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Dal PIL al BIL. Intervista a Nello De Padova

di Marianna Gualazzi - 28/08/2008

 


Il seguente articolo è tratto dalla rivista Consapevole 16 (luglio/settembre 2008).


Costruire il Benessere Interno Lordo

BIL e PIL: sembra uno sciogli lingua, uno stornello per bambini. Ma dietro a due sigle che si somigliano in tutto, se non nella lettera iniziale, si nasconde un cambiamento profondo del paradigma economico e sociale in cui siamo immersi.
Perché passare dalla cultura del PIL a quella del BIL significa passare dal Prodotto al Benessere, dai numeri alla qualità, dalle merci ai beni, dal “non ho tempo” a “ho tempo”, dalla televisione alla vita reale.
E come il B enessere Interno Lordo potrebbe cambiare in meglio le nostre vite ce lo racconta Nello De Padova, che con Roberto Lorusso ha scritto un bel libro sulla decrescita dal titolo DePILiamoci. Liberarsi del PIL superfluo e vivere felici (Editori Riuniti, 2007).

Che cos’è il BIL e che cos’è, invece, il PIL superfluo?
Il BIL, Benessere Interno Lordo, è un termine che ormai si usa in maniera molto diffusa per contrastare l’idea che il Prodotto Interno Lordo sia un misuratore di benessere. Con il concetto di BIL si vuole portare l’attenzione sul fatto che oltre alla ricchezza economica – che sicuramente deriva ed è direttamente collegabile al PIL – ci sono tutte una serie di “ricchezze” che l’uomo ha nel suo vivere e che non vengono assolutamente misurate dal PIL, anzi talvolta la crescita del PIL le fa diminuire. Il Benessere Interno Lordo in realtà non è un indicatore, e probabilmente non lo sarà mai: non è possibile probabilmente contare le cose importanti della vita che il PIL non conta. Il tentativo di costruire un indicatore alternativo al PIL per misurare il benessere nelle complesse e opulente società occidentali, probabilmente non si realizzerà mai .
Qualcuno cui ha provato. In Buthan, ad esempio, stanno misurando la felicità attraverso l’Happiness Gross Index – l’Indice della Felicità Lorda: anche in questo caso però, si cerca di ridurre tutto ad un numero, e questo forse è proprio l’errore: la complessità della vita umana non si può ridurre a un numero.

Come si può passare dalla cultura del PIL a quella del BIL? Quali sono le azioni quotidiane che fanno aumentare il BIL?
Sono tutte azioni molto semplici da mettere in pratica, e restituiscono all’uomo una dimensione che l’attuale sistema non rende più possibile: una dimensione diversa da quella economica.
Noi riteniamo che il miglior modo per andare verso il benessere e per eliminare il PIL superfluo sia ridurre la centralità del sistema economico e mercantile all’interno del vivere umano, riscoprendo che esistono tutta una varietà di cose che possiamo e dobbiamo re-imparare a fare, senza doverle comprare. Il sistema del PIL punta necessariamente all’isolamento dei singoli, perché solo in questa maniera si è costretti ad avere bisogno di comprare qualsiasi cosa: se io non so che il mio vicino di casa ha l’hobby per la falegnameria, non potrò mai rivolgermi a lui per riparare il mio tavolo e do vrò comprare questo servizio da qualcun altro. Se io non so che al piano di sopra c’è una persona sola, non troppo anziana, che sarebbe felice di avere un po’ di compagnia e che potrebbe occuparsi di mio figlio quando io non posso farlo, sarò costretto a rivolgermi al mercato e ad acquistare il servizio di una baby sitter. La riscoperta della comunità – comunità significa con dono, dal latino cum munus – è il modo per ridurre la nostra schiavitù dal sistema di mercato.

Quindi sono le scelte che ognuno di noi fa singolarmente che possono favorire questo passaggio culturale: ovvero il cambiamento dipende da ognuno di noi?
Dipende assolutamente da ognuno di noi. Certo, possono contribuire a migliorare questa situazione anche il sistema delle imprese, lo stesso sistema di mercato e il sistema della governance, della politica e dell’amministrazione.
È chiaro che se un’amministrazione comunale genera momenti di convivialità fra le persone e quindi cerca di organizzare eventi in cui la gente possa tornare ad occupare le piazze e a scambiarsi idee, sta compiendo delle azioni per riconquistare quegli spazi che il mercato, per sua natura, cerca di ridurre. Alla stessa stregua, alcune imprese stanno imparando che il consumatore desidera prodotti riutilizzabili, prodotti riparabili, prodotti che hanno una vita lunga, piuttosto che prodotti usa e getta e prodotti spazza tura che il sistema, ancora una volta, ci induce ad acquistare: si tratta di produttori illuminati, che vanno nella direzione della decrescita.

Nel libro c’è scritto che il vero povero è colui che non sa produrre nulla autonomamente. Qual è il peso dell’autoproduzione all’interno del paradigma della decrescita?
Noi non diciamo che bisogna abolire il mercato: il mercato deve continuare ad esistere perché non è pensabile che uno si auto-produca un pc, per intenderci. Ci sono alcune parti dell’attività umana che necessitano di essere organizzate in impianti appositamente predisposti. Però deve tornare ad esserci ampio spazio per altri due tipi di economia, oltre a quella di mercato: quella dell’autoproduzione e quella del dono.
L’autoproduzione significa non solo – come dice giustamente Pallante – farsi lo yogurt in casa, ma soprattutto avere meno bisogno di tutta una serie di servizi, che sono l’ultima frontiera della mercificazione. Il sistema mercantile ha mercificato qualsiasi produzione: non è più pensabile prodursi il pane, ma nean che i biscotti, la pasta. Non è più neppure possibile fare da sé la manutenzione delle cose che compriamo: prima, quando compravo l’automobile, c’era un libretto di istruzioni che mi diceva come sostituirmi una quantità di pezzi; adesso quello che mi dice il produttore è che quando si accende una certa lucetta devo portare la macchina dal concessionario, quindi non posso neanche pensare di autoprodurmi la manutenzione della mia automobile.
Dopo avere mercificato tutto ciò, il sistema di mercato mercifica anche i servizi, specialmente i servizi cosiddetti “di cura”: le attività che si fanno verso i propri figli, verso i propri parenti malati e verso i vicini di casa.
Purtroppo i nostri governanti ci dicono che il massimo della liberazione umana è quella di potere avere asili infantili aperti dalla mattina dalle 7 di mattina alle 7 di sera, per dare ai genitori la “libertà”: ci dicono di andare a lavorare a qualsiasi ora. L’asilo infantile serve sicuramente, ma non bisog na fare in modo che incrementi il tempo in cui il bambino st! a all’as ilo, bisogna trovare il modo di incrementare il tempo in cui i genitori possono stare con i loro figli, con delle tecniche completamente opposte rispetto a quelle che il mercato ci impone. Il mercato ci vuole soltanto produttori di reddito con il quale acquistare merci.
L’altro tipo di economia che noi proponiamo e che riprendiamo anche in questo caso dal passato e dalla tradizione – specialmente quella dei nostri piccoli paesi – è l’economia del dono, cioè quell’economia che fa sì che ciascuno realizzi delle attività non direttamente per qualcuno o per avere in cambio qualche cosa, ma per la comunità in cui vive. È un po’ quello che era il sano volontariato di una volta – non quello mercificato che negli ultimi decenni ha trasformato il volontariato nel terzo settore. Il Movimento della Decrescita Felice vuole semplicemente che l’economia del dono e l’economia dell’autoproduzione possano ricominciare ad avere degli spazi in un sistema in cui l’economia di mercato ha inglo bato qualsiasi attività.

L'articolo che hai appena letto è tratto dalla rivista Consapevole 16 (luglio/settembre 2008): per leggere la versione integrale del testo abbonati alla rivista!