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Biologico? Ni, grazie.

di Stefano Montanari - 20/09/2008

     
   
 

 Nel 1862 un filosofo tedesco chiamato Ludwig Feuerbach (non so se sia ancora ospite dei licei dell’italico sfacelo) scrisse una frase diventata famosa: l’uomo è ciò che mangia.

Dal punto di vista biologico, forse sarebbe più esatto dire: l’uomo è ciò che mangia, ciò che non mangia e ciò che costruisce dentro quel laboratorio in gran parte sconosciuto che è l’organismo.  

Non è mia intenzione affliggere i frequentatori di questo blog con disquisizioni di biochimica e, dunque, la finisco qui. Quello che è certo è che il benessere dell’individuo non può prescindere dalla qualità dell’alimentazione.  

Negli ultimi decenni, a velocità crescente, la dieta occidentale si è appiattita e, nel contempo, impoverita. Oggi i cereali lavorati, così tipici della cultura primonovecentesca fanatica religiosa americana, hanno invaso le tavole della prima colazione (ora breakfast) persino dei mediterranei, gli yogurt industriali arrivano dai posti più impensati (è di oggi la notizia che il Canada ha tolto dai suoi supermercati lo yogurt cinese!), le bibite gassate accompagnano addirittura i pasti e così via.  

Dal punto di vista alimentare, trattasi d’ignobili porcherie.  

I cereali sono svuotati delle loro componenti più preziose che vengono vendute a parte e a carissimo prezzo; per di più, alcuni, come quelli soffiati, subiscono cotture a temperature tanto elevate da riempirli di acroleina, uno dei veleni delle sigarette. Gli yogurt contengono batteri utili che, nella migliore delle ipotesi, sono in

coma profondo o, in altri casi, batteri addizionati con gran clamore pubblicitario ma privi di qualsiasi funzione scientificamente dimostrata, positiva o negativa che sia, sul nostro organismo. Le bibite gassate sono micidiali per le quantità esagerate di zuccheri che contengono quando non per i coloranti, senza dire delle loro quanto meno sospette ricette segrete, e si potrebbe continuare all’infinito.   

Uno dei tanti problemi che ci affliggono è l’impoverimento del suolo. Noi non ruotiamo più le colture, tecnica indispensabile, tra l’altro, per fissare le sostanze azotate, e usiamo concimi chimici, peraltro inquinanti quanto mai nel processo di fabbricazione, che restituiscono alla terra solo una modestissima e del tutto insufficiente varietà di sostanze chimiche.  

Ecco, allora, per vivere una vita possibilmente sana, la necessità di far ricorso ai cosiddetti alimenti biologici, quelli fabbricati con materie prime le più vicine possibili a quelle che erano prima che l’uomo intervenisse così sventatamente sulla Natura.  Non esistono dubbi: il contenuto di vitamine di un vegetale coltivato con quei criteri è sostanzialmente superiore a quello dei poveri cereali, della povera frutta o delle povere verdure industriali. E così per molte altre sostanze necessarie. Ma anche il biologico ha qualche problema.  

Il più appariscente è quello dei costi, certo non di poco più elevati rispetto a quelli dei cibi che ci vengono offerti ormai di norma. L’altro, magari un po’ più per addetti ai lavori, è quello delle confezioni che troppo raramente sono ecocompatibili, con plastiche non biodegradabili, non di rado mescolate a cartone e a metalli, confezioni difficilissime o, in termini pratici, impossibili da recuperare in qualche modo. Ma c’è altro.  

Nel nostro laboratorio noi abbiamo esaminato centinaia di alimenti, prendendoli in modo del tutto casuale dagli scaffali dei supermercati, e abbiamo valutato il loro contenuto in inquinanti particolati inorganici. Senza grande sorpresa abbiamo costatato come non esista differenza apprezzabile tra alimenti biologici e tutto il resto: le polveri si trovano in uguale misura nelle due categorie. Per non incorrere in equivoci, sottolineo che dovunque ci sono alimenti perfettamente puliti (parlo sempre di micro e nanoparticelle), e non sono pochi, ma che, se il contenuto di polveri deve essere un criterio di scelta, biologico o no non fa differenza.

 

Il motivo è semplice: le nanoparticelle non esistono. Non esistono per la legge, non esistono per gli enti di controllo, non esistono, non esistono, perciò, per i produttori. Esistono, ahimé, per i nostri organi, compresi quelli dei produttori.  

Tempo fa due industrie e una grande catena di distribuzione ci chiesero di esaminare qualche loro prodotto. Il risultato fu che micro e nanoparticelle inorganiche ce n’erano, non dappertutto, ma ce n’erano. Eliminarle sarebbe stato tecnicamente possibile, ma questo avrebbe significato spendere qualche soldo, impegnare un po’ di persone e, soprattutto, attirare l’attenzione su un fatto ufficialmente inesistente. Dunque, perché tirarsi la zappa sui piedi? Occhio non vede, cuore non duole. Fino a che la legge non interviene (ma si può fare in modo che non intervenga o lo faccia fra chissà quanto, vedi amianto, DDT, CFC, ecc.) e, soprattutto, fino a che i clienti non si accorgono di nulla e continueranno a premiare con i loro acquisti i prodotti inquinati, avanti a tutta! Del doman non v’è certezza, dice il poeta.  

A questo punto, conscio come sono dei pericoli causati dalle polveri inorganiche non biodegradabili e da utilizzatore di alimenti biologici, mi auguro che le aziende, almeno quelle bio, aprano gli occhi. Prima o poi saranno costrette a farlo e quello sarà un momento di crisi per un mercato, isterico com’è, che andrà a precipizio. Ricordate le fiorentine nel periodo della mucca pazza o i polli nella tempesta dell’aviaria?