Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Pakistan: Zardari mette in saldo la vallata del Kashimr?

Pakistan: Zardari mette in saldo la vallata del Kashimr?

di Eugenio Roscini Vitali - 17/10/2008

-

Che il neo eletto presidente pakistano Asif Zardari sia partito con il piede sbagliato lo dimostrano le violente proteste che stanno infiammando i distretti del Jammu-Kashimr, il più settentrionale degli stati dell'India, quello che, pur ricadendo sotto l’amministrazione di Nuova Delhi, rimane storicamente legato all’Islam. In una intervista al Wall Street Journal, Zardari ha recentemente definito i militanti musulmani che combattono per l’autonomia della regione come dei veri e propri terroristi. Affermazione ritenuta oltraggiosa sia dai leader separatisti sia da quella parte dell’opinione pubblica pakistana che, per motivi etnico-religiosi, considera il Kashmir una parte integrante della Repubblica Islamica del Pakistan. Alla frase di Zardari, che segna una rottura radicale con il passato, gli abitanti della Vallata hanno risposto sfidando il coprifuoco imposto dalle forze di sicurezza indiane; più di quattrocento manifestanti hanno invaso le strade di Baramullah, città a pochi chilometri della linea di demarcazione che divide l’amministrazione in territorio indiano e pakistano ed hanno dato vita ad una straordinaria forma di protesta, inneggiando slogan e bruciando le effige del neo presidente pakistano, primo caso nella storia della contesa regione sub continentale che ha sempre goduto dell’appoggio politico di Islamabad.

Per cercare di rimediare a quello che per molti sembra essere un tradimento, l’alto commissario pakistano, Wajid Shamsul Hasan, ha subito confermato che il Pakistan continuerà a sostenere la causa musulmana in Kashmir; un disperato tentativo per liquidare una situazione spinosa che non ha evitato le reazioni del mondo politico e culturale. La critica più dura è arrivata dal Jammu-Kashmir, e più precisamente dai vertici del partito islamico Jamaat-e-Islami. I leader kashmiri sono certi che l’aggettivo “terroristi” non è stato usato a caso; piuttosto, come denuncia Syed Ali Shah Geelani, uno dei massimi esponenti del partito, le affermazioni del presidente non sono altro che un modo per compiacere gli Stati Uniti. Nel confermare il suo pieno sostegno ai combattenti della Vallata, Geelani, leader e fondatore del movimento Tehreek-e-Hurriyat, precisa che Zardari sarebbe capace di fare qualsiasi cosa pur di evitare lo scontro con l’India, anche se questo comportamento mettesse in gioco la dignità del suo stesso paese. Piuttosto che parlare di terroristi kashmiri, per Geelani è determinante il fatto che le truppe di Nuova Delhi, frequentemente accusate di violazione dei diritti umani, continuano ad occupare una regione storicamente musulmana: “In realtà, è il popolo del Kashmir ad essere vittima del terrorismo”.

Secondo il ministro dell’Informazione, Sherry Rehman, la politica del governo pakistano non è invece assolutamente mutata. In un’intervista alla BBC, la signora Rehman ha affermato che sono più di quarant’anni che il Kashmir è al centro del programma politico del Partito popolare: “Da parte nostra non c’è alcun cambiamento. Il presidente non ha mai paragonato le legittime aspettative dei kashmiri ad una forma di terrorismo, tanto meno ne sottovaluta le sofferenze”. Nonostante il maldestro tentativo di ridurre un una protesta ad una mera forma di estremismo, ad Islamabad c’è chi ancora crede che un giorno la regione entrerà a far parte del Pakistan e chi ancora definisce l’India una vera e propria minaccia: i vertici militari la considerano una nazione ostile che potrebbe minare l’esistenza stessa della Repubblica Islamica, motivo per il quale per quasi mezzo secolo hanno apertamente aiutato e sostenuto i militanti musulmani.

Il Jammu-Kashmir è ormai diventato un groviglio quasi insolubile di problemi etnici e religiosi, un posto dove la vendetta e le minacce sono cose all’ordine del giorno, così come avviene in Tibet, in Iraq, in Afghanistan e in decine di altre regioni nel mondo. Per molti occidentali quella che combatte l’India è una guerra contro il fondamentalismo e il terrorismo, per i musulmani è il simbolo dell’umiliazione e dell’oppressione contro i fratelli del Kashmir: dall’inizio della rivolta separatista (1989) si contano 75 mila morti, più di 80 mila feriti, 37 mila disabili,16 mila casi di rapimento, 6 mila stupri, 96 mila persone scomparse nel nulla, casi agghiaccianti che parlano di 492 adulti bruciati vivi o di 875 bambini morti nel rodo della loro scuola, incendiata durante uno scontro tra guerriglieri ed esercito indiano.

Per il controllo della Vallata che domina l’accesso alle catene del Karakorum e dell'Himalaya, India e Pakistan hanno fatto di questa regione un’occasione di guerre unica nella storia. Quattro i conflitti: nel 1947, quando i due paesi nati dalla dissoluzione dell'Impero britannico si affrontano per il controllo del distretto di Srinagar, dei territori del nord e delle regioni del Ladakh e del Jammu; nel 1965, quando il conflitto lascia sostanzialmente immutata la linea di confine; nel 1971, quando lo scontro diventa lo strascico della guerra per il Bangladesh; nel 1999, con una guerra non dichiarata che ha luogo nel distretto di Kargil. Una quinta sarebbe potuta esplodere subito dopo la strana storia dell’assalto al Parlamento di Nuova Delhi, avvenuto il 13 dicembre 2001 ad opera di un gruppo di terroristi che le autorità indiane hanno identificato come appartenenti al Lashkar-e-Taiba, una delle più temibili organizzazioni fondamentaliste pakistane.

Che il neo eletto presidente pakistano, d’accordo con gli Stati Uniti, abbia deciso di combattere il terrorismo è un fatto ormai conclamato: giusto se riferito agli innumerevoli attentati che colpiscono la popolazione civile; sbagliato se riferito ai movimenti autonomisti che combattono le forze di occupazione indiane. Quello che lascia perplessi è infatti il fatto che Zardari associa al termine terrorista la figura del militante separatista, mettendo sullo stesso piano i movimenti autoctoni della Vallata, quali l’indipendentista Fronte di Liberazione del Jammu-Kashmir e il filo-pakistano Jamaat Islami, con le organizzazioni terroristiche pan-islamiche che operano su un fronte ben più vasto e puntano alla creazione di un Califfato islamico nell’Asia meridionale, un progetto che oltre all’Afghanistan e al Pakistan comprenda il Kashmir e le regioni indiane dell’ Hyderabad, del Junagadh e del Manadar. Una rete capillare che comprende gruppi quali Jaish-e-Mohammad, Markaz Ud Dawa, Harakat ul-Mujahedeen e Lashkar-e-Taiba; organizzazioni che combattono una jihad volta a colpire la collettività hindu non solo in India ma anche nelle province pakistane dove l’influenza sui musulmani è maggiore: il Sindh e il Balochistan.

Se quanto detto dal ministro dell’Informazione fosse vero, e cioè se Zardari non avesse fatto di tutta l’erba un fascio, perché parlare di rottura con il passato? Durante l’intervista rilasciata al Wall Street Journal, Zardari ha praticamente smentito la storia. Il presidente ha dichiarato che l’India non è mai stata una minaccia per il suo paese e non lo è neanche per il governo da lui presieduto; al contrario, con un comportamento che ricorda più l’imprenditore che l’uomo politico, Zardari promuove lo sviluppo di un’intensa fase di scambi e relazioni commerciali con l’estero, in particolar modo l’India e con i paesi confinanti. In un certo senso un’apertura che continua un percorso iniziato e poi interrotto dall’ex presidente Pervez Musharraf, voluta dagli Stati Uniti ma contrastata da quella parte dell’establishment politico-militare che di India non ne vuol sentir parlare, soprattutto se l’argomento in questione è il Jammu-Kashmir, una regione frustrata dalla repressione e dalla violenza, traumatizzata dalla sofferenza e spaventata dalla possibilità di rimanere sola.