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La tela della nostra vita è filata dalla mano altrui così come l'altrui lo è dalla nostra

di Francesco Lamendola - 18/07/2008

 

Osservando il mondo che ci circondata, le persone che agiscono, sperano, temono e occupano uno spazio nella società, umile o elevato, invidiato o disprezzato; e osservando superficialmente noi stessi, riandando al nostro passato, alle tappe della nostra carriera e della nostra vita sociale e affettiva, abbiamo l'impressione che ciascuno sia sostanzialmente l'arbitro del proprio destino, l'autore delle proprie scelte, il solo o il principalissimo responsabile del proprio successo o del proprio fallimento.

Naturalmente sappiamo, perché ci è stato detto e perché si accorda con il nostro buon senso, che nessun uomo è un'isola, e che un grande influsso sulle nostre scelte è prodotto dalle esperienze che facciamo dell'altro, nel bene o nel male. Tuttavia, ci piace mettere questa consapevolezza tra parentesi; perché, diversamente, ci sembra che la nostra dignità di persone, la nostra autonomia e la stessa stima di noi verrebbero gravemente compromesse o revocate in dubbio.

Casomai, è quando le cose non vanno bene, e le mete che ci eravamo prefissi ci sfuggono tristemente, che ci «ricordiamo» dell'influsso che l'ambiente e le circostanze hanno sempre esercitato su di noi, fin dalla nascita, con il segreto intento di alleggerirci dalla responsabilità dei nostri insuccessi e di addolcire la pillola della nostra frustrazione e della nostra amarezza. Ma, fin quando  le cose procedono nel senso da noi desiderato, è ben difficile che ci fermiamo a valutare l'importanza che la presenza dell'altro ha esercitato sulle nostre vite, perché questo ci costringerebbe a condividere con lui una parte almeno del nostro senso di soddisfazione.

 

In realtà, le cose stanno ben altrimenti.

La tela delle nostre vite è tessuta da innumerevoli influenze esterne, che iniziano fin dal momento del concepimento - se non da prima ancora - e alle quali partecipano, in misura alquanto diversa, migliaia e migliaia di persone, dalla mamma che ci ha allattati e cullati, fino allo sconosciuto che incrociamo per pochi istanti quasi ogni giorno, senza dedicargli una particolare attenzione e, anzi, il più delle volte, tendendo a non «vederlo» nemmeno. Molto più di quanto non crediamo, o non ci piaccia ammettere, la sinfonia (o la cacofonia) della nostra vita è il risultato dell'insieme di innumerevoli strumenti, che altri hanno suonato per noi, guidandoci passo passo in una certa direzione piuttosto che in un'altra; e, anche se noi ne abbiamo uditi solamente pochi in modo consapevole, è il sottofondo d'insieme che ha creato le condizioni per indirizzarci, volta a volta, verso il punto in cui ora ci troviamo.

Non se ne deve dedurre, però, che noi siamo soltanto dei fantocci nelle mani di un concorso di circostanze incontrollabili - genetiche, ambientali, sociali, affettive -, perché la vita non è qualche cosa di statico, e l'accumulo delle esperienze è precisamente il mezzo grazie al quale noi riusciamo (o dovremmo riuscire) a elaborare una nostra strategia consapevole, anziché lasciarsi sballottare di qua e di là dalla corrente. Senonché, noi diveniamo capaci di pervenire a questo stadio solo mediante l'immagine di noi stessi che ci siamo costruita, e della capacità di guardarla con onestà, accettandola sino in fondo: cosa che non può avvenire se non passando attraverso l'immagine che di noi si sono fatti gli altri, quelli stessi che hanno così potentemente contribuito a plasmare e modellare il corso della nostra vita.

Vi è, dunque, un continuo scambio reciproco di influenze e di elaborazione d'immagini: degli altri su di noi e di noi sugli altri; uno scambio dinamico e incessante, per cui la nostra consapevolezza e i nostri orientamenti esistenziali vengono incessantemente rimodellati e trasformati. Ma il concetto chiave è questo: ciascun essere umano, che ne sia consapevole oppure no, contribuisce a tessere la tela della vita di tutti gli altri, in percentuale minima o massima; tutti siamo responsabili - nel bene e nel male - di tutto e per tutti.

Il bambino che ha subito violenze, nove volte su dieci diverrà un orco, a sua volta, per altri bambini; il bambino che ha ricevuto molto amore, quasi certamente diverrà un adulto amorevole nei confronti del prossimo. In altri termini, noi «esportiamo» continuamente, anche se non lo crediamo e non lo vogliamo, tutto il bene e tutto il male di cui siamo portatori; tutta l'apertura e la chiusura, la generosità e l'egoismo, il coraggio e la paura, l'altruismo e l'egoismo, la solidarietà e l'indifferenza, la speranza e la disperazione.

 

Ora, è evidente che una responsabilità particolare incombe su coloro che, per scelta o per caso, si trovano ad operare con dei bambini o con dei giovani; a cominciare, ovviamente, dai genitori - che esercitanoil più difficile dei mestieri, per il quale non esistono corsi di abilitazione, concorsi ed esami, perché tutti danno per scontato - ma a torto - che, in qualche modo, crescere dei figli sia cosa relativamente semplice, dato che lo fanno tutti, o quasi. In realtà, la nostra responsabilità nei confronti dell'altro non si limita affatto ai bambini e ai ragazzi, e non ci investe solo nella nostra condizione di genitori, insegnanti, sacerdoti. Anche su persone adulte noi possiamo esercitare, medianti i nostri atti (e perfino mediante il solo fatto di esserci o di negarci) una influenza grandissima.

Il rapporto fra due esseri umani, di qualunque natura esso sia - professionale o affettivo, fugace o duraturo, responsabile o incosciente - si concretizza sempre mediante una relazione personale; e può accadere che, in determinate circostanze, un adulto sia più fragile e più influenzabile di quanto può esserlo un bambino o un adolescente. Di fatto, in termini statistici sono i giovani ad essere più esposti alle influenze degli adulti (sebbene possa verificarsi il contrario), il che rende particolarmente delicato il modo di porsi di questi ultimi nei confronti dei primi.

 

Prendiamo il caso, purtroppo ben noto alle cronache, delle violenze sessuali.

La vita affettiva di un individuo può essere pesantemente condizionata da un singolo atto compiuto da un adulto nei confronti di un bambino: ciò è cosa nota. D'altra parte, è probabile - anche se non matematico - che un adulto, il quale sia portato a ricercare delle attività sessuali con dei bambini, sia stato a sua volta condizionato da analoghi episodi avvenuti nella sua infanzia. Oppure può darsi che egli, pur non avendo subito violenze sessuali, sia cresciuto in un clima di timore per gli adulti e di repressione sessuofobica, introiettando le tossine di quel disagio nei confronti del sesso che, poi, hanno dato i loro amari frutti nell'età adulta. In genere, il colpevole è stato, a sua volta, vittima di qualcun altro o di qualche cosa d'altro: e ciò sia detto non per minimizzare la responsabilità individuale, ma per ricordare che il male - così come il bene - non è un insieme di atti isolati, ma un circuito, un ciclo completo (un po', ci sia consentito il paragone, come quello dell'acqua), in cui le energie messe in gioco finiscono per entrare in circuito da una situazione all'altra, da una generazione all'altra.

 

Un buon esempio di quanto stiamo dicendo - ma se ne potrebbero portare infiniti - è riportato dallo psicologo francese Ignace Lepp (1908-1966), già direttore dell'Istituto di Psicosintesi di Parigi, e del quale avevamo già avuto occasione di occuparci in altri articoli (ad es., in  la pesona si realizza, se riconosce e segue la propria vocazione, sempre sul sito di Arianna Editrice).

Nel suo libro Psicanalisi dell'amore (titolo originale: Psychanalise de l'Amour; traduzione italiana di M. Villerot, Edizioni Carabba, Roma, 1965, pp. 108-111),egli riporta il seguente episodio.

 

…Dotata di una sensibilità più fine e di più sentimentalismo, la ragazza prova il bisogno di amare e di essere amata molto più intensamente di un ragazzo. È normale che il suo slancio vada verso una «amica del cuore». Nessuno vede del male se due ragazze non possono fare a meno l'una dell'altra, se passeggiano abbracciate, si baciano, si fanno delle tenere confidenze a vice o per iscritto. Apparentemente non vi è che del «platonico». Può anche essere vero, sebbene lo psicologo del profondo quasi sempre scopre che le carezze e i baci hanno fatto provare alle partenaires una emozione che, lui, sa essere erotica, ma che loro credono «puramente sensibile».

Gli amori delle lesbiche adolescenti non danno luogo, nella stragrande maggioranza dei casi, a nessuna vera fissazione omosessuale, trattandosi di amori da sostituire, da rimpiazzare. Non appena le circostanze propizie si presentano, la ragazza preferirà senza esitare la tenerezza di un uomo a quella dell'amica del cuore. La stessa cosa avviene se i rapporti fra le due amiche sono stato esplicitamente erotici. Generalmente, è grazie a una iniziatrice più matura che si realizza il passaggio dall'amore lesbico platonico a quello erotico.

All'età di sedici anni Susanna è stata follemente innamorata di una sua professoressa di ventisette anni. Quando questa un giorno la baciò sulla gota per ringraziarla di una gentilezza, trasalì di gioia e di piacere. Ogni volta che l'occasione si presentava ricercava la sua compagnia e faceva in modo che fra loro ci fossero delle carezze e dei baci.  Durante le vacanze, la professoressa invitò Susanna a fare del camping con lei, i genitori acconsentirono. Sotto la tenda divennero amanti nel modo più esplicito. Ciò durò una quindicina di giorni, poi con la fine delle vacanze ci fu la separazione definitiva, la professoressa essendo stata nominata in un'altra città.

Ignoro se la professoressa di Susanna fosse o no una lesbica vera e sperimentata.  Due anni dopo, studentessa alla facoltà di lettere, Susanna ebbe il colpo di fulmine per una delle sue amiche che non tardò a iniziare ai piaceri di Lesbo. Divenuta professoressa di liceo ogni anno si innamorava delle sue allieve che sapeva condurre a desiderare e ad accettare le sue carezze. Era divenuta una seduttrice estremamente abile. Si può ancora parlare di abilità? Ogni volta Susanna era sinceramente convinta che quella era la volta del «grande amore».

È anche importante sapere che Susanna non era una virago. Femminilmente graziosa, si vestiva con gusto. Non provava assolutamente ripugnanza per gli uomini ree desiderava vivamente essere amata da un uomo per potersi liberare dal suo «vizio». Avrebbe voluto sposarsi. Solamente, diceva, non sapeva attirare gli uomini soprattutto perché le condizioni di esistenza di una professoressa in un liceo di ragazze non fornivano che poche occasioni a degli incontri maschili.  Un giorno di nuovo dolorosamente delusa per l'abbandono della sua amica, che le aveva preferito un «uomo qualunque», Susanna decide di esporre i suoi problemi a uno psicoterapeuta.

Appare che da bambina Susanna era stata molto attaccata a suo padre, di cui aveva molta paura. Uomo severo, la puniva spesso per la minima mancanza. Aveva anche compreso, ancora molto giovane, l'infelicità di sua madre che si lamentava spesso con le amiche, in presenza della figlia, della brutalità e dell'incomprensione degli uomini. La piccola Susanna comincia ad avere pietà delle donne sposate, in balia del marito-tiranno. All'età di sete anni la madre sorprende Susanna che guardava con un cugino della sua età «come sono fatti i ragazzi e le ragazze», essa viene battuta. Dalla pubertà la madre le ripete continuamente di fare attenzione agli uomini. Da allora comincia a cercarli e a fuggirli nello stesso tempo. Quando a sedici anni, sentiva per la prima volta il piacere erotico fra le braccia della sua professoressa, immaginava di trovarsi con un uomo. Poi divenuta essa stessa seduttrice e iniziatrice di ragazze a questi piaceri, aveva fatto in modo di non assumere unicamente il «ruolo maschile»: voleva anche essere desiderata e posseduta in quanto donna.

Significherebbe cedere a un eccessivo schematismo considerare Susanna e le sue simili delle lesbiche «nate»: non vi è in questo caso né problema di geni, né problema di ormoni. Non mi sembra neanche che si sia  autorizzati a ricorrere per spiegare un tale comportamento al determinismo psicologico. L'infanzia di Susanna e la sua educazione di adolescente avevano reso più numerosi e più insormontabili gli ostacoli che incontra, in quasi tutte le ragazze della nostra civiltà, lo slancio naturale verso un uomo del loro primo impulso di amore. Tuttavia, solo circostanze che bisogna considerare fortuite, hanno fatto di Susanna una lesbica. Se non avesse incontrata l'iniziatrice avrebbe fatto come tante altre:  si sarebbe avviata all'amore eterosessuale più o meno soddisfacente. Invece è incontestabile che i piaceri anche imperfetti degli amori lesbici, rendono difficile alla donna di sormontare con le sue proprie forze  le interdizioni inconsce all'amore di un uomo. Qualche mese di psicoterapia bastarono a Susanna  per normalizzare le sue tendenze amorose.

 

Susanna, dunque, abusava doppiamente della sua condizione di adulta e di insegnante, per sedurre le sue allieve e per condurle, con arti sottili, a desiderare le sue attenzioni sessuali.

A sua volta, però, ella era una vittima di una serie di circostanze della sua vita: il padre eccessivamente autoritario; la madre disgustata dal sesso e dagli uomini; il trauma della punizione per il suo primo, innocente gioco sessuale infantile; e infine - elemento determinante -, l'incontro con una insegnante che l'aveva spinta, decisamente, verso l'amore lesbico. Forse, a sua volta, quella giovane insegnante aveva alle proprie spalle una storia simile a quella della sua allieva; fatto sta che Susanna, divenuta ella pure insegnante nei licei femminili (una inconscia ricerca di identificarsi con  quella decisiva figura della sua vita di adolescente?), divenne un'abile seduttrice, così come lo era stata, nei suoi confronti, la sua professoressa di liceo.

Sullo sfondo, la mediocrità, il perbenismo e lo squallore della provincia francese (chi ha letto qualche pagina di Bernanos, di Julien Green o anche di Simenon, potrà capirlo meglio), che è poi la provincia tipica della nostra società post-moderna: opaca, smorta, ipocritamente «rispettabile», ma percorsa dal sotterraneo fremito di invidie e rancori inconfessabili e di brame disordinate d'ogni genere: per il denaro, per il potere, per il sesso. Una provincia che è un luogo dell'anima, una terra desolata dove non crescono fiori, ma solo cardi e arbusti spinosi; dove la gentilezza, la solidarietà, la benevolenza sono piante esotiche e sconosciute, e dove tutto quello che conta sono il decoro formale e le apparenze. Un luogo, insomma, dove ci si può sentire terribilmente soli e, inoltre,  costantemente osservati e giudicati da quelli stessi che non si sognerebbero di muovere un dito per andare in aiuto del prossimo.

 

Tuttavia, se molti scrittori e parecchi registi cinematografici hanno costruito la propria carriera nella descrizione spietata, e a volte compiaciuta, di questo sordido sottosuolo dell'anima, nondimeno dovremmo ricordare che l'efficacia dell'azione positiva, o della presenza positiva, non è affatto minore di quella negativa; e che, in fondo, ciascuno di noi sceglie di abitate nel luogo (in senso metaforico) che ama e verso cui si sente trasportato.

Il paesaggio spirituale, infatti - non meno di quello fisico - non è un elemento statico e definito una volta per tutte, ma suscettibile di continue modificazioni e di aggiustamenti mirati. Di conseguenza, noi possiamo essere, in una certa misura, gli urbanisti e gli agronomi del paesaggio spirituale cui apparteniamo, immettendovi una nota di lealtà, di responsabilità e di sollecitudine per l'altro, in modo da lasciare irrompere un raggio di sole attraverso la densa cortina grigia delle nuvole incombenti.

In effetti, ciascuno di noi collabora, per la sua parte - anche senza saperlo -, a quel grande cantiere aperto che è il paesaggio spirituale complessivo entro il quale si svolgono le nostre vite; ciascuno di noi contribuisce a tessere la tela di cui esse sono fatte.

La nostra personale convinzione è che, al di sopra di questo incessante filare di tanti piccoli ragni, vi sia un disegno più grande, dal quale il nostro volere è chiamato a collaborare e al quale possiamo rispondere in maniera affermativa o negativa. Ogni qual volta ci soffermiamo ad ascoltare un nostro compagno di strada, lo consoliamo nelle sue difficoltà, lo incoraggiamo nei suoi turbamenti, noi diciamo a quel più grande disegno; e ogni qual volta restituiamo male per il male ricevuto, o semplicemente riserviamo all'altro la nostra indifferenza e il nostro cinismo, è come se noi dicessimo no.

In fondo, è molto semplice.

Perché, appunto, nessun essere umano è un'isola che vive per se stessa, beatamente slegata e indifferente dal vasto mondo che la circonda, e che la pone.

Anche per questo, non possiamo permetterci il lusso di affermare che la nostra vita è soltanto nostra, e che non dobbiamo risponderne a nessun altro (cfr. F. Lamendola, Di chi è la mia vita?, sempre sul sito di Arianna).

La nostra vita è un po' di tutti gli altri, così come la loro è, un poco, anche la nostra.

Che ci piaccia o no, siamo legati per il male e per il bene: e dovremmo sempre ricordarcene, nei grandi e nei piccoli atti; quando scegliamo di essere presenti per l'altro, e quando decidiamo, invece,  di rimanere assenti.