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Alcune verità sulla "crisi georgiana"*

di Enrico Galoppini - 19/09/2008

 





Il 17 settembre, a Torino, presso il Centro culturale italo-arabo Dar Al-Hikma, si è svolto il convegno "Il Caucaso in Fiamme. La reale posta in gioco nella "crisi in Georgia" e la fine dell'unipolarismo americano". L'iniziativa, inserita nell'ambito dei seminari 2008-09 di "Eurasia. Rivista di Studi geopolitici", ha visto la partecipazione di due ottimi conoscitori della questione che, recentemente, è stata al centro delle cronache e dell'attenzione degli analisti di politica internazionale.
Nell'introduzione, il sottoscritto ha esortato i relatori, Fabrizio Vielmini (esperto di geopolitica russa e ricercatore associato presso l'ISPI) e Luca Bionda (collaboratore di "Eurasia" che ha visitato Abkhazia ed Ossezia del sud) a sottolineare come la "crisi georgiana" abbia posto fine agli ultimi residui d'ambiguità della politica estera atlantica e dei suoi 'diversivi' (tipo la "guerra all'Islam"), quando ormai è evidente che l'obiettivo della "guerra al terrorismo" è la Russia. Allo stesso tempo, nella breve guerra d'agosto, è venuta a cadere la favola del "rispetto del diritto internazionale", poiché l'esercito georgiano, sobillato dagli atlantici, ha colpito anche i peacekeepers russi.

Luca Bionda ha proposto inizialmente una scheda storica sull'Ossezia, e, con l'aiuto di una dettagliata carta della regione, ha illustrato ai presenti il complesso mosaico di popoli della regione del Caucaso. Dopo di che è passato a spiegare le relazioni che intercorrono tra gli osseti, i russi e i georgiani, in modo da capire perché i primi si sono posti sotto la protezione di Mosca. L'inizio del "problema" – ha spiegato il collaboratore di "Eurasia" – è da situare in concomitanza con la fine dell'URSS, quando le istanze autonomiste-indipendentiste dell'Ossezia del Sud (come di altre repubbliche) emersero chiaramente per motivi d'autodifesa, per poi giungere alla sistemazione del 1992.

Fabrizio Vielmini ha successivamente proposto un intervento denso ed illuminante su come gli Stati Uniti abbiano pianificato ed attuato una vera e propria "strategia per la Georgia", dagli anni Novanta alle "rivoluzioni colorate". Con la fine del sovietismo, la Russia ha dovuto per un decennio stare alle "regole del gioco" definite dall'America, che in un delirio d'onnipotenza mirava a stabilirsi (in eterno?) come l'unica superpotenza mondiale. Il tentativo d'imporre un mondo multipolare guidato dalla "unica nazione indispensabile" ha coinvolto lo strumento militare principe del dispositivo atlantico, ovvero la NATO, con la prospettiva di un suo "allargamento" a Paesi dell'area di tradizionale influenza russa e comunque ex sovietica, in maniera da completare l'accerchiamento ai danni del "nemico principale". Allo stesso scopo gli Stati Uniti si sono dati da fare per far prevalere, con particolare impegno dopo il cosiddetto big bang del XXI secolo (l'11 settembre), il passaggio di oleodotti e gasdotti attraverso Paesi da essi controllati. La guerra delle pipelines, infatti, spiega anche in parte l'intervento in Afghanistan, e bene ha fatto Vielmini a ricordare che la "guerra al terrorismo" già nel 2002 apriva un nuovo fronte proprio in Georgia, con la scusa dei "ribelli ceceni" (!) affiliati ad al-Qâ'ida. L'anno successivo, non a caso, avveniva la prima delle cosiddette "rivoluzioni colorate", quella in Georgia, che avrebbe costituito il paradigma per tutte quelle successive, riuscite e non, dall'Ucraina all'Asia Centrale, passando per la Bielorussia, con l'obiettivo finale del colpo di mano a Mosca.

I relatori – mantenutisi sempre nell'alveo dell'analisi geopolitica – non hanno ritenuto importante dedicare del tempo alla denuncia della cosiddetta "informazione" e delle sue invenzioni, poiché è evidente che una propaganda che riesce a trasformare l'aggressore in aggredito può prosperare solo in un ambiente plagiato dai condizionamenti di quella stessa superpotenza i cui sogni di dominare il mondo si sono, probabilmente, infranti nel corso di quella che a torto potrebbe essere considerata una "crisi locale". Piuttosto, è stata senz'altro utile la descrizione di alcuni aspetti della "democrazia georgiana", per la quale – secondo uno dei cantori dell'indispensabilità dell'unipolarismo americano, Bernard-Henri Lévy – noialtri europei dovremmo essere disposti a 'morire'. A voler prendere sul serio certi parametri "democratici", quel che invece risalta è l'assoluta arbitrarietà del regime imposto da Saakhashvili, cresciuto ed ammaestrato dai suoi padroni d'Oltreoceano per andare a predicare un nazionalismo ottuso ed aggressivo ai danni dei popoli non georgiani che vivono entro i confini dello Stato retto da Tiblisi. Per non parlare degli atti d'intimidazione e delle violenze d'ogni tipo ai danni delle opposizioni, sia di piazza (quelle del nov. 2007 sono già finite nel dimenticatoio) che istituzionali (oppositori uccisi o fuggiti all'estero).

Lo sconsiderato attacco a Tskhinval e la pronta risposta russa sono stati al centro del secondo intervento di Fabrizio Vielmini. La Russia non poteva fare altrimenti. Mostrarsi indecisi avrebbe inferto un durissimo colpo alla credibilità della capacità della Russia di garantire sia la propria stabilità sia la propria credibilità, con successivo effetto domino di rivendicazioni separatiste ed incoraggiamento alle provocazioni delle nuove "democrazie" post-sovietiche targate USA. A questo punto, invece, le velleità degli Stati baltici, della Polonia, dell'Ucraina (in crisi istituzionale e con la Crimea che addirittura chiede a Kiev di riconoscere Abkhazia e Ossezia del Sud!) vengono fortemente ridimensionate, così come la possibilità da parte della cosiddetta "nuova Europa" di fungere da punta di lancia del dispositivo anti-russo escogitato dagli americani in combutta con quei settori europei che hanno sponsorizzato l'allargamento dell'UE a Paesi il cui "spirito europeista" è tutt'altro che comprovato. Uno dei contraccolpi della "crisi georgiana", o meglio dell'indiscutibile vittoria russa, è stata l'emersione di fratture profonde in seno all'UE e di una spaccatura nel "campo euroatlantico" difficilmente ricomponibile.

Alcuni dei presenti hanno poi posto alcune domande, tra cui una nella quale si chiedeva un parere su un'eventuale svolta americana nel caso in cui Barack Obama diventasse il prossimo presidente. Ma l'approccio geopolitico ha il pregio di concedere ben poco all'ideologia, per cui Fabrizio Vielmini ha assicurato che le linee di politica estera di Washington restano fondamentalmente le stesse, repubblicani o democratici, e prova ne è che il pianificatore della strategia verso la Russia negli anni Ottanta, Zbignew Brezisnki (originario proprio della "nuova Europa"), è diventato uno dei consiglieri del candidato democratico… Lo stesso Vielmini, per non usare troppi giri di parole, ha ribadito che, per gli USA, il "nemico principale" è la Russia, e non la Cina, come alcuni sostengono, e sarà proprio interessante seguire se quest'ultima approfondirà la cooperazione avviata in seno all'Organizzazione della Conferenza di Shangai o se proverà ad approfittare del contrasto russo-americano per rinnovare la stagione della "diplomazia del ping-pong".

Le conclusioni da trarre dal seminario di "Eurasia" dedicato al "Caucaso in fiamme" sono perciò le seguenti:
1) la fine dell'unipolarismo americano è già un fatto, e la manovra a tenaglia contro la Russia s'è inceppata, mentre l'America si avvia verso una crisi cronica (finanziaria, ma anche militare, per l'impossibilità di sostenere i troppi scenari che la vedono coinvolta);
2) il baricentro mondiale va spostandosi verso il blocco dei Paesi dell'OCS, con l'Europa che dovrà presto trarre da ciò le adeguate conclusioni, pena un "isolamento" attribuito vanamente alla Russia;
3) l'ultima spiaggia degli USA resta la messa in opera dell'extrema ratio: "Europa terra nostra o di nessuno", e per questo il dispositivo militare anti-russo va dispiegandosi sul terreno dell'UE, anziché – come sarebbe logico osservando un mappamondo – in Alaska, davvero a due passi dal "nemico principale"…

La reale posta in gioco nella "crisi in Georgia" è, assieme a quella di altre "crisi" (si pensi a quella mediorientale, nient'affatto scollegata), l'esito della lotta per il predominio mondiale: da una parte gli USA, che vedono esaurirsi l'illusione di costituire l'unico centro decisionale, dall'altra le potenze eurasiatiche e il nuovo assetto multipolare del XXI secolo.
*Resoconto de "Il Caucaso in fiamme. La reale posta in gioco nella «crisi in Georgia» e la fine dell'unipolarismo americano" (seminario di "Eurasia. Rivista di Studi geopolitici" – Torino, 17 settembre 2008)