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Garibaldi in Sicilia: fu vera gloria?

di Fernando Riccardi - 19/09/2008

 



Qualche settimana fa Enzo Sindoni, sindaco di Capo d’Orlando, ha demolito a colpi di martello una targa che dedicava a Giuseppe Garibaldi il piazzale antistante la stazione ferroviaria del suo comune. “Il mio gesto eclatante - ha affermato - non vuole cambiare il corso della storia ma soltanto ristabilire i fatti per come realmente si sono svolti. Garibaldi, proprio qui, con la sua spedizione di mercenari, ha fatto tantissime vittime”. E ancora: “… riappropriamoci del nostro passato per guardare meglio al nostro futuro. Così come abbiamo cominciato a fare a Capo d’Orlando si tolgano dalla toponomastica regionale tutti i nomi di quelle persone che sulla pelle dei siciliani hanno fatto fortuna. Abbiamo tanti veri eroi che realmente per la nostra amata terra si sono immolati. Oggi per la maggior parte di loro c’è l’anonimato più assoluto. Cominciamo a dare un segnale forte a tutta l’Italia: in Sicilia sono finiti i tempi delle conquiste. Riappropriamoci dunque della nostra storia e del nostro orgoglio”. Una vera ‘crociata’ quella promossa dal sindaco della graziosa cittadina siciliana il quale spera ardentemente che tanti altri, nell’isola e nel continente, sappiano e vogliano seguire il suo esempio procedendo sulla strada del ristabilimento della verità storica. E, in attesa di adesioni, Sindoni non è rimasto con le mani in mano: quel largario già intitolato all’eroe dei due mondi è diventato ‘Piazza IV Luglio’ per ricordare la battaglia navale che nel 1299 si svolse sul mare di Capo d’Orlando quando il re di Sicilia Federico III d’Aragona riuscì per il rotto della cuffia a sfuggire agli Angioni subendo la distruzione di moltissime navi e la morte di 6.000 siciliani. Lo stesso sindaco si sta adoperando per cambiare denominazione anche alle vie principali della sua città ad iniziare da quelle intitolate a Nino Bixio, altro garibaldino doc, e a Francesco Crispi. Come interpretare il clamoroso gesto del primo cittadino siciliano? A seconda delle posizioni, il più delle volte preconcette, ognuno condannerà spietatamente oppure esalterà senza mezzi termini il suo operato. A noi, francamente, non interessa molto partecipare a questo stucchevole gioco. Ci sembra più interessante, invece, soffermarci sull’aspetto storico della vicenda che presenta molti aspetti a dir poco oscuri. La domanda che ancora oggi molti si pongono è la seguente: “Come avrà fatto Garibaldi, con soli mille uomini, a conquistare uno stato e a sconfiggere un poderoso esercito regolare?”. Proviamo, per quanto è possibile, a dare una risposta. Non senza premettere che il prode nizzardo ci mise molto del suo, in quanto a valore, per condurre in porto l’impresa. Detto ciò non ci sembra di offendere l’inclita epopea risorgimentale cercando di ricostruire come effettivamente andarono le cose in quella primavera del 1860. Ad iniziare dagli eventi che seguirono lo sbarco di Marsala. La storia ufficiale, quella che si legge sui libri di testo, continua a considerare la battaglia di Calatafimi (15 maggio) l’evento che consegnò ai garibaldini le chiavi della Sicilia. Fu proprio in quella occasione che il generale, rivolto al fido Bixio, avrebbe pronunciato la famosa frase “qui o si fa l’Italia o si muore”. Ora, mettendo per un attimo da parte il giusto patriottismo, c’è da dire che quello di Calatafimi fu un ben misero accadimento. Tra le truppe borboniche, 3.000 uomini al comando del vecchio e malato generale Francesco Landi e il raccogliticcio esercito di Garibaldi (ai Mille si erano aggiunti altrettanti ‘picciotti’ siciliani), non ci fu che una modesta scaramuccia. Che, ironia della sorte, volse in netto favore dei borbonici che riuscirono persino ad impossessarsi del vessillo garibaldino.
Quanto, però, i soldati di re Franceschiello erano sul punto di cogliere un netto successo, improvviso e inaspettato, giunse da parte del generale Landi l’ordine di abbandonare il campo e di ripiegare su Palermo. Eppure i reparti del colonnello Sforza erano ad un passo dalla vittoria e stavano già inseguendo i garibaldini in rovinosa fuga. E pensare che i borbonici avrebbero potuto gettare nella mischia altri 1.500 uomini tenuti di riserva. Quale il motivo di un comportamento così inspiegabile? Uno dei Mille, Francesco Grandi, così scrisse nel suo diario: “I garibaldini si meravigliarono, non credendo ai loro occhi e orecchie, quando si accorsero che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla loro tromba ma da quella borbonica”. Circostanza confermata anche da Giuseppe Cesare Abba al quale “pareva miracolo aver vinto”. Il generale Landi, intanto, il giorno 17 giunse con le sue truppe a Palermo. I soldati napoletani erano disorientati e, soprattutto, non riuscivano a comprendere il perché di quella ritirata. Emblematica la domanda che un militare rivolse in dialetto al suo comandante per sapere se a Calatafimi avevano vinto oppure perso. Fatto sta che una commissione militare dispose per il generale borbonico la degradazione e la collocazione a riposo. Venne poi rinchiuso nel carcere di Ischia in attesa di un processo che con il crollo del regno di Francesco II non fu mai celebrato. Ma davvero Landi fu un traditore? O soltanto un codardo e un incapace? I più, ligi al rigido dogmatismo storiografico, propendono per la seconda ipotesi, facendo risaltare grandemente, di fronte alla viltà dell’ufficiale borbonico, l’ardimento di Garibaldi capace, da par suo, di raddrizzare una situazione disperata. A quanto pare, però, non si trattò solo di incapacità. Uno storico attento e autorevole come il De Sivo afferma che Landi, nel marzo del 1861, presentò al Banco di Napoli una fede di credito dell’importo di 14.000 ducati. Era, insomma, il prezzo del tradimento, il vero motivo per cui a Calatafimi aveva ordinato ai suoi soldati la ritirata. Il diavolo, però, fa le pentole ma non i coperchi. All’atto di incamerare il malloppo un solerte impiegato si avvide che quella cedola era spudoratamente falsa. O, meglio, valeva soltanto la miseria di 14 ducati. Il vecchio generale ci rimase così male che qualche tempo dopo fu colto da un colpo apoplettico e passò a miglior vita. Non prima di confessare, forse per vendicarsi o, forse, in un estremo rigurgito di onestà, di aver ricevuto quel titolo da Garibaldi in persona. E così la battaglia di Calatafimi, quella che consegnò alle ‘camicie rosse’ il possesso della Sicilia, potrebbe essere stata decisa da un volgare episodio di corruzione. E la cosa non deve sorprendere più di tanto. Nel corso della spedizione si registrarono altri analoghi episodi. Lo stesso Cavour avrebbe più tardi provveduto a consegnare al contrammiraglio Carlo Pellion di Persano “un fondo spese… di un milione di ducati destinati alla corruzione degli ufficiali borbonici”.
Prima di concludere, ma sull’argomento torneremo ancora, un’ultima annotazione. Nello scontro di Calatafimi persero la vita 32 garibaldini e 36 borbonici. Non vi pare un bilancio fin troppo esiguo per una battaglia che, secondo la ‘vulgata’ ufficiale, è stata decisiva per le sorti di Garibaldi e della sua impresa? Comunque è pur vero che dall’altra parte del fronte, contro le camicie rosse”, c’erano le truppe di un sovrano – si fa per dire - definito “re Franceschiello”. Ed è tutto dire.