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Ma il mercato vince ancora. I governi "air-bag" del ciclo economico capitalistico

di Massimo Riva - 17/10/2008

Chi guardi agli interventi governativi sulla crisi finanziaria inun`ottica strettamente nazionale rischia di scivolare in qualche errore di prospettiva.

Troppo fresco è in Italia il ricordo di quali guasti di basso clientelismo abbia provocato l`intervento della mano pubblica negli affari bancari (ed economici in genere).

E questo si giustifica un forte allarme soltanto all`idea che lo Stato possa ridiventare azionista di qualche istituto di credito.

In effetti, in casa nostra nulla oggi è più temibile di un ritorno alle pratiche dell`ultimo dopoguerra, quando la nomina degli amministratori di tante, troppe banche pubbliche era frutto di estenuanti trattative fra partiti di governo in un tripudio lottizzatorio della peggior specie. Ci mancherebbe soltanto, nella tragedia che stiamo vivendo, assistere a un ritorno del primato della politica declinato nei suoi aspetti deteriori. Minaccia resa, purtroppo, più temibile dal malcelato entusiasmo con il quale il premier Berlusconi ha dichiarato ieri aperta una nuova stagione di aiuti pubblici non solo alle banche ma anche alle industrie. La storia patria, del resto, insegna quanto in Italia possa essere fulminea la conversione al dirigismo economico da parte dei più accesi liberisti quando si offra loro l`occasione per allungare le mani su qualche cassaforte.

Se, tuttavia, si alzalo sguardo oltre i confini nazionali, allungandolo a ciò che sta accadendo nel mondo intero - dagli Stati Uniti all`Europa passando per l`Asia- ci sono forse buone ragioni per mettere in dubbio l`assunto oggi prevalente secondo cui la principale novità di questa crisi consisterebbe nella grande e conclamata rivincita che lo Stato staprendendosi sul mercato ovvero che il potere politico starebbe ottenendo su quello economico.

Certo è uno spettacolo che non si vedeva da quasi ottant`anni quello di supponenti banchieri di Wall Street o della City presentarsi con il cappello in mano sull`uscio della Casa Bianca ovvero delnumero 12 di Downing Street, pietendo l`elemosina di un umiliante salvataggio se non di se stessi almeno del loro istituto. Ma questo può bastare a farci ritenere che davvero lo Stato stia oggi imponendo il suo controllo sul mercato capitalistico? Che questo sia un timore diffuso fra i"billionaires" dell`Upper East Side di Manhattan o fra gli idraulici del- l`America provinciale, dove ogni presenza statale è considerata un insulto alla libertà dell`individuo, è un dato sociologico di fatto. Ma neppure fra gli esponenti di quella che viene chiamata la pancia profonda degli Stati Uniti vi è qualcuno disposto a considerare George W. Bush quel «bolscevico della Casa Bianca», come a suo tempo negli stessi ambienti si diceva del presidente Franklin D. Roosevelt. E questo è giàunprimopunto che dovrebbe far riflettere: come si spiega che un`amministrazione americana, schierata aldilà di ogni dubbio dalla parte del liberismo economico, si sia piegata ad adottare "ways and means" che, per storia e per cultura, dovrebbero appartenere allo schieramento opposto? La risposta più semplice che è stata data a questa (apparente) contraddizione è lo stato di necessità. Mercato se possibile, Stato se necessario:

lo dice anche la destra italiana per bocca di Giulio Tremonti. E questo è un altro punto cruciale: chi determina lo stato di necessità, chi ne stabilisce le porte d`ingresso e di uscita, chi insomma ha il potere di definire le tappe del percorso da compiere per arginare i danni e ritornare dal caos all`ordine? Lo Statosembrerebbelarisposta più logica nel nome di quel primato della politica su cui si fonda l`idea stessa di governo democratico.

Questo, però, non è il film che abbiamo visto in queste settimane e che ancora scorre sotto i nostri occhi.

Chi voglia guardare con freddezzale scelte compiute dai governi dell`Unione europea e dall`amministrazione Usa - aldilà delle differenze tecniche dei provvedimenti- dovrà consentire che i pur diversi poteri politici nazionali o sovranazionali si sono mossi inuna evidente condizione di sovranità limitata. Ovvero non hanno potuto decidere in piena autonomia secondo unamaturata visione del bene da farsi o del male da evitare, ma hanno dovuto muoversi commisurando le loro scelte, passo dopo passo, essenzialmente sulle reazioni dei mercati. Sono stati questi ultimi a dettare l`agenda della politica e non solo, com`è ovvio, per il fatto stesso di essere all`origine della crisi. Il dato decisivo è che i mercati, pur essendo nel mezzo di difficoltà fra le più acute di sempre, hanno imposto con Ieloro reazioni tempi e modi degli interventi: tanto dei governi quanto di pubbliche istituzioni quali banche centrali e autorità varie di controllo.

Quella cui si è assistito in queste settimane è stata, in realtà, un`affannosa e vana corsa ad inseguimento fra potere politico e poteri finanziari, nella quale il giudizio dei secondi ha prevalso sulle scelte dei governi condizionandole e piegandole alle proprie esigenze. E questa corsa sta tuttora continuando sul filo dell`altalena delle Borse che, di giorno in giorno, promuovono o bocciano questa o quella iniziativa del potere politico, spingendo sempre più avanti l`esosità delle richieste atte a soddisfare il loro appetito: sempre più soldi, sempre più ciambelle di salvataggio, perfino sempre meno regole cogenti come s`è visto coni` abbandono dei criteri prudenziali nella valutazione degli attivi patrimoniali.

Anche in tema di tassi d`interesse, siamo franchi: il taglio è stata una scelta autonoma delle banche centrali o piuttosto la resa auna precisa urgenza espressa dal mercato? Fa un po` sorridere che, in simile scenario, ci sia qualche buontempone che torna a riproporre la favola della fine del capitalismo.

Chi abbia studiato un po` meglio Karl Marx ha piuttosto ottimimotivi per considerare le vicende in atto come uno dei maggiori trionfi delpotere del capitale, nella sua dimensione più inafferrabile, quella finanziaria. Con una differenza in peggio anche per quanto riguarda i rapporti con il sistema politico. Altro che i comitati d`affari della borghesia della visione ottocentesca, oggi i governi nazionali sembrano al momento ridotti al ben meno dignitoso ruolo di "air-bag" del ciclo economico capitalistico. Aennesima riprova che, come dice Giorgio Ruffolo, il capitalismo ha proprio i secoli contati. Dunque, più aperto che mai risulta il problema di domarne quelle violente pulsioni distruttive che sembrano connaturate alla sua capacità di creare ricchezza.

Nel secolo scorso ci riuscì il già richiamato Roosevelt. Oggi né in Occidente né in Oriente è dato scorgere una leadership politica all`altezza di simile compito. Mentre in Italia quel che si rischia di vedere è soltanto un ritorno all`atavico vizio della manomortapolitica sull`economia.