teneva in equilibrio  l'ambiente. In questa trasformazione, la concezione meccanica del mondo in tutte le sue molteplici manifestazioni , svolse un ruolo forse non meno importante dell'intero insieme di novelle invenzioni.

Per tutti coloro che accettavano la concezione meccanicistica  del mondo, l'estensione del regno della macchina  a ogni possibile attività umana implicava qualcosa di ben più importante che non un semplice congegno pratico atto ad alleviare il peso della fatica o ad incrementare la ricchezza: con la graduale scomparsa dell'interesse religioso nella vita ultraterrena, le nuove attività meccaniche furono investite di un significato vitale, ch'era indipendente dai risultati più o meno felici, valutabili in base a una stima ragionevole e imparziale. Anche qui ritroviamo un elemento antico: come all'epoca delle piramidi, il processo di meccanizzazione veniva portato avanti da un'ideologia che dava la priorità assoluta alla macchina, conferendole un'autorità cosmica.

Allorché un'ideologia si fa canale di un significato così universale e incute tanta soggezione, essa in pratica è divenuta una religione, sicché i suoi imperativi morali posseggono la forza di dinamica del mito. Tutti coloro dunque che mettono in discussione le sue leggi, o sfidano i suoi ordini, lo fanno sempre a loro rischio e pericolo, così è accaduto per tutti i gruppi di lavoratori che continuarono a ribellarsi nel corso dei successivi tre, quattro secoli. Dal XIX secolo questa religione mascherata unì fra loro pensatori così diversi come Marx e Ricardo, Carlyle e Mill, Comte e Spencer, i quali tutti sottoscrissero le sue dottrine, e all'inizio dell'Ottocento anche le classi lavoratrici, vistesi impotenti di fronte a tali forze, contrapposero i loro propri miti a quelli del capitalismo e del militarismo, sicché sorsero socialismo, anarchia, comunismo, secondo i quali la macchina si doveva sfruttare a vantaggio delle masse proletarie anziché a esclusivo beneficio delle élite di potere. Contro simile utopia della macchina solo un pugno di eretici osò insorgere, e per lo più si trattava di poeti e artisti.

E affrettò il ritmo della meccanizzazione non solo il fatto che essa incarnava la nuova visione del mondo, ma la relativizzava: essendo parte di una precisa consapevole missione, e cioè l'ampliamento dell'impero meccanico, le richieste del progresso meccanico possedevano l'efficacia di un comandamento divino, che sarebbe stato sacrilego osteggiare, impossibile disubbidire. Davanti a questa ideologia il politecnico era perduto, ché gli mancava una equivalente ideologia cui ispirarsi; costretto infine a affrontare questa realtà, William Morris, l'artigiano archetipo, si convertì al comunismo marxista.

Essendo le sparse vocazioni, arti e mestieri vari, cresciuti nel corso dei millenni, la loro segreta sottostante unità era in gran misura costituita da una tradizione inconscia, i cui valori non avevano mai ricevuto una trasposizione filosofica,  e meno che mai un metodo sistematico comune a tutti.- La distinzione cartesiana fra una città antica sviluppatasi a gradi, casa via casa, strada dopo strada, e la città seicentesca sorta in base a un progetto singolo, unificato, a opera di un singolo costruttore, valga da analogia tra la diffusa tradizione politecnica e l'impianto della monotecnica. Il sistema di potere infatti tollera un solo tipo di complessità, che è quello conforme a se stesso, attinente al momento attuale, e uniforme al punto che e varie componenti sono in realtà delle parti intercambiabili, concepite, si direbbe, da una singola mente collettiva.

Dal XVII secolo in poi il culto quasi religioso della macchina venne portato avanti da alcuni fra i migliori ingegni disponibili in Inghilterra, Francia e America, i suoi leader erano dappertutto, attivissimi, tutti intenti a esaltare i meriti della meccanizzazione, a darne pratiche dimostrazioni negli uffici contabili, nella fabbrica, nell'esercito, nella scuola, e via via che aumentavano di numero, consolidavano i ranghi,  sempre più ravvicinando teoria e pratica verso un punto di convergenza. Contro questo compatti fronte ideologico gli esponenti della tradizione, atti, mestieri, scienze umanistiche, non avevano scampo, perché poveri di risorse, isolati e sparsi, esaurivano le poche forze in battaglie di retroguardia e, non di rado, cercavano di mitigare la propria debolezza restando ancorati a pratiche e ideali obsoleti. Esisteva, insomma, in ambedue i campi una grave lacuna, e cioè una mancanza di prospettiva storica, peraltro oggi ancora assente. Perché la scelta non fu mai quella fra un passato moribondo e irrecuperabile e un futuro dinamico e irresistibile: così posta la questione, essa è in ogni caso difettosa, comunque la si affronti.

In realtà erano aperte molte altre alternative oltre a quella scelta nei paesi d'Occidente e oggi rapidamente in via di inglobare l'intero pianeta. Fra i maggiori benefici delle individuate culture regionali e nazionali si deve infatti includere la possibilità di praticare e sperimentare opportunità diverse, in diverse condizioni, e la conseguente possibilità di procedere a un confronto dei risultati variamente ottenuti. Un filosofo della storia che solo rifletta un poco intorno alla varietà delle cose umane re naturali, sarà necessariamente portato ad ammettere che i processi selettivi che hanno luogo in natura pervengono nell'uomo a uno stadio superiore e culminante, e che, qualunque organizzazione delle attività umane, meccanica o istituzionale che sia, qualora tenda a limitare le possibilità di continuamente sperimentare, selezionare, emergere e trascendere, per favorire invece un sistema chiuso e completamente uniformato, è nientedimeno che un tentativo di arrestare l'evoluzione culturale dell'uomo.

Purtroppo la storia non poteva insegnare nulla a una cultura che l'aveva rifiutata, eliminandola dai suoi presupposti fondanti. E i vantaggi stessi della meccanizzazione non solo non furono assimilati nel già esistente e vivo politecnico, ma in parte vennero resi nulli, contrabbandati in cambio di un bel sistema meccanico a compartimenti stagni.

La conseguenza di questa eccessiva concentrazione nelle macchine è oggi fin troppo chiara e spiacevole: ogni errore, ogni difetto di tale sistemasi ripercuote ormai, spesso all'istante, a livello mondiale. Quanto più universale diventa questa nostra tecnologia, tanto minori sono le alternative possibili, e scompare sempre più la speranza di ricuperare l'autonomia nell'ambito di una qualunque delle diverse componenti del sistema. Non vorrei tuttavia anticipare i particolari di questa conclusione. Basterà per il momento tenere presente che, sebbene gran parte del politecnico tradizionale sia per sempre perduta, resta tuttavia il fatto che un politecnico diversificato è concetto da cui non può prescindere nessun sistema orientato verso l'uomo: a un simile sistema forniscono il modello esemplare non la macchina, ma l'organismo vivente e la personalità umana.

 

Altro che medioevo buio e oscurantista, tecnicamente stagnante e patologicamente avverso alle novità e al libero pensiero!

L'immagine che emerge dalle pagine di Mumford è quella di una società medioevale profondamente organica, le cui attività produttive sono diversificate in un complesso equilibrio di lavoro esclusivamente manuale, di lavoro supportato dall'uso delle macchine e di lavoro affidato in gran parte a queste ultime; e di una società che apprezza la capacità di produrre di più e con minor spesa, ma non fino al punto da sacrificare ogni cosa sull'altare di un produttivismo esasperato, di un livellamento del prodotto - e, per conseguenza, del gusto - e di una graduale scomparsa degli elementi di creatività affidati al singolo artigiano.

E quel che egli dice della società tardo-medioevale, vale anche per la società odierna. Non è vero che l'alternativa che oggi si delinea sia quella fra un modo di produzione che massimizza la quantità dei beni e dei servizi, ed un altro che volta le spalle al progresso e insegue il mito regressivo di un passato tramontato per sempre. Questo è quel che vorrebbero farci credere quanti traggono profitto dallo stato di cose esistente: uno stato di cose assurdo, che non sa guardare al benessere individuale e sociale, se non attraverso le lenti deformanti degli indicatori economici e, in modo particolare, del Pil.

Tuttavia, come ha osservato Maurizio Pallante, esponente del movimento della decrescita felice, se tutte le famiglie potessero disporre - ad esempio - di un orto, ciò per loro sarebbe sicuramente un bene, sia sotto il profilo finanziario, che sotto quello della salute; anche se l'acquisto di prodotti ortofrutticoli al supermercato diminuirebbe drasticamente, ciò che si ripercuoterebbe negativamente sul famigerato Pil.

Quando si parla di porsi l'obiettivo di un maggiore benessere per il nostro futuro, tutto sta a vedere se parliamo di un benessere esclusivamente materiale, o anche spirituale; e, soprattutto, se parliamo del benessere delle persone concrete o di quello che emerge, indirettamente, dalle fredde cifre degli indicatori economici.

In un sistema socio-economico, quale è quello odierno, dominato da ciò che Lewis Mumford denominava la megamacchina, ossia da una preponderanza schiacciante delle esigenze dell'apparato tecnico-industriale su tutte le altre, non vi sono dubbi che il benessere sia concepito come qualcosa di puramente quantitativo e di puramente astratto, ossia di statistico.

Ma non è quello che meglio realizza i nostri interessi vitali di persone concrete; al contrario.

Dovremmo riflettere profondamente su tutto ciò, magari andandoci a rileggere i grossi, argomentati e ben scritti libri di un autore oggi ingiustamente trascurato: Lewis Mumford.