Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La vita è una fiaba che non possiamo più capire una volta diventati grandi?

La vita è una fiaba che non possiamo più capire una volta diventati grandi?

di Francesco Lamendola - 23/07/2008

 

 

Non vi era stato altro modo di spiegarglielo, se non in termini di mito o allegoria: poesia dell'incertezza infantile. L'avevo ben ostruita, parola per parola, sulla parabola di un Egitto nel quale le sarebbero apparsi (ingranditi fino a sembrare dei o magi) i ritratti della sua famiglia dei suoi antenati. Ma non è forse la vita stessa una fiaba che non possiamo più capire, una volta diventati grandi?

 

È questa la domanda che pone a se stesso, a un certo punto, Darley, l'io-narrante del celebre «quartetto di Alessandria» dello scrittore anglo-irlandese Lawrence George Durrell (nato a Darjeeling, in India, nel 1912, e morto a Sommières, in Provenza, nel 1990), nell'ultimo romanzo della quadrilogia, Clea (titolo originale: Clea- Tge Alexandrian Quartet IV, 1960; traduzione italiana di Fausta Cialente, Mondadori, Milano, 1961, e Longanesi & C., Milano, 1973, pp. 10-12).

Se lo chiede al momento di presentarci la piccola, deliziosa figurina della figlia di Nessim e Melissa, che egli ha allevato per alcuni anni su di un'isola greca, dopo la morte della sua infelice madre, ballerina di tabarin malata di tubercolosi.

 

La bambina aveva gettato un mandarino in acqua ed ora si sporgeva per vederlo rotolare dolcemente giù sul fondo sabbioso della grotta. Si era fermato lì, ammiccando come una piccola fiamma, cullato dal movimento delle onde.

«Adesso guarda come vado a riprenderlo».

«Non in quest'acqua gelida, morirai dal freddo».

«Non fa freddo oggi. Guarda».

Sapeva già nuotare come una giovane lontra. Era facile, qui seduto sul piano della roccia sporgente sull'acqua, riconoscere in lei gli occhi intrepidi di Melissa, un po' lunghi sui lati; e, a volte, intermittente, come un granello di sono dimenticato negli angoli, il cupo sguardo indefinibile (supplichevole, incerto) di suo padre Nessim. Ricordai la voce di Clea che diceva una volta, in un altro mondo, molto tempo prima: «Bada, se a una ragazza non piace danzare e nuotare, non sarà mai capace di fare all'amore». Sorrisi e mi domandai se quelle parole erano vero mentre osservavo la piccola creatura voltarsi agile nell'acqua e scivolare con grazia verso la sua meta con l'agilità di una foca, le dita dei piedi puntate verso il cielo. Il barlume del piccolo, roseo spacco fra le gambe. Ricuperò abilmente il mandarino e risalì alla superficie serrandolo fra i denti.

 

Ma, se è vero che la vita è una fiaba che non siamo più in grado di comprendere allorché siamo diventato grandi, quali sono le ragioni di questa incomprensione, di questo oblio, che ci separa dalla parte migliore di noi stessi?

La risposta, forse, si trova nell'enunciato stesso della domanda: che la vita, cioè, è una fiaba in se stessa.

Ma l'io adulto non lo sa più; o, meglio, si rifiuta di crederlo.

Un'eco di questa notevole intuizione si trova nel cosiddetto «inno dell'amore», nella Prima lettera ai Corinzi di san Paolo (13, 11):

 

Da bambino parlavo come un bambino

come uno di loro pensavo e ragionavo.

Poi diventato uomo

ho smesso di fare così.

 

San Paolo, però, risolve il paragone tra l'io-bambino e l'io-adulto a tutto favore del secondo, come si deduce dai versetti successivi (id., 13, 12):

 

Ora

vediamo Dio in modo confuso

come in un antico specchio:

ma quel giorno

quando verrà ciò che è perfetto

lo vedremo faccia a faccia.

OralLo conosco solo in parte:

ma quel giorno

quando verrà

lo conoscerò come lui mi conosce.

 

Il bambino, perciò, è presentato in questo caso come colui che parla, pensa e ragiona in modo imperfetto; mentre l'adulto è colui che sa fare ciascuna di queste cose in modo adeguato. Il che è senza dubbio vero, se poniamo il parlare, il pensare e il ragionare come operazioni esclusivamente razionali e intese a fornire una rappresentazione del mondo quanto più possibile oggettiva, distaccata e «imparziale». Se, ad esempio, scegliamo di prendere in considerazione un ragionamento filosofico, o una legge scientifica, o la soluzione di un problema geometrico o matematico, non vi è il minimo dubbio che la capacità di ragionamento e di linguaggio di un adulto risulti più adeguata allo scopo, di quella di un bambino.

Tuttavia, questa è una verità relativa e non una verità assoluta.

Vi sono, infatti, degli ambiti nei quali la capacità di pensare e di esprimersi di un bambino risulta di gran lunga più adeguata di quella che è propria dell'adulto. Ne potremmo fare un elenco abbastanza lungo; che, tuttavia, crediamo si possa compendiare in questi termini: il bambino è infinitamente superiore all'adulto quanto alla capacità fantastica e immaginativa.

Il bambino, senza alcuno sforzo, può calarsi in un «mondo parallelo», dove non esiste la parola «impossibile» e dove può accadere qualsiasi cosa, senza i limiti imposti dal tempo, dallo spazio o dal principio di causa ed effetto. Lo fa, abitualmente, quando gioca: quando gioca davvero, intendiamo dire, e non quando viene parcheggiato davanti a dei giocattoli meccanici, i quali giocano al posto suo; o, peggio ancora, davanti a dei video-giochi, i quali predispongono per lui, e al suo posto, quell'ambientazione virtuale che egli, in condizioni normali, è in grado di evocare con la sua propria facoltà immaginativa.

Anche quando non gioca, tuttavia, il bambino conserva questa predisposizione e questa potenzialità, tanto più che, per lui, non esiste la rigida distinzione (tipica del mondo adulto) fra tempo magico del gioco e tempo profano della vita «ordinaria». Il tempo del bambino, infatti, è tutto, potenzialmente, magico; cioè, se si preferisce, «sacro»: in qualsiasi momento, le creature e le situazioni che stanno acquattate ai margini della vita ordinaria, possono fare irruzione dai loro nascondigli e travolgere vittoriosamente i paletti meticolosamente fissati dalla «ragionevolezza» e dal «buon senso» degli adulti.

La vita, per il bambino, è, dunque, una fiaba. Non «come una fiaba», o «somigliante a una fiaba»: no: una fiaba in se stessa, una fiaba vissuta dall'interno.

Attenzione: non vi è, in questa asserzione, nulla di sdolcinato, di melenso o di retorico. Non abbiamo detto: «una bella fiaba», perché non è detto che lo sia. Molto probabilmente, e come avviene in quasi tutte le fiabe, gli elementi gradevoli, entusiasmanti e gioiosi saranno variamente mescolati a quelli spiacevoli, deprimenti o, addirittura, paurosi; anche se, in linea di massima, i primi dovrebbero tendere a prevalere, almeno nel caso della vita normale di bambini inseriti all'interno di famiglie e società normali - qualunque cosa si voglia intendere con il concetto, certo generico ma intuitivamente riconoscibile, di «normalità».

Il bambino che, ascoltando la fiaba narrata da un genitore, non si immerge con tutta l'anima in essa; che non trema di paura quando la strega si avvicina alla bella fanciulla, e non freme di gioia quando il giovane principe giunge a liberarla sul suo cavallo bianco, non è un bambino normale -indipendentemente da quanto dura possa essere la sua vita di ogni giorno e, magari, poco consona alla sua età e alle sue esigenze infantili.

Il bambino che, passeggiando a sera nel bosco, non ritiene possibile che fate ed elfi gli appaiano in qualunque momento, non è un bambino normale. Il bambino che, dopo aver udito una storia di orchi e di incantesimi, non si rincantuccia sotto le coperte quando sarà giunto il momento di andare a dormire, sognando che qualcuno possa venire a tirarlo per le manica da sotto il letto per trascinarlo in chissà quali mondi indiavolati, non è un bambino normale.

Lasciamo ora da parte ogni discorso, perché non è questa la sede appropriata, circa non la realtà (che, per lui, è assolutamente evidente e indubitabile), ma la oggettività delle cose e delle creature che il bambino vede, ode, annusa o, semplicemente, immagina; ce ne siamo, peraltro, occupati in altro momento (cfr. il nostro articolo I bambini vedono cose che noi non vediamo, sui siti di Edicolaweb e di Arianna Editrice).

Notissimo, ad esempio, è l'episodio «fate di Cottingley», un paese dello Yorkshire ove, nel 1916-17, due cuginette inglesi non solo videro, ma fotografarono delle fate. Lo scrittore Arthur Conan Doyle lo studiò e vi credette, scrivendo sull'argomento il libro The Coming of the Fairie, nel 1922. Cinquant'anni dopo le due cugine, ormai anziane, ammisero - pur tra contraddizioni e reticenze - di avere falsificato, in gran parte, il materiale in questione. Eppure la loro posizione rimase differenziata sino all'ultimo: Frances è morta credendo nelle fate e sostenendo strenuamente che almeno una delle foto era vera; mentre Elsie ha sostenuto di non credere nelle fate e che tutta la storia era stata solo un gioco (cfr. A. Conan Doyle, Il ritorno delle fate, con un saggio introduttivo di M. Introvigne e M. W. Homer, Sugarco edizioni, Milano, 1992).

Lasciamo da parte, comunque, la questione della realtà oggettiva dei contenuti fiabeschi, perché quello che a noi interessa, ora, non è stabilire il grado di realtà di questo o quel contenuto, bensì evidenziare che tutta la vita è, per il bambino, una fiaba; e non solo quand'egli fantastica nel corso di un gioco, o quando ascolta le fiabe che gli raccontano gli adulti. Le cose, le persone e le situazioni  della vita ordinaria, cioè, vengono da lui percepite attraverso una particolare attitudine mentale e spirituale, che le trasfigura continuamente in altro da quello che esse appaiono allo sguardo e al ragionamento dell'adulto.

Ecco perché il bambino si commuove o si spaventa così facilmente, dal punto di vista dell'adulto, sì da dover essere costantemente rassicurato e rasserenato; così come, per lo stesso motivo, è soggetto ad entusiasmarsi e a gioire per quelle che, all'adulto, sembrano piccole cose, o anche delle cose che sfuggono, puramente e semplicemente, alla sua percezione. Si può anzi dire, senza timore di esagerare, che la vita del bambino e quella dell'adulto giacciono e si muovono su due diversi e separati piani di realtà, solo in parte comunicanti e, ad ogni modo, comunicanti sempre al prezzo di equivoci e fraintendimenti.

 

Il problema che ci sta a cuore è, ovviamente, sapere se esiste, per l'adulto, la possibilità di continuare a percepire la propria vita come una fiaba, senza smarrire la capacità di giudizio critico accumulata con l'esperienza, e senza cadere in un infantilismo di ritorno che corrisponderebbe a una penosa regressione del suo stadio di maturazione intellettuale, affettiva e spirituale. Ci domandiamo, in altri termini, se l'adulto possa conservare, o ritrovare, la capacità di percepire la propria vita come una fiaba, pur continuando a pensare, parlare e ragionare da adulto. È possibile, insomma, vivere contemporaneamente su due livelli di maturazione e su due piani di percezione della realtà, quello fantastico del bambino e quello logico-critico, proprio dell'adulto?

A nostro giudizio, la risposta è affermativa.

Innanzitutto, osserviamo che esistono alcune categorie di individui i quali sono effettivamente riusciti a realizzare questa coesistenza dei due piani di realtà: i poeti, anzitutto (come aveva intuito anche Giovanni Pascoli); gli artisti; i mistici. Stiamo dunque parlando di qualcosa che è possibile, qualcosa che è dato di constatare nella realtà fattuale; non di mere congetture.

D'altra parte, se ci domandiamo quale sia, esattamente, l'elemento grazie al quale il bambino - e alcune rare persone adulte - hanno il dono di percepire la propria vita come una fiaba, riteniamo che la risposta debba essere: la capacità inesauribile d stupirsi. Solo chi sa stupirsi davanti a ogni cosa,  comprese quelle apparentemente più semplici - come il frinire delle cicale sugli alberi in un caldo meriggio d'estate, o come il riflesso del sole al tramonto sui bordi delle nuvole che si aprono dopo la pioggia -, solo chi sa fare questo, è in grado di percepire la natura fiabesca della vita, e di vivere in uno stato di perenne incanto.

E, se lo stupore è la condizione a ciò necessaria e il mezzo per realizzare l'incantamento, un vivo e glorioso sentimento di gratitudine ne sarà, quasi immancabilmente, la conseguenza. Perché è impossibile cogliere l'essenza fiabesca della vita, ossia la sua dimensione di infinita possibilità, senza sentirsi anche, e per ciò stesso, invasi da un caldo fiume di benevolenza, gratitudine e amore per l'Essere che ci ha immessi in una realtà così meravigliosa.

Tutto, allora, diviene bellezza; tutto diviene grazia; tutto è motivo di ammirazione e infinita gratitudine.

Come scriveva, ancora, Lawrence Durrell, nel primo romanzo del «quartetto di Alessandria», Justine (1957; traduzione italiana di Liana M. Johnson, Longanesi & C., Milano, 1959, pp. 299-300):

 

Le cicale fremono nei grandi platani e l'estate mediterranea si apre davanti a me con tutto il suo magnetico azzurro. In qualche punto imprecisato, laggiù, dietro la tremolante linea grigioazzurra dell'orizzonte, si stende l'Africa,  Alessandria si leva, conservando la sua tenue presa sui nostri affetti mercé ricordi che già lentamente vanno ridissolvendosi nell'oblio: ricordi di amici, di casi lontani. La lenta irrealtà del tempo già comincia a impugnarli e a sfumarne i contorni, tanto che a volte mi chiedono se queste pagine registrano davvero le azioni di esseri umani reali, o se questa non sia piuttosto la storia di pochi oggetti inanimati che precipitarono il dramma intorno a loro; una benda nera, cioè, il puntale verde d'un dito, una chiavina d'orologio e due disperse fedi matrimoniali…

Sarà presto sera e il cielo sereno d'estate si coprirà di stelle. Me ne starò qui, come sempre, a fumare in riva all'acqua. Ho deciso di lasciare senza risposta l'ultima lettera di Clea. Non me la sento più di spingere le persone, fare promesse, pensare alla vita in termini di patti, intese, risoluzioni. Starà a Clea interpretare il mio silenzio secondo le sue brame e i suoi bisogni, venire da me se lo vuole, oppure no, come il caso sarà. Tutto non dipende forse dalla interpretazione che diamo al silenzio che ci circonda?

 

Appunto.

Tutto non dipende forse dalla interpretazione della vita che stiamo vivendo?

A noi la scelta se interpretarla come una ricca e avvincente fiaba; o come un incubo; o come una catena casuale e insensata di eventi, del pari casuali e insensati.