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Ottobre 1918: la battaglia di Vittorio Veneto e il comun sentire popolare

di Antonio Airò - 17/10/2008

 
  


Il passaggio delle truppe italiane sul Piave, il 24 ottobre 1918 (Fototeca Gilardi) 

 « C
on Caporetto cambia tutto. La dura sconfitta obbliga l’intero Paese a dare una motivazione diversa alla guerra.
  Nelle regioni italiane, e non solo in quelle alle spalle del fronte, trovarono rifugio 600.000 profughi costretti ad abbandonare le loro case del Friuli, del Veneto con tutte le loro povere cose. Molti di questi profughi arrivarono fino alla Sicilia, alla Sardegna. Tutte le operaie delle fabbriche – con i soldati nelle trincee, l’occupazione femminile era aumentata notevolmente – vennero militarizzate. Bisognava fare argine contro gli invasori, altrimenti l’Austria avrebbe dilagato e l’Italia si sarebbe
trovata in una crisi irreversibile per un Paese come il nostro che, anche con la guerra, non era del tutto amalgamato, coeso. Non si dimentichi che noi eravamo entrati nel conflitto con un Nord segnato dalla rivoluzione industriale ma con una parte cospicua del Mezzogiorno contadino ancora distante da una comune identità nazionale e che aveva sofferto in quegli anni l’emigrazione verso l’estero di un milione e mezzo di persone. Ma la situazione, dopo Caporetto, era cambiata pure per l’Austria­Ungheria, anch’essa in grandissima crisi politica per le crescenti e conflittuali pulsioni delle varie nazionalità che costituivano l’Impero e che non si riusciva più a tenere insieme.
  L’Italia e l’Austria erano dunque chiamate a combattere una prova di forza decisiva. Nessuno dei due contendenti poteva perderla. Per questo la guerra cambiava il suo scopo». Lo storico Alberto Monticone ripercorre quell’anno drammatico che dalla rotta di Caporetto, nell’ottobre del 1917, caratterizzato fino ad allora da una sanguinosa guerra di trincea, arriva all’armistizio di Vittorio Veneto il 4 novembre 1918. In
questi drammatici mesi si riversano tutte le diverse fasi di una guerra, che doveva essere breve e che invece assumeva le dimensioni di una tragedia per un intero popolo, chiamato a pagare un prezzo elevatissimo: la mobilitazione di cinque milioni di militari, seicentomila morti, un milione di feriti e invalidi. Con in più l’onta di Caporetto e il seguito di polemiche, commissioni d’inchiesta, interpretazioni, memoriali subito scoppiate sul comportamento di Cadorna.
  «Per la verità – afferma Monticone – con Caporetto si registrarono segnali di cedimento delle nostre truppe. Anche con abbandono delle armi, diserzioni, momenti di rivolta, non certo minori di quelli registrati nel 1917 in Francia, che era entrata in guerra un anno prima di noi. E non mancarono in Italia tensioni e crescenti preoccupazioni. Ma, come ho appena accennato, nel Paese si
registra un grande cambiamento».
 Vuole specificare meglio il percorso di questi mesi del 1918 che moltissimi italiani vissero come una pesante minaccia sul loro territorio?

 «Anche se in Italia non vengono meno quegli elementi di insofferenza e di contrapposizione per il modo con il quale si era decisa l’entrata in guerra – con il Parlamento messo dal governo di fronte al fatto compiuto – il nostro Paese avverte, come non mai, di vivere in una situazione di fortissima emergenza. Questo spiega la resistenza, il coraggio e il sacrificio delle nostre truppe che a giugno, vincendo sul Piave la battaglia del solstizio, pur avendo subito perdite elevatissime, perché l’esercito austriaco si batté con altrettanto impegno e vigore, pone le premesse che avrebbero portato i nostri soldati a Trento e Trieste. L’enorme numero di profughi e anche di
prigionieri porta, però, a realizzare un’Italia nella quale si costruisce una sorta di solidarietà che non affonda le proprie radici nel nazionalismo, ma che nasce innanzitutto nella sofferenza comune della gente. Quella del 4 novembre non è stata una vittoria della resistenza armata quanto piuttosto – e non è un bisticcio di parole – si può definire una vittoria ottenuta 'per la resistenza' di tutto un popolo, uomini e donne, militari, contadini, operai, sacerdoti – ventimila i cappellani, i religiosi chiamati alle armi o militarizzati – professionisti, intellettuali».
 A novant’anni dalla conclusione della guerra, la vittoria del nostro Paese si può ritenere 'mutilata' come si sostenne quasi subito dopo la sua conclusione nel difficile e
tormentato dopoguerra che condusse anche al fascismo?
 «Come è noto, l’espressione 'vittoria mutilata' fu coniata da Gabriele D’Annunzio con un articolo sul
Corriere della sera, il 24 ottobre 1917, mentre iniziava l’offensiva austriaca, ed esprimeva un progetto di potenza per il nostro Paese, che non avrebbe trovato sostegno nei nostri alleati. Venendo alla nostra situazione, resta il fatto che l’Italia, uscita vittoriosa dalla guerra, aveva guadagnato con il suo comportamento un credito presso le altre nazioni alleate che purtroppo nelle vicende successive non ci fu riconosciuto. In una circolare del 14 novembre 1917, il duca d’Aosta, comandante della terza Armata, mentre i nostri soldati iniziavano la loro resistenza sul fronte al Piave, si compiaceva del sacrificio compiuto dai militari e dava assicurazioni che, a guerra conclusa, ci sarebbero stati riconoscimenti e sostegni per il mondo contadino, un nuovo diffuso sistema di welfare, se possiamo usare questo termine, per i lavoratori. Ma questo debito complessivo non venne pagato».
 (2, continua)

 «Dopo Caporetto, la mobilitazione della popolazione diede vita a una rete di solidarietà che non nasceva dal nazionalismo, ma dalla sofferenza comune». Il ruolo dei parroci e dei cappellani




Alberto Monticone