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Precarietà e manipolazione antropologica nell’era del capitalismo assoluto

di Costanzo Preve - 30/07/2008


 

Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

 

1) Viviamo in un’epoca che sembra abbia eternizzato il presente. Infatti, sembrano essere scomparsi dalla società i giovani, cioè l’elemento vitale di proiezione del presente verso il futuro, rendendosi perciò problematico il naturale ricambio generazionale che costituisce la base di ogni progettualità del presente. Espressioni come “l’avvenire è dei giovani”, per non parlare di istanze futuriste che auspicavano “l’avvento al potere dei giovani”, sembrano essere state dimenticate, quali velleità ideologiche di un novecento ormai confinato all’oblio della storia. Il calo delle nascite e politiche economico – previdenziali che disincentivano l’uscita dal mondo del lavoro degli anziani, sono fattori che rendono marginale il ruolo dei giovani nella società. Dopo il giovanilismo sessantottino, i giovani sembrano emarginati da una società non suscettibile di naturale rinnovamento, in cui si potrebbero manifestare nel tempo rilevanti conflitti intergenerazionali. La fine del novecento e delle fedi ideologiche, sembra aver reciso quel logico e naturale nesso di continuità tra le generazioni, che determina la sussistenza oltre il tempo dei valori etico morali su cui si struttura ogni società umana. La tradizionale invidia degli anziani verso i giovani si è tramutata in compassione, nei confronti di coloro su cui incombe un avvenire nebuloso, minaccioso per le antiche certezze, denso di incognite imponderabili. Il nostro presente storico viene vissuto da giovani ed anziani non con l’ansia dell’attesa di un futuro denso di aspettative e progetti di trasformazione, ma di chi è condannato all’impotenza dinanzi a mutamenti globali imprevedibili ed incontrollabili. Forse, con la fine del novecento, secolo delle “utopie assassine”, insieme con gli assassini, sono state uccise anche le utopie, quali prefigurazioni ideali di rivolgimenti politici e sociali di portata epocale, la cui realizzazione dava senso all’esistenza e attribuivano un ruolo primario alle nuove generazioni. Forse è questo “vuoto di senso” che aliena la condizione giovanile e la omologa ad una società condannata a subire il futuro e non a crearlo.

Nella sua Ontologia dell’Essere Sociale (1964-1971) il vecchio filosofo Lukács aveva già parlato della condizione umana nel capitalismo in termini di “onnipotenza astratta e di concreta impotenza”. Si tratta più o meno della diagnosi che fai anche tu. È passato quasi mezzo secolo dai tempi della diagnosi di Lukács, che mi sembra pienamente verificata dalla situazione storica attuale.
La condizione giovanile vive questa sintesi vitale contraddittoria di onnipotenza astratta e di concreta impotenza in modo particolarmente acuto e doloroso. È di moda oggi nel ceto corrotto degli intellettuali incrudelire sguaiatamente contro le “utopie novecentesche”, ignorando che la dimensione futurologica, spesso assente negli anziani e nelle persone di mezza età, è invece fisiologica e quasi “biologica” nei giovani. I sessantottini invecchiati sono in prima linea nel negare ai giovani la dimensione utopica, e fanno a gara a trasformare la loro propria delusione generazionale in una grottesca Figura Eterna della Delusione in quanto tale. Per questo i giovani spesso provano fastidio per il “reducismo sessantottino” e per le sue narcisistiche cerimonie. I giovani saranno anche privi di memoria storica, ma non sono affatto stupidi, e sono in grado di valutare la natura della società che l’abbietta generazione sessantottina gli ha preparato. Si tratta di una società ad un tempo postborghese ed ultracapitalistica, in cui sono state distrutte sia la Famiglia sia la Scuola, ma il Mercato e la Pubblicità sono più forti e straripanti che mai.
La comprensione della condizione giovanile oggi deve partire necessariamente dalla preventiva comprensione della natura specifica della società capitalistica di oggi. Non ci si può certo limitare alla banalità per cui i giovani erano già giovani ed i vecchi, vecchi ai tempi delle piramidi egizie. Occorre capire esattamente che cosa caratterizza storicamente la condizione giovanile oggi, e non in un’inesistente situazione atemporale.
La chiave storico-politica per individuare il centro della questione giovanile oggi sta in ciò, che i giovani sono oggi il cuore di un mostruoso esperimento antropologico-sociale, rivolto a farli diventare il soggetto portatore dell’instaurazione e dello sviluppo allargato di un nuovo modello di società capitalistica assoluta ed illimitata, neoliberale, globalizzata, postborghese e postproletaria, oltre che ovviamente postfascista e postcomunista, in cui “destra” e “sinistra” cessino integralmente di essere categorie in qualche modo ancora politiche, per essere soltanto attrattori culturali e simbolici, ed in quanto tali interamente manipolati dal sistema pubblicitario e mediatico.
Delle tre età della vita (giovani, persone di mezza età ed anziani) i giovani sono i soli che possono biologicamente sopportare lo stress fisico e l’incertezza psicologica di un generalizzato lavoro flessibile, precario ed instabile. Le persone di mezza età e gli anziani non potrebbero fisicamente sopportarlo, ed inoltre sono stati abituati ai cosiddetti “trenta anni gloriosi” di cui parla Hobsbawm (1945-1975), caratterizzati invece da una prospettiva generalizzata di lavoro stabile e sicuro, sia pure quasi sempre “alienato” e “fordista”. Per poter instaurare antropologicamente, e non solo “economicamente” (l’analisi economica priva di dimensione antropologica e di riflessione storico-filosofica è infatti quasi sempre vuota e fuorviante” questo nuovo modello di capitalismo assoluto, neoliberale, postborghese, postproletario, deideologizzato, ultra-atomistico, globalizzato, eccetera, bisogna far leva su di una classe di età che ne possa sopportare biologicamente i costi spaventosi.
La produzione interamente “biopolitica” (ed è allora questa la vera “biopolitica”, non quella di cui parlano i corrottissimi ceti intellettuali universitari delle facoltà di filosofia) di questa base antropologica flessibile e precaria è quindi rivolta ai giovani, ed è allora questa, e non altra, la questione giovanile oggi. Rendere flessibile e precaria la condizione giovanile presuppone peraltro la distruzione de facto di due istituzioni (millenaria la prima, secolare la seconda), e cioè la famiglia e la scuola. Sia la famiglia che la scuola, infatti, sono istituzioni commisurate a progetti di vita globale e permanente, caratterizzati dalla continuità sentimentale, sessuale, professionale, ecc.. Incompatibili, quindi, con la generalizzazione dell’incertezza, della precarietà e della flessibilità. Il crollo tragicomico della cosiddetta “cultura di sinistra” negli anni più recenti sta infatti in ciò, che questi deficienti “il termine è pesante, ma quando ci vuole ci vuole!” da un lato si dichiarano contro il lavoro flessibile e precario, e dall’altro fanno tutto il possibile per delegittimare e distruggere sia la famiglia che la scuola, e cioè proprio istituzioni omogenee culturalmente e biologicamente ad una struttura sociale e lavorativa non flessibile e non precaria.
In Italia la distruzione della scuola (di cui è un sintomo, secondario ma interessante, la degradazione linguistica dei professori a prof, promossa non certo dall’innocente gergo giovanile ma dalla consorteria delle canaglie mediatico-culutrali che gestiscono il linguaggio pubblico) è stata delegata ad una armata Brancaleone di sindacalisti CGIL-Scuola, pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e vari distruttori della professionalità disciplinare dell’insegnante, “riconvertita” in abilità polivalente di gestione e di animazione del “disagio” giovanile. Ho assistito sgomento ed impotente a questa fantascientifica “invasione degli ultracorpi” nei trentacinque anni del mio insegnamento liceale (1967-2002), e ritengo di averne anche compreso la dinamica progressiva di insediamento, dinamica che presuppone (ahimé) la conoscenza del metodo dialettico di Hegel e di Marx, senza il quale tutto ciò che avviene appare incomprensibile, in quanto sembra a prima vista uno scenario alla Kafka ed alla Borges (lato tragico), ed alla Totò ed alla Ridolini (lato comico). Scrittori “insegnanti” come Lodoli, Starnone e la Mastrocola si fermano alla superficie ma non possono capirne la severa dinamica strutturale. Perché si possa instaurare in forma stabile e permanente una società ultracapitalista e postborghese bisogna che il lavoro salariato diventi del tutto “imprenditoriale”, e cioè flessibile e precario, essendo appunto l’altra “precarietà” l’altra faccia dialettica complementare della cosiddetta “imprenditorialità”. Per questo la scuola “borghese” deve essere sostituita da una scuola “capitalistica” postborghese. Il mercenariato cui è stata delegata dai poteri forti (ultracapitalistici e postborghesi – non dimenticare mai questa formula, a prima vista spiazzante ma essenziale) è grosso modo in Italia il “picismo” pedagogico-sindacale, ed a nessuno salti in mente di utilizzare il nobile concetto di “comunismo” per questa feccia sociologico-politica che si è impadronita circa vent’anni fa del corpo della scuola italiana. In proposito vorrei essere volutamente categorico, anche se purtroppo “estremistico”: senza spazzare via (licenziamenti, pensionamenti anticipati, degradazione a bidelli, uso di idranti, eccetera) questa feccia sindacal-pedagogica la scuola italiana è condannata a morte. Spero che il lettore abbia compreso la gravità di questo termine: condannata a morte.
Mentre la distruzione della scuola è stata delegata alla feccia sindacal-pedagogica di provenienza PCI (oggi metaforicamente PDS-DS-PD), la distruzione della famiglia, intesa come legittimità del Superio paterno integrato dal complementare Amore materno, è stata delegata alla macchina consumistica televisivo-pubblicitaria, integrata da girotondi femministi e gay-pride. È probabile che gli agenti storico-sociologici cui è stata delegata (strutturalmente e funzionalmente) questa distruzione simbolica della famiglia non ne siano stati del tutto consapevoli, ma il fatto che gli idioti non siano consapevoli di quello che fanno e siano preda di meccanismi di auto-illusione e di falsa coscienza necessaria è una vera e propria costante storica. Senza la convergente distruzione della famiglia (la cui funzione “etica” – Hegel – è sostituita dal potere del consumismo pubblicitario televisivo) e della scuola (la cui funzione educativa è sostituita dall’invasività pedagogico-sindacale) sarebbe stato impossibile instaurare la società della flessibilità del lavoro e del precariato permanente.
La sommaria descrizione che ho cercato di disegnare è del tutto incomprensibile per tutti coloro che seguono ipnotizzati lo scontro epocale fra Di Pietro e Berlusconi ed il gioco delle intercettazioni telefoniche a metà fra Boccaccio ed i cinema a luci rosse. L’analisi impietosa contenuta nella tua domanda è basata sulla nozione di “vuoto di senso”, che tu giustamente metti al centro della tua riflessione.
In tutte e tre le sue età (giovani, mezza età, anziani) l’uomo è antroplogicamente un animale “cercatore di senso”, nel suo doppio aspetto convergente di ideologia e di utopia (Bloch, Mannheim). I giovani sono biologicamente la classe d’età caratterizzata da un maggiore potenziale di “ricerca di senso”, e questo non è affatto un caso, perché sono la classe d’età che ha una maggiore aspettativa fisiologica di vita. L’attuale modello di capitalismo assoluto neoliberale, postborghese e postproletario, postfascista e postcomunista, ha flessibilizzato e precarizzato la vita intera, e non avrebbe potuto farlo se non “iniziando” dai giovani, i soli fisicamente in grado di sopportare questo modello inumano di vita.
Riuscirà a farlo a lungo? È questa la vera domanda centrale del nostro tempo e non certo l’irrilevante turn over fra Fini e D’Alema, il boccaccesco guardonismo degli intercettatori di Berlusconi, e l’eterna simulazione azionista fra fascismo ed antifascismo. In termini etologici il problema si può formulare così: l’uomo è un animale infinitamente addomesticabile, o ci sono limiti biologici, psicologici, storici ed antropologici alla sua addomesticabilità ed alla sua illimitata manipolazione? Io scommetto razionalmente sulla seconda ipotesi, ma devo ammettere sinceramente che non ne sono del tutto sicuro, e che non sono neppure sicuro di riuscire a dimostrarlo.

2) I giovani, oggi come sempre, sono spesso criticati dalle vecchie generazioni, per la loro incapacità di comprenderli e di immedesimarsi nella loro condizione. Quella degli anziani è forse una generazione dalla “memoria perduta?”. I vecchi sessantottini, così come le generazioni precedenti, sono incapaci di comprendere i giovani, vedendo in essi una proiezione di se stessi, non concepiscono il futuro come una dimensione umana che esorcizzi i mali del presente. Il vuoto esistenziale giovanile, da tutti diagnosticato, è la dimostrazione evidente dalla assenza di valori etici da trasmettere già presente nei giovani di 30 anni fa. Evidentemente le generazioni dei genitori si sono dimostrate incapaci di compiere un serio esame di coscienza e di svolgere nei confronti di se stessi una seria autocritica costruttiva. Esse sono vissute nel relativo benessere e, pertanto, nel perpetuo, passivo adeguamento alle evoluzioni dell’eterno presente della società tecnologica – consumista. I giovani non sono stati formati da famiglie e/o comunità di appartenenza ideale in grado di trasmettere valori, intesi come canoni di interpretazioni del mondo e del tempo in cui ci è dato vivere. Si è creata ormai una società stratificata ed immobile, in cui le opportunità sono riservate ad elites sempre più ristrette, con conseguente emarginazione di larghe masse condannate a ruoli subalterni. Viviamo in un paese che ha la classe politica più vecchia d’Europa, elegge presidenti della repubblica ultraottantenni, riserva i ruoli dirigenziali a gruppi lobbistici e parentali, il valore del merito viene disconosciuto, la mobilità sociale è pressoché nulla. I giovani sono condannati a vivere sulla propria pelle il paradosso di una società liberale e progressista, ma immobile, globalizzata nell’economia e nella cultura, ma feudale – castale nella sua struttura.

Vorrei partire dalla tua osservazione finale, volutamente paradossale, per cui “…i giovani sono condannati a vivere sulla propria pelle il paradosso di una società liberale e progressista, ma immobile, globalizzata nell’economia e nella cultura, ma feudale-castale nella sua struttura”.
È probabile che la sociologia accademica, con la sua pedante prosopopea e la sua totale mancanza di immaginazione, non approverebbe questa tua formulazione, ritenendola contraddittoria. Ma la contraddizione, nonostante l’ostilità che a suo tempo manifestò Lucio Colletti nei confronti di questo indispensabile concetto, è la chiave per la comprensione di tutte le cose, ed in particolare dei fatti sociali (e la condizione sociale oggi è appunto – per dirla con Durkheim – un fatto sociale totale). Colletti è giunto al capolavoro assoluto della coniugazione di due opposti apparentemente antitetici ed incompatibili, e cioè il marxismo positivistico, scientistico ed anti-hegeliano più estremistico e furioso, da un lato, e l’adesione al neoliberalismo berlusconiano più ostentato, dall’altro. Per chi conosce l’unità degli opposti hegeliana e la complementarietà dei contrari in solidarietà antitetico-polare questo apparente paradosso è un vero segreto di Pulcinella. Nello stesso modo, l’assoluta complementarietà dell’immagine ideologica liberale e progressista, da un lato, e della realtà feudale-castale, dall’altro, è una sorta di sudoku di quelli che le riviste di enigmistica segnalano come “facilissimi” e da “principianti”.
Il fatto però è che questo paradosso è qualcosa che i giovani vivono sulla propria pelle, in particolare in Italia (o quanto meno in Italia più ancora che in altri paesi europei). L’Italia infatti è il paese europeo che più di tutti soffre della perversa compresenza del nepotismo clientelare democristiano, da un lato, e degli esiti della distruzione picista della scuola e della famiglia, dall’altro. Questa doppia perversa eredità caratterizza appunto la specifica “miseria italiana”, nella sua totale mancanza di vera meritocrazia professionale, da un lato, e di invadenza burocratico-sindacale, dall’altro. Ancora una volta, di questo non soffrono gli anziani, che sono già in pensione, o le persone di mezza età, già più o meno insediate in ruoli professionali stabili, ma proprio i giovani, che devono ancora “entrare” in un universo lavorativo caratterizzato, oltre che dalla flessibilità e dalla precarietà, anche da dosi ipertrofiche di clientelismo, raccomandazioni, mafie politico-sindacali, ed altra feccia sociale del genere.
La particolare miseria della condizione giovanile in Italia deve quindi essere indagata, oltre che con il modello dell’esperimento antropologico segnalato nella risposta precedente (che resta comunque la chiave principale presupposta ad ogni altra spiegazione ulteriore), sulla base della sinergia malefica fra diccismo e picismo (e cioè sulle due eredità DC e PCI, che mi permetto plasticamente di indicare con due formulette che non mettono in campo concetti rispettabili come democrazia, cristianesimo e comunismo). Esaminiamoli separatamente, anche se nella concreta realtà sociale sono di fatto fusi insieme ed indistinguibili.
Il diccismo si basava su di una riformulazione del patto sociale liberaldemocratico in termini di familismo amorale e di reti personali di conoscenza e raccomandazioni reciproche (vedi commedia all’italiana e soprattutto il più grande sociologo italiano della seconda metà del novecento, Alberto Sordi). Il diccismo ha indubbiamente avuto grandi meriti storici, primo fra i quali l’impedire l’esperimento di Napolitanov, Amendolayev, Berlinguerinsky, eccetera, che avrebbe portato nell’ultimo decennio milioni di donne italiane a fare le badanti e/o le puttane in Francia, Spagna, Grecia, eccetera. Per questo il diccismo dovrà essere ringraziato. E tuttavia il diccismo, sciogliendo lo stato nei rapporti personali e famigliari, non poteva che incrementare sia la corruzione del settore pubblico (Romano Prodi), sia il brigantaggio meridionale (Totò Riina). Il craxismo ed il posteriore berlusconismo non hanno certo potuto modificare il codice diccista, ma gli si sono soltanto sovrapposti. I giovani ricercatori italiani che si trovano di fronte un apparato universitario marcio e nepotista, e devono rifugiarsi all’estero per vedere riconosciute le loro capacità disciplinari e professionali, devono sapere che il diccismo sta alla radice dei loro guai.
Il piccismo (da non confondere con il comunismo in generale) è stato indagato da Augusto Del Noce in termini di esito nichilistico della trasformazione dialettica dello storicismo sociologico in società, radicale dei consumi di massa. Esatto. C’è infatti ben poco da aggiungere. Questa trasformazione implicava, come ho detto, la distruzione sia della famiglia che della scuola, in cui i piccisti hanno funzionato come mercenariato idiota ed inconsapevole per conto i gigantesche forze sistemiche ultracapitalistiche e postborghesi.
I giovani italiani, se usassero il cervello ed il metodo storico-dialettico, saprebbero dunque chi ringraziare. E soprattutto, chi eventualmente punire come meriterebbero.

3) Giovani ed anziani sono elementi della società entrambi essenziali ed interdipendenti. Lo scorrere del tempo determina il naturale ricambio generazionale, con nuove e diverse visioni dell’uomo e della società, in un rapporto di necessaria continuità storica, presente anche nelle fasi di rottura e di trasformazione epocale. La condizione giovanile odierna è alienata e innaturale. L’età della giovinezza non approda mai alla maturità, sono definiti “giovani” i quarantenni ancora in cerca di una stabile occupazione, impossibilitati al crearsi una vita autonoma, vengono definiti cinicamente “bamboccioni” da una elite autoreferente, estranea ai bisogni e alle istanze di una massa giovanile e non, che cerca invano un ruolo e una dimensione del vivere sociale, negata da un’economia assolutizzate e da una politica incapace di creare equilibri sociali adeguati ai tempi. Non a caso, nella vulgata culturale mediatica, si parla sempre di giovani ed anziani, la media età, e con essa la maturità, sembra essersi estinta. La condizione giovanile è vissuta come una dimensione statica e permanente, viene assimilata anche dagli anziani nella moda, nei comportamenti, nel pensiero unico omologato all’esistente in perenne mutamento; la giovinezza si è tramutata in una condizione giovanilistica vissuta come fuga dalla realtà dal proprio tempo come una sorta di virtualità creativa su se stessi, come l’immagine reale di più generazioni eternamente giovanilistiche perché incapaci di una qualsiasi maturità, intesa come equilibrio e senso del limite, le peculiari qualità cioè, che possano conferire senso e stabilità al vivere sociale del nostro tempo.

Ogni tanto si incontra qualcuno che ti fa notare che non esistono più le cosiddette “mezze stagioni”, e che ormai c’è soltanto un susseguirsi di freddo polare e di caldo torrido. Nello stesso modo la mezza età, un tempo periodo di stabilità matrimoniale, di progressione professionale, di inquietudine sentimentale, di partecipazione storico-politica, eccetera, non sembra esistere più. Fino ai settanta anni si è giovani, oppure “ancora giovani”, o addirittura “giovanili”. Dopo i settant’anni si diventa improvvisamente anziani (il politicamente corretto non conosce la parola inquietante  “vecchi”, ma soltanto la parola tranquillizzante “anziani”), buoni per le panchine dei parchi e per l’ospedale oncologico. La frenesia del giovanilismo si unisce peraltro al solito sospetto-invidia verso i veri giovani biologici ed anagrafici. La gioventù è un coperchio simbolico che unisce insieme i giovani-giovani ed i vecchi-giovani. Qualche tempo fa ho incontrato un conoscente di gioventù che non vedevo da decenni, che mi ha lodato dicendo che ero ancora “giovanile”, ma che per sembrarlo di più avrei dovuto tingermi i capelli, farmi meglio la barba perché non si vedessero le radici bianche dei peli, eccetera. È mancato poco che non mi chiedesse, secondo l’uso di un esilarante personaggio del romanziere vigevanese Lucio Mastronardi: “Funziona la mazza?”.
Nella Filosofia del Diritto di Hegel il passaggio dall’età giovanile all’età matura era metaforizzato attraverso il passaggio dalla moralità astratta (Moralitaet) all’eticità concreta (Sittlichkeit), ed a sua volta l’eticità concreta era caratterizzata, per quanto riguarda l’individuo concreto (e cioè l’individuo non solo del liberalismo classico borghese, ma anche del posteriore e complementare comunismo storico novecentesco realmente esistito), dal matrimonio monogamico e dalla professione. Ma abbiamo già chiarito nelle risposte precedenti che la nuova configurazione sociale ed economica del capitalismo globalizzato assoluto, postborghese e postproletario, è caratterizzata dalla flessibilità e dalla precarietà, o più esattamente dalla flessibilità nella erogazione della forza-lavoro e dalla precarietà delle forme di vita, cui l’industria del postmordemo filosofico si sforza di conferire un’aurea seducente. Si è allora giovani fino ai settanta anni perché si è idealmente “precari” fino al termine della propria attività lavorativa. L’interminabile innovazione tecnologica, inoltre, toglie agli anziani quel “possesso del mestiere” che un tempo faceva da base materiale al prestigio dei “maestri” rispetto agli apprendisti.
Si tratta di cose ben note non solo ai sociologi ed agli economisti, ma anche agli scrittori ed ai romanzieri. E tuttavia è forse meno noto che la radice di questa interruzione degli elementi simbolici del vecchio e fisiologico ricambio generazionale sta in particolare nel tipo di mercatizzazione integrale della vita quotidiana, che ha trasformato le classi d’età in targets merceologici di consumo differenziato. È stato calcolato che i bambini parcheggiati davanti ai televisori hanno memorizzato in tenera età centinaia di brand, e che di lì nasce la mostruosa coazione ai capi “firmati”, cui forse la nuova benedetta ministressa della Pubblica Istruzione Gelmini vuole porre un (esile) freno con la reintroduzione del grembiule eguale per tutti (ma scommetto che fallirà, perché sono sicuro che l’ala merceologica berlusconiana del mercato capitalistico totale e senza freni vincerà contro l’ala tradizionalista dei costumi educati vetero-borghesi).
A distanza di quasi un secolo, il vecchio futurismo alla Martinetti appare sempre di più un timido ed ancora artigianale precursore dell’odierno futurismo integrale. In termini marxiani, si è passati dalla fase della sottomissione formale dell’innovazione tecnologica alla riproduzione sociale borghese alla fase della sottomissione reale dell’innovazione tecnologica stessa alla riproduzione sociale ultracapitalistica. Sta qui la radice materiale della interruzione della trasmissione dell’esperienza fra i giovani e gli anziani. L’esperienza degli anziani era strutturata sui due parametri essenziali della famiglia monogamica stabile (sia pire con le note patologiche dell’ipocrisia, dell’adulterio, dell’eventuale prepotenza maschile, eccetera) e della professione stabile ed accrescitiva (sia pure con le note patologiche della raccomandazione, dell’intrallazzo e della segnalazione di carriera a base politica e/o boccaccesco-pecoreccia). La critica culturale piccista ha avuto buon gioco in quasi mezzo secolo a delegittimare gli aspetti “etici” di questi due parametri vetero-borghesi sottolineando ed evidenziando gli aspetti moralistico-negativi (sostanzialmente due, raccomandazioni ed adulteri). Alla fine, il deserto prodotto è stato funzionale alla costruzione di autostrade a scorrimento veloce per i nuovi fuoristrada dell’ultracapitalismo flessibile e precario, e quindi giovanilistico per sua stessa natura.
Tutto questo i mastodonti dell’eterno conflitto Fascismo/Antifascismo non lo capiranno mai, anche se possono contribuire ancora a lungo a rendere impossibile una generalizzata comprensione.

4) La condizione giovanile contemporanea è indissolubilmente legata alla precarietà. Oggi si è infatti eternamente precari nel lavoro, nella vita sociale, della vita affettiva, in un mondo che ha costruito la propria vita sugli impulsi effimeri del consumismo globalizzato. C’è oggi il concreto pericolo che questa precarietà immanente sia vissuta dai giovani non come condizione alienante, ma come naturale dimensione umana. I giovani infatti hanno assimilato sin dall’infanzia questo modo di esistere e, poiché sono assenti dalla loro esperienza vissuta valori e dimensioni sociali diverse, la loro psicologia e le loro scelte di vita potrebbero essere costruite su questa “liquida” precarietà immanente. Il vuoto di memoria storica è evidente, così come è condannabile senza appello l’influenza esercitata su di loro dalle generazioni precedenti, che hanno sradicato in se stessi, prima che nei propri figli, qualunque valore identitario trascendente la realtà effimera del presente. Vero è anche il fatto che la fine del secolo ideologico e la storicizzazione del novecento ha stornato dalla mente dei giovani pregiudizi fideistici generatori di false e astratte interpretazioni della realtà storica passata e presente. Tuttavia è viva l’esigenza di una nuova e obiettiva visione della realtà che prescinda sia dal pregiudizio ideologico che dalla attuale precarietà esistenziale permanente. Il problema fondamentale è quello però di suscitare nei giovani un senso critico che determini una fase di rottura con la “metafisica del mercato” dell’ economicismo consumista, alla luca delle idee guida della cultura europea, quali l’universalismo filosofico e la dimensione comunitaria dell’esistenza. E’ un compito difficile, ma la rottura delle giovani generazioni con l’eterno presente, è l’unica speranza possibile, dato che è da tutti constatabile il fallimento delle generazioni ideologizzate precedenti, il cui peccato irredimibile è quello di non avere rappresentato un modello di ispirazione credibile per i giovani.

 La formulazione di questa tua quarta domanda contiene tutti gli elementi indispensabili per disegnare i termini essenziali di una prima ipotesi sui caratteri storico-sociali determinati della questione giovanile come si presenta oggi non in uno spazio-tempo astratto, ma nelle nostre società ultracapitalistiche postborghesi e postproletarie, globalizzate e neoiberali. Per questa ragione mi sarà facile compiere una breve ricapitolazione.
In primo luogo, il cuore di tutta la questione, già da me segnalato in una precedente risposta, sta nel “concreto pericolo che questa precarietà immanente sia vissuta dai giovani non come condizione alienante, ma come naturale dimensione umana”. È infatti proprio così. Il nuovo capitalismo assoluto sa bene che la vera vittoria finale, o quanto meno una vittoria di lungo periodo e non solo provvisoria e congiunturale, non può aversi sul terreno dell’economia e della sociologia, e neppure su quello della geopolitica e della potenza militare, ma solo su quello dell’antropologia sociale diffusa, e cioè sul terreno che alcuni filosofi hanno definito della grammatica delle forme di vita e della colonizzazione della vita quotidiana. Il punto più alto in assoluto della tradizione marxista indipendente del novecento (non parlo certamente degli apparati ideologici dei partiti comunisti diretti da veri e propri briganti nichilisti), e cioè il filosofo Lukács (1885-1971), ha individuato nel cosiddetto “rispecchiamento quotidiano” la base ontologico-sociale su cui viene edificato poi l’insieme di rapporti sociali. È vero che questa geniale individuazione avveniva purtroppo ancora all’interno di un involucro ideologico marxista tradizionale a mio avviso oggi ormai obsoleto, in quanto interno ad una fase ancora borghese-proletaria (e non postborghese e postproletaria) del capitalismo, ma tuttavia si era già colto il centro del problema.
Ed il centro del problema sta in ciò, che la strategia immanente del sistema non è più incentrata sulla colonizzazione sociologica, e cioè sul cosiddetto nesso di imborghesimento del proletariato/proletarizzazione della borghesia, ma sulla manipolazione antropologica, in modo da trasformare la precarietà – come tu dici – in una naturale dimensione umana. I giovani sono quindi il naturale oggetto di questa sperimentazione sociologica, che è partita dagli USA per poi approdare in Europa e giungere oggi alle cosiddette “società tradizionali”, mondo musulmano, India, Cina, eccetera. La questione del corpo femminile in Afghanistan diventa altrettanto importante di quanto lo sia impiantare un’ennesima base missilistica USA. Scoprire il sedere delle giovani donne iraniane diventa un obiettivo bellico così come le centrali nucleari di raffreddamento. Questo, ovviamente, è del tutto fuori della comprensione sia delle nostre “destre” che delle nostre “sinistre”. Tutto deve diventare flessibile, il lavoro, la professione, il sesso, eccetera. Tutto deve diventare funzione esclusiva del potere d’acquisto del mercato assoluto. Quando l’economia di mercato sarà diventata società di mercato (ed a te certo non sfugge la differenza fra i due termini), allora questo mostruoso esperimento antropologico potrebbe vincere, come nei più terrificanti scenari della fantascienza horror. E tuttavia non credo che ce la faranno. Mentre infatti non ho mai avuto molta fiducia nei cosiddetti poteri salvifici della classe salariata, operaia e proletaria, ne ho sempre avuta di più nella capacità di resistenza della natura umana. Ho sempre fondato il mio irripetibile “comunismo” in Spinosa ed in Aristotele, e non certo in Panzieri ed in Negri.
In secondo luogo, concordo sul fatto che la presa d’atto del “fallimento delle generazioni ideologizzate precedenti” deve diventare sempre di più il punto di partenza per riformulare i termini essenziali di una “rifondazione”. Ma la dissoluzione, ridicola e vergognosa, del cosiddetto partito della rifondazione comunista italiana, che si sta fortunatamente compiendo sotto gli occhi di tutti in questo afoso luglio 2008, fra brogli, congressi truccati, cammellaggi di falsi iscritti, tentativi golpisti del narcisista borderline Bertinotti di sciogliere il suo partitino in una melma arcobaleno, eccetera, deve farci capire che non si tratta tanto di “rifondare” il comunismo partitico, a mio avviso ormai superato dalla stessa “storia” su cui aveva incautamente puntato tutte le sue carte (ma chi di storia ferisce di storia perisce), quanto di riformulare il vecchio eterno problema di una buona vita (il greco eu zen) nei confronti di un sistema smisurato (apeiron, aoriston) in cui la crematistica sta rendendo impossibile la progettazione di una vita sensata.
In quanto ai problemi dell’utopia, o più esattamente di come impedire il più possibile l’ideologizzazione dell’utopia stessa, bisognerà parlarne in modo più analitico in un’altra occasione. Essa certamente non mancherà nel prossimo futuro. Dopo circa quarant’anni (1968-2008)  l’apparato ideologico-antropologico sessantottino ha smesso – come tu dici – di “rappresentare un modello di ispirazione credibile per i giovani”. Speriamo proprio che sia così.