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La crisi, le élites e la ribellione delle masse

di Ernesto Galli Della Loggia - 04/10/2008

Il fenomeno si era già manifestato qualche giorno fa con il voto della Camera dei Rappresentanti contro il piano di salvataggio di 700 miliardi di dollari varato dalla Casa Bianca: una parte significativa di americani era, ed è, più interessata a punire Wall Street che a salvare l'economia. Ce ne dà una conferma il New York Times di ieri informandoci che la crisi in corso sta spaccando il Partito repubblicano, sempre più diviso tra la sua vecchia anima East Coast, moderata, favorevole alle istituzioni federali e alla business community, e la sua nuova anima, invece, conservatrice, ostile a «quelli di Washington» e al mondo della finanza, forte soprattutto negli Stati del Centro e del Sud. L'anima, per l'appunto, che si è fatta prepotentemente viva con il voto di cui dicevo all'inizio. Questo appena citato è però solo un esempio dei mutamenti, dei grandi mutamenti, che il terremoto economico in corso forse preannuncia o già lascia scorgere: non solo negli Stati Uniti ma in tutto l'Occidente e forse neppure qui soltanto. Sia negli Usa che in Europa la crisi sembra funzionare da acceleratrice di fenomeni in incubazione da tempo che nel nuovo clima si solidificano e vengono finalmente alla luce. Il primo di questi fenomeni è la riattualizzazione, lo straordinario rilancio, della duplice categoria Stato-sovranità in rapporto ad una sorta di rinazionalizzazione dell'economia.

La crisi, infatti, è crisi di istituzioni bancario- finanziarie le quali hanno, sì, fitti legami con l'estero, ma che innanzi tutto vedono coinvolte in larghissima misura i bilanci di persone e famiglie che vivono in un unico Paese, in un unico Stato. Il che crea immediatamente un problema politico per chi lo governa: e cioè come rispondere alle difficoltà e alle proteste di quelle persone e quelle famiglie che, tra l'altro, sono anche un elettorato. Insomma la crisi appare economicamente mondiale ma politicamente è quasi esclusivamente nazionale. L'internazionalismo politico sembra sostanzialmente fuori gioco o non avere molto da dire: la prova lampante è data dall'Unione europea che divisa come al solito tra i diversi interessi e tra le diverse strategie statali non riesce a decidere alcuna linea politica comune. E così è dal governo di ogni singolo Stato che tutti si aspettano interventi, piani di salvataggio e di rilancio, nuove regole, e soprattutto erogazione di fondi: dal momento che quando si arriva alle strette sono solo gli Stati che possiedono le risorse economiche, la massa di risorse finanziarie in grado di cercare di rimettere le cose in sesto. E possiedono altresì i mezzi d'imperio necessari e la legittimazione a usarli: due risorse d'incommensurabile valore, in certe circostanze, di cui verosimilmente nessun mercato e nessuna organizzazione internazionale potrà mai disporre in misura analoga.

Questa enfasi nuova che la crisi pone sull'elemento statual-nazionale è del resto in perfetta sintonia con l'importanza sempre maggiore che gli sviluppi più recenti dell'economia tendono ad attribuire a un fattore assai strettamente collegato a quell'elemento: la territorialità. Paradossalmente, infatti, mentre eravamo convinti di essere ormai entrati nel regno della rete, della tecnologia sempre più sofisticata, dell'immateriale, mentre eravamo convinti che la finanza globalizzata era ormai destinata a dominare il mondo, ci siamo accorti d'un tratto che il nostro futuro dovrà invece fare i conti in misura crescente con quelle cose assai poco immateriali che sono l'acqua, i raccolti, il petrolio. Tutte cose che, guarda un po', possono certo essere trasportate da un luogo all'altro della terra ma sono comunque legate in modo assoluto ad uno spazio circoscritto, a un territorio. Cosicché chi si trova a esserne sovrano, possiede certamente parecchie carte in più rispetto a chi non lo è, a chi ha la sfortuna di vivere in un posto senza raccolti, senza petrolio e senza acqua. Vengo alla seconda novità che presagisce però una frattura. Chi dice Territorio, Stato, Governo, inevitabilmente dice Politica, e dunque Leadership. A questo riguardo la crisi economica sembra produrre due fenomeni convergenti. Da un lato la consapevolezza dell'oggettivo bisogno di leadership autorevoli, la richiesta di qualcuno che sappia prendere in mano la situazione. Dall'altro lato un'ondata di discredito per le leadership esistenti, specie economiche, rivelatesi così inadeguate e piene di zone d'ombra.

E insieme qualcosa di ancora più profondo e in certo senso inquietante: un discredito, un'insofferenza, un'immagine di inadeguatezza, un senso di lontananza, che tende a coinvolgere l'intera classe dirigente in un numero crescente di Paesi dell'Occidente. Sembra cioè farsi sempre più strada, in vasti settori della popolazione, la convinzione che prima che le loro azioni siano le stesse idee delle élites sociali finora in auge, il loro modo di sentire e di essere, la loro cultura nell'accezione complessiva del termine, ad aver fatto il proprio tempo e a essere sempre più estranee alle opinioni delle maggioranze. La richiesta di leadership, insomma, alimenta sotterraneamente un ramificato ma possente movimento di delegittimazione delle classi dirigenti e degli assetti politici tradizionali, che si manifesta nelle improvvise «rivolte» elettorali o nelle svolte repentine degli umori collettivi di questi ultimi e ultimissimi tempi, dall'ascesa conservatrice in Austria-Baviera al crollo dei consensi laburisti in Gran Bretagna, alla ribellione dei congressmen americani contro Bush (e forse anche la vittoria della destra in Italia vi ha qualcosa a che fare). Si ha l'impressione che le élites tradizionali, i loro partiti, i loro programmi, ma anche i loro riti, i loro giornali, i loro intellettuali accreditati, i loro format direbbe qualcuno, facciano sempre più fatica a comprendere, e quindi a rappresentare, ciò che non da oggi sta prendendo forma negli strati profondi delle società occidentali e che la crisi economica rinvigorisce, accresce, agita potenzialmente a dismisura. Di fronte a tutto ciò parlare di una «ribellione delle masse» all'ordine del giorno sarebbe francamente esagerato. Ma tenere gli occhi ben aperti di certo non lo è per nulla.