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Genesi e trionfo dell'economicismo in Louis Dumont

di Stefano Di Ludovico - 30/07/2008

Ci sono alcune idee fondamentali della civiltà occidentale che ci appaiono del tutto ovvie e scontate. Esse sono a tal punto connaturate alla mentalità dell’uomo moderno che ci sembra quasi impossibile immaginare la possibilità di società fondate su altri presupposti. Eppure, ad un’analisi più attenta, che sappia liberarsi degli idola del nostro tempo, tali idee appaiono non solo come specifiche di una civiltà e di un mondo ben circoscritti, ma addirittura come eccezionali rispetto a ciò che gran parte delle altre civiltà ha ritenuto “normale”. Tra queste idee ritroviamo senz’altro quelle di “individuo”, di “uguaglianza”, di “economia”, idee tra loro strettamente connesse e che, richiamandosi l’un l’altra, formano l’asse portante della nostra società. E’ proprio questa analisi, volta a disvelare la peculiarità tutta occidentale e moderna di tali idee, a costituire il portato essenziale dell’opera di Louis Dumont, antropologo e sociologo francese scomparso nel 1998, le cui originali e per molti versi eccentriche ricerche ne fanno uno dei più interessanti - ma al tempo stesso ancora troppo misconosciuti ed incompresi - studiosi di scienze umane della seconda metà del secolo appena trascorso.

 

Louis Dumont nasce a Salonicco nel 1911 e da giovane milita nel Partito comunista francese. Sensibile alle sollecitazioni della vivace vita intellettuale parigina degli anni trenta ed alle sue istanze innovatrici, è affascinato in particolare dall'etnologia. Così, contrastando i desideri della famiglia che avrebbe voluto indirizzarlo agli studi di ingegneria, nel 1939 inizia la frequenza dei corsi di Marcel Mauss al College de France. Scoppiata la guerra è arruolato nell’esercito francese; durante il conflitto è anche trattenuto in un campo di detenzione in Germania dopo essere stato fatto prigioniero dai tedeschi. Finita la guerra, poco attratto dalla vita e dagli impegni di natura politica, si dedica completamente agli studi etnologici, lavorando al Musée de l'Homme, dove è segretario dell'etnografo Georges Henry Rivière. Fa la conoscenza e ha modo di collaborare anche con Claude Lévi-Strauss, di cui ha il privilegio di essere il primo lettore del manoscritto del celebre testo Strutture elementari della parentela. I suoi interessi, intanto, volgono sempre più verso la cultura e la società indiane, e, dopo il viaggio del 1949 in India - dove tornerà periodicamente - scrive il suo primo lavoro, dedicato all’analisi di alcune subcaste indiane. Tra il 1951 al 1955 è docente all'Istituto di antropologia di Oxford. Nel 1955 diventa direttore dell'Ecole des hautes etudes en sciences sociales di Parigi, all’interno del quale fonda anche un istituto di studi indianistici. A tali studi è dedicata anche la rivista fondata nel 1957, Contributions to Indian Sociology. I risultati delle ricerche e delle analisi sul mondo indiano che lo hanno impegnato in tutti questi anni confluiscono, nel 1966, nell’opera destinata a rimanere ancora oggi uno dei pilastri degli studi indologici e di antropologia sociale in genere: Homo hierarchicus. Saggio sul sistema della caste. L’opera era stata preceduta, due anni prima, da una sorta di saggio introduttivo, La civiltà indiana e noi, dove vengono riassunte le linee interpretative che lo hanno guidato nella stesura dell’opera maggiore, nell’intento di sgombrare il campo dai possibili equivoci ed incomprensioni che l’originalità delle prospettive di analisi seguite avrebbero potuto far sorgere; equivoci ed incomprensioni puntualmente verificatisi. Nel 1977 pubblica l’altra sua opera fondamentale, Homo Aequalis. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, a cui seguirà una seconda parte, uscita nel 1991, dal titolo Homo Aequalis II. L’ideologia tedesca. Francia-Germania e ritorno. Con tale opera, il progetto di Dumont di analizzare e mettere a confronto, attraverso il metodo comparativo, quelli che egli ritiene i due modelli fondamentali di società, può dirsi compiuto: l’Homo hierarchicus e l’Homo aequalis diventano i paradigmi di due diversi – e per molti aspetti opposti – modi di concepire l’uomo e la società, analizzati l’uno in riferimento alla civiltà indiana, laddove il primo paradigma si è esplicato con maggior forza e coerenza, l’altro a quella moderno-occidentale, l’unica dove il secondo abbia fatto capolino. Tra le altre importanti opere di Dumont ricordiamo infine i Saggi sull’individualismo: una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, del 1993, raccolta di scritti che sviluppano, in riferimento a vari ambiti storico-sociali, i temi trattati in particolare in Homo aequalis.

 

Come accennato, l’intento principale dell’opera di Dumont è quello di ricostruire l’origine ed il significato delle idee basilari su cui si fonda la moderna società occidentale, idee che, lungi da rappresentare delle costanti nel succedersi storico delle civiltà, costituiscono al contrario delle eccezioni. Tali idee, identificate in quelle di individuo, uguaglianza ed  economia, vengono da Dumont sintetizzate nella nozione di Homo aequalis, espressione che connota quindi l’essenza stessa della società moderna. Questa si caratterizza infatti come un insieme di individui slegati da ogni relazione personale di subordinazione o dipendenza e mossi, in ultima analisi, da soli moventi economici, tanto che dire Homo aequalis significa per Dumont dire al tempo stesso Individuo o Homo oeconomicus. Per tale ricostruzione, non è però sufficiente un’analisi di tipo storico-culturale, essendo altresì indispensabile uno studio comparativo che metta in evidenza la specificità e la diversità dei concetti fondamentali su cui si sono rette invece le altre civiltà e rispetto alle quali la moderna società dell’Homo aequalis non rappresenta che uno sviluppo eccezionale. Al tempo stesso, il metodo comparativo, così come ci permette di delineare meglio la peculiarità del nostro mondo, ci consentirà di comprendere ancor più il mondo degli altri, evitando l’errore di leggerlo attraverso i nostri occhi ed i nostri parametri; parametri che, proprio come l’analisi comparativa ci aiuta a capire, non gli appartengono. Secondo Dumont, infatti, un pregiudizio modernista ha orientato lo studio della nostra civiltà e, di conseguenza, quello delle civiltà da essa differenti: nella maggior parte dei casi – afferma - ciò che è stato tentato fino a oggi in materia di comparazione ha come centro il caso moderno: perché questa o quella grande civiltà non è arrivata a sviluppare le scienze naturali, o la tecnologia, o il capitalismo, che la nostra invece conosce? Bisogna rovesciare la domanda: come e perché si è prodotto questo sviluppo unico che chiamiamo moderno? Il compito principale della comparazione è di spiegare il tipo moderno a partire da quello tradizionale. E ciò perché è proprio il modello tradizionale a rappresentare nella storia la costante di fronte all’eccezionalità del mondo moderno; e se in relazione a quest’ultimo è l’Homo aequalis a costituirne il fondamento ultimo e specifico, è l’Homo hierarchicus ad esemplificare al meglio i caratteri propri del mondo tradizionale. E così come la categoria dell’uguaglianza sintetizza diversi concetti tra loro correlati, in primis come quello di individualismo, quella di  gerarchia sottintende altri concetti anch’essi peculiari alla società tradizionale, su tutti quello di olismo. Di conseguenza, dietro la polarità fondamentale uguaglianza/gerarchia, se ne distingue un’altra, altrettanto fondamentale: individualismo/olismo. Olistiche sono quelle società che, afferma Dumont, valorizzano innanzi tutto l’ordine, e dunque la conformità di ogni elemento al suo ruolo nell’insieme, mentre individualistiche sono quelle società che valorizzano innanzi tutto l’essere umano individuale. Fra tutte le società che la storia ha conosciuto, la quasi totalità presenta i tratti dell’olismo, mentre la moderna società individualistica si presenta per molti versi come un caso unico. Le due polarità così individuate ne richiamano un’altra: se nelle società oltistico-gerarchiche sono i legami personali ad intessere la trama del tessuto sociale, nelle società egualitarie-individualistiche tale funzione è assunta dai legami economici. Nella maggior parte delle società tradizionali – sottolinea Dumont – i rapporti tra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose. Questo primato è capovolto nel tipo moderno di società, dove invece i rapporti fra gli uomini sono subordinati a quelli fra gli uomini e le cose. 

 

La società indiana, rimasta per secoli inalterata nelle sue strutture e nei suoi valori di fondo, per Dumont esemplifica al meglio il tipo di società tradizionale. Se a noi moderni occidentali appare ovvio che il consesso umano è costituito da un insieme giustapposto di individui, ovvero esseri indipendenti e formalmente uguali tra loro, esistenti in sé e per sé, per un indiano sembra altrettanto ovvio che l’individuo acquista senso e realtà solo all’interno di un ordine che lo trascende, ordine che è innanzi tutto metafisico-religioso per essere poi, in conformità a questo, politico e sociale. Se la realtà umana essenziale – afferma Dumont – si trova per noi nell’uomo in quanto individuo, … la società indiana, invece, si ordina, si gerarchizza, in funzione della religione, cioè dell’ordine universale così come essa se lo rappresenta. … Più che di una scala di comando si tratta di una gradazione di statuti. La giustizia consiste nel mettere al posto che loro spetta le diverse funzioni sociali.  E se noi concepiamo l’essere umano come individuale, come una specie di monade isolata, che in quanto tale ha relazioni con altri esseri, nel modo delle caste indiane l’essere è nella relazione – afferma Dumont – e i poli della relazione non hanno statuto ontologico indipendentemente l’uno dall’altro… Ogni casta particolare ha realtà unicamente attraverso la sua funzione specifica, perché è in forza di tale funzione che essa partecipa all’insieme. Nessuna, neanche la più elevata, è indipendente. Il fatto che al vertice di tale insieme vi siano i sacerdoti ha fatto spesso sorgere equivoci tra gli osservatori occidentali. Per comprendere la vera natura del sistema indiano bisogna infatti fare attenzione alla distinzione che esso pone tra gerarchia degli statuti e distribuzione del potere politico-economico: mentre il sacerdote – evidenzia Dumont – che rappresenta lo spirituale, è il primo tra gli uomini, ma non rivendica il potere, il re regna, ma è sottomesso spiritualmente al sacerdote. Da ciò i meccanismi per trasformare il potere in statuto, il principale dei quali è l’offerta ai brahmani. Proprio per le loro funzioni sacerdotali i brahmani, infatti, non possono rivendicare direttamente il potere politico, sebbene questo è tenuto ad operare in conformità con i precetti religiosi: la disgiunzione teorica tra statuto e potere – sottolinea Dumont – ci porta a un punto cruciale, a una difficoltà ancora mal risolta, che una volta di più verte sull’adattamento delle nostre idee alla realtà indiana. Tanti sono i fraintendimenti che tale incongruo adattamento ha causato negli studi occidentali sulla società indiana, studi che Dumont nella sua opera ripercorre a partire dalla letteratura nata al seguito della colonizzazione inglese, denunciandone i limiti ed i travisamenti. Tra questi, particolarmente rivelatori, oltre a quelli inerenti alla mancata distinzione tra statuto e potere, sono per Dumont quelli riguardanti il sistema della proprietà terriera: qui l’ottica occidentale di considerare come proprietà il solo possesso esclusivo individuale non ha mai permesso di cogliere con chiarezza la natura policentrica della proprietà indiana, dove i diritti all’uso si distribuiscono gerarchicamente tra una pluralità di soggetti, nessuno dei quali può dirsi proprietario nel senso moderno del termine. Limiti e travisamenti tutti dovuti, in ultima istanza, al mancato riconoscimento della natura olistica della società indiana, perché se in Occidente l’unità ontologica fondamentale è l’individuo, in India, sottolinea Dumont, è invece una totalità, vale a dire una molteplicità ordinata dalle sue opposizioni interne, più spesso gerarchiche.

 

Essendo nel mondo moderno il legame tra gli uomini mediato non più dalla totalità sociale ma dalla relazione tra gli individui e le cose, tra gli individui e i beni materiali, Dumont, nell’intento di evidenziare il carattere specifico della civiltà occidentale, concentra la sua attenzione su una disciplina in particolare, l’economia, in quanto proprio la nascita e l’affermazione della categoria economica coincide con la nascita e l’affermazione del mondo moderno. Il sottotitolo della prima parte dell’opera Homo aequalis – la seconda essendo un’analisi dell’ideologia moderna in riferimento ai diversi contesti nazionali – non potrebbe essere più esplicito: esaminando, secondo la nuova prospettiva comparativa, le dottrine di alcuni classici del pensiero moderno quali Quesnay, Locke, Mandeville, Smith e Marx, Dumont ricostruisce la genesi e il trionfo dell’ideologia economica, evidenziando, al pari di Karl Polanyi, autore al quale egli si richiama, che se nelle società tradizionali la sfera economica è ricompresa nelle diverse istituzioni sociali ad essa sovraordinate fino a confondersi con esse, nel mondo moderno, rendendosi autonoma, tale sfera ha finito essa stessa per plasmare le altre istituzioni e, con queste, l’intera realtà sociale.

 

Lo studio di Dumont parte dalla disamina del pensiero di Quesnay, che può essere visto come il primo economista in senso moderno del termine, non esistendo prima di allora una scienza economica come oggi la intendiamo, ovvero quale disciplina a sé stante fondata su leggi e principi propri. Per la verità Dumont evidenzia come in Quesnay l’economia non si è ancora resa del tutto autonoma, restando l’economista francese ancorato ad una visione d’insieme del corpo sociale di tipo essenzialmente olistico. Si potrebbe quasi dire – afferma Dumont – che Quesnay descrive la vecchia società da un punto di vista nuovo: la sua visione sociale e politica è del tutto tradizionale sotto numerosi aspetti, e all’interno di questa visione egli colloca un sistema propriamente economico che è quasi totalmente moderno. E’ solo con Locke, infatti, che l’economia compie il primo decisivo passo verso l’emancipazione, rescindendo i legami con la sfera politica: nonostante l’opera di Locke preceda quella di Quesnay di oltre mezzo secolo, nell’Inghilterra di fine Seicento l’economia di mercato è già una realtà in significativa espansione rispetto alla Francia di ancient régime della prima metà del Settecento. Nella teorizzazione di uno stato di natura quale insieme di individui proprietari volti ognuno alla ricerca dell’utile personale e indipendente da ogni autorità politica storicamente configurata, Dumont vede la prima formalizzazione dell’autonomia della sfera economica che proclama la propria autoreferenzialità rispetto a qualsivoglia legittimazione esterna o superiore. L’Homo oeconomicus ha diritti inalienabili e fissati dalla natura, equiparata, come in tutto il pensiero giusnaturalista, alla stessa ragione, e la sfera politica - vista invece come artificiale rispetto alla naturalità di quella civile - è chiamata unicamente a garantire tali diritti pena la perdita di ogni legittimità. L’aspetto più rivelatore di questa configurazione – sottolinea Dumont - è il fatto che in essa l’economico non è semplicemente giustapposto al politico, ma gli è gerarchicamente superiore… Tale gerarchia è dominata dal vincolo ideologico della transizione dall’olismo (primato dei rapporti tra uomini) all’individualismo (primato dei rapporti con le cose, cioè, in questo caso, della proprietà). In altri termini, si direbbe che l’emancipazione della dimensione economica dal politico corrisponda a questo mutamento di primato.

 

Con Mandeville l’emancipazione economica compie un ulteriore e fondamentale passo: dopo essersi resa autonoma dalla politica con Locke, l’economia si emancipa anche dalla morale. Se nel filosofo inglese il diritto naturale che legittimava le sfera economica era identificato con la ragione e quindi con una dimensione universale e trascendente la mera empiricità a cui gli individui restavano pur sempre ancorati, in Mandeville l’economia viene considerata del tutto indipendente dalla morale; anzi, quest’ultima viene ritenuta addirittura nociva per un proficuo dispiegarsi dell’azione economica. La metafora su cu si impernia la Favola della api è nota : nell’alveare, specchio della società umana, regnano l’egoismo e quindi la prosperità; quando, per una certa nostalgia della virtù, le api abbandonano il vizio, con questo viene meno anche la prosperità, e subentrano l’ozio, l’inattività, la povertà. La morale della favola è riassunta nel sottotitolo dell’opera: vizi privati, pubbliche virtù, destinato a diventare il motto del credo liberista, a partire da Adam Smith. In Mandeville l’emancipazione dell’economia dalla morale si accompagna all’idea – fa notare Dumont - che l’azione economica è di per se stessa orientata verso il bene, che ha un carattere morale che le è peculiare; è in virtù di questo carattere che le è permesso sfuggire alla forma generale del giudizio morale. In altre parole, l’attività economica è vista da Mandeville come la sola attività umana a cui non occorra altro che il naturale egoismo individuale: perseguendo esclusivamente i loro interessi particolari gli uomini, senza volerlo, lavorano per il benessere comune, senza che per far ciò essi, o altre istituzioni all’uopo costituite, debbano richiamarsi a superiori finalità etiche. Dal giusnaturalismo, a cui è ancora legato Locke, siamo già alle soglie dell’utilitarismo. Ancor più che Locke, evidenzia Dumont,  Mandeville ha scoperto che la soddisfazione dei bisogni materiali… è la sola ragione per la quale gli uomini vivono in società. E’ un punto da tenere a mente, perché questa idea … ha una parte centrale nell’ideologia moderna: i rapporti tra uomini e cose – i bisogni materiali – sono primari, i rapporti tra gli uomini – la società – secondari… La società concreta si risolve solo nel suo aspetto economico (e il bene sociale viene identificato con la prosperità o con lo sviluppo economico). E la società si risolve in economia perché vengono presi in considerazione solo gli individui, cioè uomini spogliati di tutte le loro caratteristiche sociali: la riduzione della società ad agenti individuali.

 

Tale visione si ripresenta sostanzialmente identica in Adam Smith, che nella sua Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, attraverso un’efficace sintesi delle idee di Quesnay - l’economia come un tutto coerente -, Locke – l’autonomia dell’economico dal politico –,  Mandeville – l’autonomia dalla morale – realizza quella che non a torto viene considerata la prima vera e propria summa di scienza economica che la storia dell’umanità conosca. In essa la società di mercato, nell’Inghilterra di fine Settecento ormai in rapida ascesa ed alle soglie della Rivoluzione industriale, trova il suo sigillo ideologico: la Ricchezza delle nazioni – sottolinea Dumont – fin dal suo primo libro è interamente intrisa dell’idea che ci sia stato e continui ad esserci un processo di miglioramento, di sviluppo, di accrescimento, di progresso. Questa dinamismo, questo ottimismo, sostiene e orienta tutta l’indagine. Come già in Mandeville, l’egoismo è la sola molla che sottende all’agire economico; il libero gioco degli egoismi produrrà spontaneamente, tramite l’intervento della mano invisibile, novella provvidenza della fede liberista, il benessere della collettività. Come afferma lo stesso Smith, ogni uomo… diventa in qualche misura un mercante e la stessa divisione del lavoro su cui si fonda la moderna economia di mercato non è vista come presupposto dello scambio, essendo, al contrario, la naturale tendenza dell’uomo a barattare e scambiare ad essere considerata come causa della divisione del lavoro. Dumont si sofferma ad analizzare in particolare la teoria del valore-lavoro di Smith, che rappresenta uno dei suoi contributi più originali alla storia dell’economia rispetto agli autori precedentemente considerati; teoria che tanta influenza avrà su tutto il pensiero economico successivo, a partire da Marx. Anche questa teoria – che Dumont definisce metafisica e radicata in bisogni meta-scientifici - riflette perfettamente l’orizzonte ideologico dell’Homo aequalis all’interno del quale si staglia il pensiero smithiano: se in Quesnay la fonte del valore è ancora la terra, in Smith, sulla scia di quanto già prefigurato da Locke, il lavoro individuale diventa l’unico fattore determinante della creazione di ricchezza, in base ad una concezione dell’uomo visto nella sua esclusiva opera di appropriazione e trasformazione dell’ambiente circostante. Che tutte le merci – sostiene Dumont – dal momento che si scambiano le une con le altre sul mercato in determinate proporzioni, debbano necessariamente contenere un’unica e medesima ‘cosa’… nelle stesse proporzioni, è una realtà che sembra evidente a una mente abituata a pensare in termini di sostanze e non in termini di rapporti, secondo quella prospettiva individualistica che spiega alla fine il fascino esercitato sulla mentalità moderna dalla teoria del valore come fondato sulla quantità di lavoro.

 

Se gli autori finora presi in considerazione rappresentano in qualche modo la genesi dell’ideologia economica, è con Marx che per Dumont questa conosce il suo trionfo. Pensatori come Locke, Mandeville o Smith, infatti, pur operando al fine di rendere autonoma la categoria economica sciogliendola dai vincoli che la mantenevano legata alle altre dimensioni dell’agire umano, non arrivano, almeno a livello esplicito ed intenzionale, a farne la categoria primaria o addirittura unica di interpretazione del reale. Tale è invece l’obiettivo consapevolmente perseguito da Marx: la dottrina del materialismo storico non solo rappresenta, per molti aspetti, il coerente sviluppo della visione degli autori prima esaminati, ma di tale visione costituisce al tempo stesso lo stadio ultimo di evoluzione, l’apoteosi finale. Come sottolinea Dumont, Marx ha formulato quella che doveva diventare nel secolo successivo una credenza comune, universalmente diffusa, non solo tra i marxisti, ma tra i sociologi e gli storici in genere, anche quelli di orientamento liberale; e ancor più per l’uomo della strada, per il quale la preponderanza dei fenomeni economici nella vita sociale è fuori discussione: è uno dei primissimi articoli del suo credo. Insomma, attraverso l’influenza esercitata direttamente o indirettamente dal marxismo, l’ideologia economica è diventata il nucleo centrale dell’immaginario collettivo dell’uomo contemporaneo. La critica marxista all’individualismo borghese e all’economia classica, ovvero alle teorie economiche dei suoi predecessori, non deve trarre in inganno ed indurre a considerare Marx un olista: certo, la sua dottrina, volta al collettivismo e al comunismo, sembrerebbe porre l’accento sulla società vista come totalità; ma in realtà Marx si inserisce perfettamente nella tradizione individualistica moderna, restando anche per lui l’Homo aequalis, ovvero l’Homo oeconomicus, l’orizzonte imprescindibile dell’analisi sociale. Il suo obiettivo, infatti, è proprio quello di liberare, attraverso la rivoluzione comunista, l’individuo, contro l’incompleta e per molti versi falsa emancipazione che il pensiero liberale e le rivoluzioni borghesi avevano a suo dire perseguito, portando a compimento la direttiva che aveva mosso l’intera storia moderna. L’intento di Marx, afferma Dumont, è l’emancipazione dell’Uomo, in astratto, dell’Uomo, quindi, come essere autosufficiente e incarnazione del valore supremo, dell’Uomo come Individuo nel senso compiuto, moderno del termine. Non è un caso che il giovane Marx inizia la sua intrapresa filosofica proprio con la critica alla filosofia politica di Hegel, filosofia che rappresenta uno dei vertici della concezione organica ed antindividualistica della società e dello Stato, seppur dialetticamente rivisitata in chiave moderna. Anche la ripresa della teoria del valore-lavoro propria dell’economia classica conferma il permanere di Marx all’interno del paradigma individualistico: più che un consenso scientifico attorno ai postulati di tale teoria, si tratta per Dumont di un consenso sui valori di fondo del mondo moderno, in particolare sul concetto di lavoro come vera essenza dell’essere umano e quindi sul rapporto tra l’uomo e la natura visto come primario rispetto al rapporto tra gli uomini. Tale primato ci riporta così al primato dell’economia, attorno a cui ruota tutto il pensiero marxista: se negli autori sopra analizzati questa si era resa autonoma dalla religione, dalla morale, dalla politica, con Marx queste ultime vengono addirittura fagocitate dalla stessa, estinte quali realtà autonome e ridotte a mere sovrastrutture, fantasmi in cui si rifugia la mente alienata dell’uomo non ancora compiutamente emancipatosi. Marx resta dopo tutto convinto che la società nata con la Rivoluzione industriale rappresenti il culmine e la rivelazione di tutto ciò che è esistito in precedenza e contenga, quindi, almeno in potenza, la verità della storia umana: e se la società industriale rivela il primato dell’individuo e dei fenomeni economici, allora questo primato deve per Marx essere messo in luce anche nelle forme di società precedenti. Così, osserva Dumont, il suo giudizio di valore… viene inserito tra i fatti oggettivi della storia, e gli impedisce di riconoscere il fatto evidente che l’individuo nel suo pieno sviluppo è storicamente un fenomeno borghese legato alla merce… Il primato dell’economia e quello dell’individuo vengono generalizzati dalla società moderna … alle altre società. Per la verità Dumont evidenzia come l’acume storico di Marx lo abbia portato in qualche modo a cogliere la diversità e quindi la discontinuità tra le diverse civiltà: ad esempio, analizzando la società feudale o quella indiana, molte sono le intuizioni circa la supremazia che i rapporti personali avevano in tali contesti rispetto a quelli immediatamente economici. Ma si tratta purtroppo di intuizioni non sviluppate, alla fine prevalendo il suo pregiudizio modernista per cui anche quelli che appaiono come rapporti personali o comunque fondati su altri presupposti vengono ricondotti, in ultima analisi, a semplici riflessi di rapporti materiali. La diversità concreta dei tipi di società è percepita con finezza – nota Dumont – ma questa percezione è subordinata all’elaborazione dottrinale dell’uniformità o della continuità, con la generalizzazione… di aspetti borghesi o moderni a società non moderne. L’economia riafferma quindi il suo primato: essa – dice Dumont – rivendica un diritto di sovranità – o piuttosto un diritto a un potere superiore – sull’insieme dell’azione umana e della storia umana. E’ così che… l’economia come ideologia raggiunge la sua maturità e la sua apoteosi e dispiega alla luce del sole quanto aveva contenuto in germe.

 

Come il caso di Marx dimostra, nel momento in cui cessiamo di privilegiare la nostra ideologia e la nostra mentalità, i diversi periodi storici e i differenti tipi di società ci appaiono per quello che sono, nella loro eterogeneità e discontinuità rispetto al nostro mondo. Riconoscere questa eterogeneità e questa discontinuità per poi analizzarle prospetticamente attraverso la comparazione – senza nulla togliere alle continuità storiche ed alle omogeneità sociali pur sempre individuabili – è il compito scientifico che Dumont si è preposto. Studioso rigoroso, che univa alla vasta conoscenza teorica una lunga esperienza sul campo, la sua ricerca ha sempre avuto come unico obiettivo la reale ed effettiva comprensione delle civiltà e dei fenomeni sociali, studiati al di là di ogni preoccupazione o giudizio di valore personali. Estraneo a fatue nostalgie nei confronti della società tradizionale così come a scontate ed acritiche adesioni verso il mondo moderno, Dumont ha cercato piuttosto, anche a prezzo di incomprensioni e diffidenze da parte del mondo accademico, di restituire ciascuna civiltà a se stessa, denunciando l’ottica eurocentrica della nostra cultura. Siamo pronti a uscire da noi stessi per comprendere l’altro? Siamo pronti, all’interno del nostro linguaggio e della nostra tradizione scientifica, a fare uno sforzo per non alterare una civiltà straniera, oppure stabiliamo fin da principio che il risultato non dovrà turbare le nostre vedute consuete e il gergo sociocentrico in cui si riflettono? - si chiede Dumont all’inizio de La civiltà indiana e noi. Noi crediamo che proprio questo sforzo, questo coraggio, questa capacità di saper uscire da se stessi, anche a costo di turbare e mettere in discussione le proprie certezze, costituiscano la cifra dell’opera di Dumont, così come dovrebbero costituire la cifra di ogni autentico approccio verso l’altro e la diversità che si manifestano nella storia e nel mondo.