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Il concetto cristiano della redenzione tra riparazione della colpa e divinizzazione dell'uomo

di Francesco Lamendola - 05/10/2008

 

Il concetto di redenzione sta, come è noto, al centro della religione cristiana e del  «mistero» cristiano, e ne è il cuore pulsante. Se l'uomo non fosse stato redento da Gesù Cristo, tutto l'edificio del cristianesimo cadrebbe.

Ma che cos'è, esattamente, la redenzione, in senso teologico?

Bernhard Hartmann, nella sua monumentale Teologia dogmatica (titolo originale: Lehrbuch Der Dogmatik, Freiburg, 1932; traduzione italiana a cura di Natale Bussi, Edizioni Paoline, Alba, 1957, vol. 2, p. 9), così la definisce:

 

Ogni religione è religione di redenzione, poiché si prefigge di liberare l'umanità dal male e dalla sofferenza da esso generata. Ora c'è chi fa derivare il male dal capriccio di spiriti maligni, chi dalla materia, chi da un'occulta disposizione divina, di da un'azione libera colpevole. Abbiamo di conseguenza diverse dottrine della redenzione.. Per gli uni essa consiste nel placare gli spiriti o i demoni malefici (animismo); per altri liberarsi dall'esistenza terrena fondendosi nel gran Tutto (buddhismo, manicheismo, platonismo, monismo); per altri ancora nel sottomettersi all'occulta volontà di Dio con la fiducia che il dramma della sofferenza finirà in bene (Giobbe, Ecclesiaste, Salmi).

Tutta particolare, invece, è la dottrina della Redenzione per Gesù Cristo.  Egli la presenta come liberazione dal peccato, causa prima del male e potenza nemica di Dio. Identica è la dottrina di S. Paolo.

 

E proprio in san Paolo troviamo formulata, con la maggiore chiarezza (oltre che nei Vangeli, ove però è - per così dire - sottesa a tutta la predicazione di Cristo, e non costituisce oggetto di insegnamento diffuso e specifico), la dottrina della redenzione cristiana (nella Epistola agli Efesini, 1, 4-10):

 

Prima della creazione del mondo Dio ci ha scelti per mezzo di Cristo, per renderci santi e senza difetti di fronte a lui.  Nel suo amore Dio aveva deciso di farci diventare suoi figli per mezzo di Cristo Gesù. Così ha deciso, perché così ha voluto nella sua bontà. A Dio dunque sia lode per il dono meraviglioso che egli ci ha fatto per mezzo di Gesù, suo amatissimo Figlio.  Perché Cristo è morto per noi e noi siamo liberati; i nostri peccati son perdonati. Questa è la ricchezza  della grazia di Dio. Egli l'ha data a noi con abbondanza. Ci ha dato la piena sapienza  e la piena intelligenza: ci ha fatto conoscere il segreto progetto della sua volontà: quello che fin da principio generosamente aveva deciso di realizzare per mezzo di Cristo. Così Dio conduce la storia al suo compimento: riunisce tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, sotto un unico capo, Cristo. E anche noi, perché a Cristo siamo uniti, abbiamo avuto la nostra parte: nel suo progetto Dio ha scelto anche noi fin da principio. E Dio realizza tutto ciò che ha stabilito.

 

La redenzione, dunque, rappresenta il compimento della storia; e, allo stesso tempo, essa fa parte di un progetto cosmico, che Dio ha concepito fin da prima della creazione del mondo.

Ciò significa che Egli sapeva che l'uomo, creato libero dal dolore e dalla morte, sarebbe caduto in tentazione e avrebbe peccato; e sapeva che avrebbe avuto bisogno di essere redento per mezzo del suo Figlio: Cristo.

Scrive infatti san Paolo nella Epistola ai Romani (5, 18-19), il documento teologico più importante di tutto il Nuovo Testamento:

 

Dunque uno solo è caduto e ha causato la condanna di tutti gli uomini: Adamo.  Così, uno solo ha ubbidito: Gesù Cristo.  Egli ci ha ristabiliti nella giusta relazione con Dio che è fonte di vita per tutti gli uomini. Per la disubbidienza di uno solo, tutti risultarono peccatori; per l'ubbidienza di uno solo, tutti sono accolti da Dio come suoi.

 

Cristo, pertanto, è parte del progetto cosmico di redenzione, fin da prima della creazione del mondo: venendo nel mondo e affrontando la passione, la morte e la resurrezione, Egli l'ha portato a compimento, portando altresì a compimento la storia.

Questa convinzione spiega perché le primissime comunità cristiane vivessero nell'attesa imminente della parusia, ovvero del ritorno di Cristo sulla terra e della fine del mondo; attesa talvolta convulsa, contro la quale lo stesso san Paolo mette in guardia i fedeli nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, 2, 1-12.

La resurrezione di Cristo segna l'inizio dei tempi nuovi, degli ultimi tempi: essa prepara la vittoria sul peccato e, quindi, sulla morte, rendendo possibile la resurrezione degli uomini e la loro vita eterna in Dio.

Afferma, infatti, san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 12-29), altro testo teologico fondamentale per la dottrina della redenzione:

 

Noi dunque predichiamo che Cristo è resuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? ma se non c'è resurrezione dai morti, neppure Cristo è resuscitato! E se Cristo non è resuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi, finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che Egli ha resuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non resuscitano, Dio non lo ha resuscitato affatto. Infatti, se i morti non resuscitano, allora neppure Cristo è resuscitato. E se Cristo non è resuscitato, la vostra fede è un'illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo che sono morti sono perduti. Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini.

Ma Cristo è veramente resuscitato dai morti, primizia di resurrezione per quelli che sono morti. Infatti per mezzo di un uomo è venuta la morte, e per mezzo di un uomo è venuta la resurrezione. Come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti resusciteranno per la loro unione a Cristo. Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni dominio, autorità e potenza e consegnerà il regno a Dio padre, allora sarà la fine.  Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi.  L'ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti la Bibbia afferma: «Dio gli ha sottomesso ogni cosa».

Quando afferma che ogni cosa gli è stata sottomessa, si intende però che è escluso Dio il quale ha dato a Cristo questa autorità.  Quando poi tutto gli sarà stato sottomesso, allora anche il Figlio sarà sottomesso a chi lo ha fatto Signore di ogni cosa. E così Dio regnerà effettivamente in tutti.

 

Dunque, la dottrina della redenzione,  centro di ogni messaggio religioso, è anche al centro di quello  cristiano; e consiste nella incarnazione, passione, morte e resurrezione di Gesù per la liberazione degli uomini dal peccato e dalle sue conseguenze: il male e la morte.

Ma come deve essere interpretata la dottrina della redenzione: come «riparazione» della colpa mediante il sacrificio di Cristo, o come liberazione dell'uomo e, quindi, come sua gloriosa  compartecipazione alla natura divina?

In realtà, entrambi gli aspetti sono presenti contemporaneamente.

Dal punto di vista storico, però, i Padri della Chiesa d'Occidente - per la concezione legalistica insita nella cultura giuridica romana - hanno sottolineato prevalentemente il primo aspetto; mentre i Padri della Chiesa orientale, più sensibili - per le caratteristiche stesse della mentalità greca ed asiatica - alla dimensione mistica del fatto religioso, hanno posto l'accento sul secondo aspetto.

 

Questa difformità di accento, peraltro non tale da autorizzare a parlare di due diverse concezioni del medesimo concetto, è stata bene messa in evidenza da Giulio Oggioni, autore del saggio Il mistero della nostra salvezza, nel volume a più mani Secoli sul mondo, a cura di Giovanni Rinaldi (Marietti Editore, Torino, 1957, pp. 543-45):

 

Se dovessimo pronunciare una parola sintesi della concezione latina, diremmo la parola «soddisfazione». La mentalità giuridica dei Romani in genere e dei latini in genere, mentalità particolarmente sensibile alla giustizia anche in fatto di offese e di riparazioni, si è subito orientata verso una tale spiegazione della redenzione, arrivando però a formularla in modo chiaro solo nel Medioevo con sant'Anselmo (m. 1109) e con S. Tommaso (m. 1274).

La Sacra Scrittura (…), per spiegare la redenzione operata da Cristo usa i termini di «riscatto» e di «sacrificio». Ciò significa che Cristo ci ha salvarti, pagando con le sue sofferenze  il debito nostro alla divina giustizia: ma che cosa vuol dire questo se non che il Redentore ha «soddisfatto» (da satis-facere, rendere a sufficienza) il nostro debito? In questo senso la soddisfazione è un modo di esprimere il dogma della redenzione così essenziale, che nessun cattolico può respingerlo.

Ma c'è modo e modo di determinare la natura del compenso soddisfattorio: esso deve intendersi prevalentemente come un atto di amore che supera e ripaga l'odio e l'offesa del peccato, o solo come un'accettazione passiva delle pene meritate? Nel primo caso abbiamo la soddisfazione intesa come «riparazione morale» (…); nel secondo abbiamo la soddisfazione intesa come «espiazione penale». (…)

La soddisfazione deve accettare anche il concetto di espiazione penale, ma essa consiste essenzialmente nell'atto di amore di Cristo che muore per noi, col fine di realizzare il piano divino dettato anch'esso da un infinito amore per l'uomo: Dio perdona il peccato non tanto perché è stato «pagato» il debito di pena fino all'ultimo, quanto perché Cristo, primogenito di molti fratelli, ha molto amato, in tutte le sue azioni, e più ancora nella sua passione e morte: infatti nessuno ama come chi dà la sua vita per gli altri.

La soddisfazione intesa come «riparazione morale» rappresenta l'espressione migliore della cosiddetta concezione latina ed è quella che raccoglie in misura sempre maggiore l'adesione dei teologi. Ma anch'essa deve forse completarsi con quanto proviene dalla concezione greco-orientale.

La nostra redenzione è il passaggio dallo stato di inimicizia con Dio a quello di amicizia con lui, e di partecipazione alla sua natura divina. I latini sono stati più sensibili alla grandezza del dono divino, in quanto importa il pagamento del debito che il peccato ci aveva fatto contrarre con Dio; invece i greci e gli orientali, più aperti alla contemplazione e alla mistica, sono stati più sensibili al dono della amicizia divina: i primi hanno visto la redenzione come soddisfazione, gli altri come divinizzazione. E come i latini per spiegare la loro dottrina si appellavano ai testi scritturistici relativi al sacrificio e al riscatto di Cristo, così i greci ricorrono a tutti i testi relativi alla grazia divina che noi abbiamo «in Gesù Cristo».

Nel Vecchio testamento la dottrina della divinizzazione è presente solo nel tema dell'alleanza tra Dio e Israele, tema però che progredisce sempre più: dai primi rapporti realizzati con Abramo, si passa a quelli piuttosto giuridici dell'epoca di Mosé, per arrivare a quelli sponsali del Cantico dei Cantici.

Si tratta però ancora di semplici germi che si sviluppano nel Nuovo Testamento. Già nei vangeli sinottici è contenuta l'idea di una particolare paternità divina nei riguardi degli uomini. Con San Paolo le dichiarazioni che noi siamo figli di Dio, fratelli di Cristo, membra del suo corpo, eredi del cielo, templi dello Spirito Santo sono frequentissime. E San Giovanni presenta il Logos come sorgente di luce e di grazia per tutti gli uomini. Al termine della rivelazione scritturistica, quindi, la dottrina della divinizzazione non è ancora espressa con questo termine, ma è presentata in tutta la sua sostanza.

L'introduzione del termine spetta ai Padri greci. Ireneo (m. circa 200) chiaramente la suggerisce, quando afferma che il Verbo è «diventato ciò che noi siamo  perché noi diventassimo ciò che Egli è», ed Atanasio riprendendo questo pensiero dirà espressamente  che il Verbo «è diventato uomo per divinizzarci in lui». (…)

Riprendendo oggi, dopo parecchi secoli di silenzio, la dottrina greca della divinizzazione, i teologi sono ormai d'accordo di nel cercare in essa una spiegazione ricca e adeguata del soprannaturale; non altrettanto consenzienti sono invece nel cercare in essa elementi positivi per spiegare la redenzione. Il motivo di questa incertezza è chiaro: se la redenzione è divinizzazione, è facile la tentazione di dedurre che essa si è completamente realizzata quando Dio si è fatto uomo, per fare l'uomo Dio. Invece la rivelazione e il magistero infallibile sono chiarissimi nel mettere in rapporto la redenzione con la passione e la morte di Cristo; tant'è vero che è istintivo per noi collegare il pensiero della redenzione con quello della croce.

 

Ci sia concesso di osservare, circa quest'ultima affermazione, che se ai cristiani viene istintivo di collegare il pensiero della redenzione con quello della croce, ciò si deve in buona misura al fatto che su tale aspetto han particolarmente battuto l'insegnamento tradizionale della Chiesa; il che, oggi, non è più universalmente accettato.

Ricordiamo un sacerdote il quale, nel corso dell'omelia domenicale ai fedeli, disse che, se fosse dipeso da lui, avrebbe fatto sparire tutti i crocifissi e li avrebbe sostituiti con altrettante immagini del Risorto, a sottolineare il fatto che il Dio dei cristiani è Dio della vita e non della morte.

Ma, al di là di questo aspetto, sul quale si discute e probabilmente si continuerà a discutere a lungo, rimane il fatto che la redenzione cristiana è conseguenza sia dell'incarnazione di Cristo, ove al Dio che si fa uomo corrisponde l'uomo che, redento, si riunisce a Dio, e pertanto si divinizza; sia della sua passione, ove il Verbo accetta la morte di croce per riscattare gli uomini dalla schiavitù del peccato e dalla sua conseguenza più grave: la morte.

Entrambi gli aspetto sono indispensabili per intendere rettamente il concetto della redenzione; e, in questo senso, ci sembra che l'accento sulla soddisfazione posto dalla Chiesa latina, e quello sulla divinizzazione posto da quella greco-orientale, possano e debbano integrarsi e arricchirsi vicendevolmente.

Una cosa è certa: una concezione eccessivamente legalistica del concetto di «soddisfazione», se poteva apparire adeguata alla mentalità giuridica dei Romani (e, del resto, derivava a sua volta da un certo legalismo presente anche nell'Antico Testamento, soprattutto nel Pentateuco), non appare più accettabile ala luce della riflessione teologica dell'Amore divino come fatto centrale della stessa predicazione di Gesù Cristo.

Più giusto, quindi, sembra pensare il fatto della redenzione in chiave di un ristabilimento del legame amorevole tra Dio e gli uomini, incrinato, ma non rescisso dal peccato originale; ossia come il ritorno della creazione verso la pienezza del piano originario, voluto per essa da Dio.

Solo così si può vedere chiaramente l'evento della redenzione non soltanto in termini storici, ma cosmici: ossia non solo come l'incarnazione, passione, morte e resurrezione di Cristo, ma anche come compimento della storia e come ritorno a Dio di tutte le cose, che a causa della disobbedienza originaria se ne erano allontanate.

In termini filosofici, potremmo tradurre il concetto di redenzione con quello di reintegro degli enti nell'Essere, dal quale si sono originati, manifestandosi sul piano del finito, ma al quale aspirano a ritornare come alla fonte e al sostegno ontologico del loro esistere.