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Intervista a Zbigniew Brzezinski

di Michael Mechanic* - 02/10/2008

Intervista a Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale, sull'eredità di Bush e sul perché appoggi Obama contro McCain




Mother Jones: Quali sono per lei i fallimenti più rilevanti dell'amministrazione Bush?
Zbigniew Brzezinski: Ne emergono due in particolare. Il primo è la guerra totalmente auto-distruttiva in Iraq, che ha enormemente minato la posizione americana nel mondo, e, ancor peggio, l'influenza globale dell'America. Servirà molto tempo per rimediare a queste conseguenze. Il secondo è l'economia, che ha non solo danneggiato la capacità di sussistenza di migliaia di americani ma sta anche danneggiando la fiducia in sé del paese. L'insieme di questi aspetti costituisce un trascorso penoso.

MJ: A quale parte della sua eredità sarà più facile porre rimedio?
ZB: Alla percezione simbolica dell'America, perché se un nuovo presidente personalizzerà un concetto molto diverso dell'America e un senso diverso della missione americana nel mondo rispetto al presidente George W. Bush, questo contribuirà quasi automaticamente a migliorare l'immagine globale dell'America. Ma agli aspetti concreti legati alla guerra e all'economia non sarà facile porre rimedio.

MJ: C'è qualcosa di irreparabile?
ZB: È davvero difficile dirlo. È certamente possibile per l'America ridefinire il suo ruolo nel mondo, soprattutto se nel breve periodo l'America sarà capace di gestire efficacemente il dilemma mediorientale.

MJ: E per quanto riguarda la guerra al terrore interna? Come ce ne tiriamo fuori?
ZB: Diventando più razionali. Stiamo conducendo una guerra contro il terrorismo, ma abbiamo avuto la fortuna che non sia stato commesso alcun atto di terrorismo contro gli Stati Uniti dall'11 settembre. È in parte fortuna, in parte conseguenza del semi-isolamento dell'America e in parte il risultato, forse, di un buon lavoro di spionaggio e controspionaggio. Ma ben poco è dovuto alle conseguenze dell'auto-generatosi clima di terrore in questo paese, che ha prodotto reazioni ridicole, molte delle quali non sono certo servite a scoraggiare o prevenire il terrorismo. A Washington, DC, non puoi nemmeno entrare in un edificio finanziario senza che delle persone supponenti in uniforme e con mansioni di sicurezza controllino occasionalmente la tua identità e ti chiedano lo scopo della visita in un modo – e spesso con toni – che indicano un atteggiamento piuttosto flemmatico verso le loro responsabilità. E se rispondi che sei nell'edificio con lo scopo di farlo esplodere c'è il caso che ti dicano: “La suite 908 è al nono piano, gli ascensori sono sulla destra”. Siamo in una situazione in cui un qualche oscuro studio legale è protetto, ma i grandi magazzini, le sale da concerto, il Kennedy Center, le mense e i ristoranti non lo sono. Qual’è la logica?

MJ: Cosa dovrebbe fare come prima cosa il prossimo presidente per rimediare al danno dell'amministrazione Bush?
ZB: Ovviamente bisogna lavorare energicamente per porre fine alla guerra in Iraq; avviare negoziati con l'Iran su un piano ragionevole, con un senso di fiducia e apprezzamento per il fatto che la deterrenza ha funzionato in passato e non c'è ragione di ritenere che non possa funzionare con l'Iran; e infine, ma non ultimo per importanza, impegnare l'America in maniera più attiva nello sforzo di pacificazione tra gli israeliani e i palestinesi.

MJ: Cosa pensa dell'idea secondo cui dialogare con l'Iran legittimerebbe Ahmadinejad?
ZB: È un'assurdità che viene ripetuta scioccamente. Eravamo legittimati a parlare con Stalin? Con Mao? La legittimità di una leadership dipende da quello che un Paese pensa dei suoi leader. Quando allentiamo la presa notiamo che un numero sempre maggiore di iraniani tende a essere critico nei confronti di Ahmadinejad. Più siamo invasivi e più li mettiamo sotto pressione, più il nazionalismo in Iran si unisce al fondamentalismo.

MJ: In quali altri modi la posizione di Bush è sbagliata?
ZB: Abbiamo adottato una politica di sanzioni, abusi e minacce chiedendo che, per negoziare con noi, l'Iran cedesse sulla principale questione in gioco, cioè il suo diritto ad arricchire l'uranio. Questa è una posizione seria o una proscrizione?

MJ: Pensa che l'Iran arriverà alle armi nucleari?
ZB: Quasi certamente, se continueremo con la condotta attuale. L'alternativa, dunque, è una guerra più estesa nel Golfo Persico con conseguenze calamitose per gli Stati Uniti, nella regione e nel mondo.

MJ: In quali circostanze l'Iran potrebbe voler rinunciare alle armi nucleari?
ZB: Solo se si sentisse sicuro e ne ricevesse in cambio vantaggi – importanti vantaggi – economici.

MJ: Se dialoghiamo con l'Iran e questo dialogo non funziona, qual è il prossimo passo?
ZB: Se non funziona, ma nel frattempo contribuisce a ridurre le tensioni, e tuttavia l'Iran continua a voler perseguire il nucleare a fini militari, possiamo ricorrere alla deterrenza nucleare come abbiamo fatto con la Cina e l'Unione Sovietica. E anche con la Corea del Nord, il Pakistan e l'India.

MJ: Lo scorso ottobre abbiamo parlato con lei dell'Iraq. La sua idea in merito è cambiata da allora?
ZB: Le persone che hanno perpetrato questa calamità dicono che non possiamo andarcene finché le cose vanno male. E se le cose vanno meglio, per esempio grazie al surge, dicono che non possiamo andarcene proprio adesso che vanno meglio.

MJ: All'epoca era gravemente preoccupato che questa amministrazione potesse tentare di trascinarci in un conflitto con l'Iran prima delle elezioni. La pensa ancora così?
ZB: Penso che esista il rischio che l'amministrazione possa tentare di surriscaldare il clima così si crei un senso di emergenza, di crisi e perfino di paura nel paese. Perché secondo alcuni questo darebbe un vantaggio a McCain.

MJ: Come pensa che potrebbero essere influenzate le percezioni globali dell'America dal fatto di avere un presidente nero?
ZB: Penso che dimostrerebbe che quando parliamo di un'America globale veramente pluralista, tollerante e multietnica non si tratta solo di retorica e propaganda.

MJ: Che accordo ha con Obama?
ZB: Nessun accordo. Sono un suo sostenitore. Lo scorso settembre, prima di presentare un suo importante discorso sull'Iraq davanti al pubblico dello Iowa, gli ho detto che non volevo essere citato come consigliere o come parte della sua squadra perché sono attivamente impegnato in discussioni pubbliche sulla politica estera americana e non voglio dover cominciare a pensare quello che devo o non devo dire perché potrebbe influenzare in un modo o nell'altro la sua campagna.

MJ: Questo la rende troppo controverso per un ruolo nella sua amministrazione?
ZB: Il fatto che abbia avuto dei ruoli in amministrazioni precedenti probabilmente esclude quella possibilità. Un nuovo presidente vuole accanto a sé gente nuova.

MJ: Ma lo prenderebbe in considerazione?
ZB: Inutile prendere in considerazione ciò che è altamente irrealistico.

MJ: Passiamo ad altro, allora. Il prossimo presidente cosa può imparare dagli anni di Bush su quello che deve o non deve fare un leader?
ZB: La lezione principale è che non si deve fare demagogia con gli americani, perché ti si ritorce contro. In secondo luogo, si deve informare ed educare il popolo americano se si vuole ottenere il suo stabile sostegno nella politica estera, e bisogna stare molto attenti a non ingannarlo perché significa poi perdere il suo appoggio. E in terzo luogo bisogna essere preparati a ridefinire il ruolo dell'America, perché l'idea che sia abbastanza potente da dettare legge al mondo è stata screditata negli ultimi otto anni.

MJ: Può farlo, Obama?
ZB: Ha migliori probabilità di qualunque altro candidato. Pensa che Nader ne abbia di migliori?

MJ: Lei ha consigliato McCain in passato. Perché appoggia Obama?
ZB: Perché sento in lui un'istintiva e cerebrale comprensione di cosa sia il mondo oggi, e di come l'America debba ridefinirsi in rapporto a questo mondo così da essere una forza autenticamente costruttiva e da riuscire ad ispirarlo. Può suonare molto ambizioso, ma penso che la scelta sia tra questo o un maggiore isolamento, una sorta di gated community, una comunità recintata globale, mentre il mondo scivola verso condizioni sempre più caotiche.

MJ: Suona in effetti molto ambizioso e anche molto difficile, perché il nuovo presidente dovrà vedersela con il Pentagono.
ZB: Sarà incredibilmente difficile. Richiederà grande sapienza politica e soprattutto la capacità di educare e mobilitare il popolo americano.

MJ: A proposito di sapienza politica, come valuterebbe la diplomazia nell'era di Bush?
ZB: Praticamente inesistente. Voglio dire, guardi il totale fallimento degli sforzi per promuovere la pace tra Israele e i palestinesi.

MJ: E per quanto riguarda le condizioni del nostro esercito all'estero? Abbiamo una grande presenza all'estero: quasi 800 basi in giro per il mondo. Siamo l'unico Paese a farlo. Crede che sia necessario o saggio?
ZB: Potrebbe essere utile per il prossimo presidente passare in rassegna le dimensioni e l'efficacia dei nostri sforzi difensivi. C'è un che di preoccupante in una situazione in cui un solo Paese, che ha circa il 5% della popolazione mondiale, è responsabile di più del 50% della spesa militare mondiale. C'è qualcosa di bizzarro, in questo. Forse ha a che fare con il ruolo che dobbiamo svolgere nel mondo, il fatto che dobbiamo avere una spesa militare molto ma molto grande. Però bisogna semplicemente chiedersi se è davvero necessario che sia così. Mi ha stupito la frequenza e la pervasività di pubblicità pomposamente patriottiche per l'industria della difesa, solitamente accompagnate da deferenti saluti agli uomini e alle donne che stanno sacrificando le loro vite per difenderci. Siamo attualmente la potenza più orientata militarmente. Ma abbiamo davvero bisogno di tutto questo per la nostra sicurezza?

MJ: Per quanto riguarda l'Iraq, abbiamo costruito molte di quelle che possono solo essere definite basi permanenti…
ZB: Basi permanenti possono diventare impermanenti.

MJ: Pensa che il piano sia questo?
ZB: Non è il piano, ma il fatto che costruiamo qualcosa non significa che deve esistere per sempre. Penso che se vinceranno i democratici non dovremo mantenere basi permanenti in Iraq nei modi e nelle dimensioni che Bush sta forse ora progettando. Se firma degli accordi con Maliki lei pensa che il Congresso democratico li avallerà?

MJ: Vedremo.
ZB: Io penso che lo sappiamo.

MJ: Un'ultima domanda sulle nostre basi. Cosa pensa che potrebbe succedere se dovessimo cominciare a eliminare la nostra presenza militare?
ZB: Non eliminerei la nostra presenza militare. Ci sono molti luoghi nel mondo in cui è nel nostro interesse essere presenti e dove siamo i benvenuti. Il problema è: abbiamo bisogno di essere presenti ovunque nelle proporzioni attuali, abbiamo bisogno di spendere nella difesa quello che stiamo spendendo? Soprattutto se guardiamo ad altri aspetti della società americana: la decadenza delle infrastrutture, il sistema ferroviario sempre più obsoleto, i servizi aerei sovraccarichi, e così via. E se aggiungiamo a questo le potenziali conseguenze della malaccorta politica nei confronti dell'Iran, di qui a non molto penseremo ai 4 dollari per gallone di benzina come a un affare. Perché ne staremo pagando 10.


*Michael Mechanic è redattore capo a Mother Jones


Intervista originale pubblicata il 4 settembre 2008.

Traduzione di Manuela Vittorelli