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Fino a che punto un Maestro può spingersi per conformare a sé la personalità del discepolo?

di Francesco Lamendola - 20/10/2008

Chiunque conosca, anche solo superficialmente, la vita di Cesare Pavese, sa quale profondo influsso abbia esercitato su di lui il suo professore di italiano e latino al liceo «Massimo D'Azeglio» di  Torino; su di lui così come, del resto, su tutti i suoi allievi: Augusto Monti.

Monti era un uomo duro e intransigente; ma franco, leale sino alla brutalità; e orgoglioso della sua indipendenza intellettuale (era un noto antifascista). I suoi allievi lo temevano ma, al tempo stesso, lo idolatravano: si dice che nemmeno la febbre alta riuscisse a tenerli a casa, quando c'erano le sue memorabili lezioni.Leggeva i classici con rara passione e con commovente capacità d'immedesimazione: in classe, in quei momenti, non si sentiva nemmeno il respiro dei ragazzi. Anche perché, se qualcuno si concedeva la minima distrazione, il terribile professore si fermava accigliato, picchiettando con le dita sulla cattedra: a quel segnale di tempesta imminente, non c'era più nessuno che osasse fiatare.  E la lettura riprendeva, portando in estasi tutti quanti.Monti non era solo un insegnante, ma un autentico educatore: dell'educatore aveva la passione divorante, esclusiva. Per lui, il liceo doveva essere una scuola di vita: nessuna inadempienza era da lui tollerata, nessuna scusa era accettata. Ciascuno doveva assumersi le proprie responsabilità. Quando interrogava, era incontentabile; ma non aveva alcuna indulgenza nemmeno per quei poveretti che, non sapendo più a quale santo votarsi, imparavano la lezione a memoria: per lui, lo studio non poteva essere che un fatto critico e personale.Quello che, però, non tutti sanno, anche fra coloro che conoscono abbastanza bene la figura e l'opera di Cesare Pavese, è che Augusto Monti rimase in contatto con il suo celebre ex allievo sino alla fine della vita di questi; e che fece di tutto per indirizzare il suo talento letterario in direzione delle proprie idee politiche (di sinistra) e dei propri convincimenti estetici (impegnati, antidannunziani e nel solco del realismo). Ad ogni libro di Pavese che veniva dato alle stampe - e che, in genere, lo scrittore inviava in dono al suo maestro d'un tempo - seguivano lettere su lettere di rimbrotti taglienti, di critiche sferzanti, il cui comune denominatore era l'insufficienza di impegno politico-sociale dell'autore, la sua tendenza a rifugiarsi nei paradisi regressivi dell'infanzia. Basti dire che fin dal primo libro di Pavese - la raccolta di poesie Lavorare stanca -, questi si sentì in dovere di apporvi una dedica che era anche una richiesta di scuse per essere venuto così poco incontro alle aspettative del maestro, e la promessa di «fare meglio» al secondo tentativo. Stringe il cuore pensare che un così grande scrittore, e dotato di un animo così sensibile, si sia sentito in dovere di giustificarsi e di umiliarsi così davanti al terribile giudice. E vengono alla mente le parole accorate e quasi imploranti del giovane Franz Kafka in quella sua famosa Lettera al padre  (psicanalisti, sbizzarritevi, con il vostro complesso di castrazione, col complesso di Edipo e tutto il resto), che ancora ha il potere di toccarci profondamente.Pochi mesi prima del suicidio, poi - al principio del 1950 - Monti scrisse ancora due lettere di duro rimprovero a Pavese, accusandolo, fra l'altro, di dannunzianesimo, superomismo e odio verso gli uomini, le quali dimostrano ad abundantiam (a parte ogni altra considerazione di tipo psicologico e umano) che Dio aveva negato al professor Monti il dono di una equa e spassionata critica letteraria, facendogli apparire come orribili manifestazioni di decadentismo conservatore e di narcisismo piccolo borghese degli scritti, come Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, che avevano il torto di esprimere una visione umana e storica della realtà, infinitamente più ricca e consapevole, più sfaccettata e ponderata, di quanto lui - aduso a tagliare la realtà in due, con la spada, per separare il vero dal falso - non riuscisse a concepire.Difficile formulare una diversa valutazione sul giudice implacabile che, trovandosi fra le mani un libro come La casa in collina - in cui, fra l'atro, si trova la pagina forse più alta di accorata meditazione sull'atrocità della guerra civile - non si rese conto che Pavese non aveva bisogno di essere più impegnato, perché impegnato lo era già al massimo grado: avendo messo la sua vocazione di scrittore al servizio di un impegno molto più grande di quello nei confronti di questa o quella ideologia, cioè al servizio dell'umanità in quanto tale.Né bisogna meravigliarsi troppo del fatto che un uomo come il Monti non fosse in grado di capire una verità così ovvia: quasi nessuno c'è arrivato, nell'ambito della critica letteraria dominante negli anni dell'immediato dopoguerra - che era, guarda caso, quella d'ispirazione marxista, tutta gonfia di sacro zelo verso i dettami del cosiddetto realismo socialista: al punto da scambiare per grandi artisti pittori come Guttuso e scrittori come Moravia, solo perché avevano aderito a quella parte politica e si sforzavano di rappresentare nel modo più beffardo possibile tutto ciò che ad essa faceva opposizione, in termini di immondo decadentismo borghese.Un caso emblematico illustra pienamente l'atmosfera imposta, in quegli anni, dall'egemonia della cultura marxista: le grida di scandalo levate da Franco Fortini allorché apparve Mondo magico di Ernesto De Martino, il primo tentativo di avvicinarsi al mondo magico e mitico della cultura contadina senza la puzza sotto il naso, che uno studioso italiano avesse mai compiuto. Apriti cielo! Per Fortini, si trattava né più né meno che di una pericolosa rivalutazione di quegli elementi culturali pre-scientifici, arcaici, superstiziosi, che di tanto ritardavano l'avvento delle magnifiche sorti e progressive della scientificità e del marxismo, dato che, da sempre, essi avevano sostenuto l'iniquo ordine sociale semi-feudale delle campagne italiane. E si pensi che quella era una polemica tutta interna al pianeta marxista, perché De Martino aveva adottato le categorie ed il metodo marxista per studiare il «mondo magico» delle campagne; però non aveva trattato quelle forme culturali come spazzatura, anzi, aveva mostrato verso di esse comprensione e simpatia umana: e tanto era bastato per scatenare le proteste dei «duri e puri» del Partito. Figurarsi cosa sarebbe capitato se un libro come Mondo magico fosse stato scritto da uno studioso non-marxista, ad esempio da un liberale, o da un cattolico!Pavese - che, a dispetto di quello che va dicendo la Vulgata ancor oggi dominante, era un coraggioso - prese immediatamente posizione in difesa di De Martino (ed erano i suoi ultimi giorni di vita!), del resto con perfetta coerenza, avendo sempre rivolto il suo principale interesse proprio verso quel mondo «magico» e ancestrale della società pre-industriale - che era, per lui, quello delle colline, delle Langhe, e, in particolare, del paese d'infanzia: Santo Stefano Belbo. Tuttavia, egli avrebbe potuto defilarsi, tacere. Chissà in quanti lo avranno fatto, in quei giorni, pur solidarizzando, in cuor loro, con le tesi di De Martino; o, quanto meno, riconoscendo la liceità del suo oggetto di studio. Invece no, Pavese volle schierarsi apertamente: e poi ci vengono a dire che la sua personalità lo rendeva costituzionalmente incapace di esporsi, di rischiare.Resta il fatto che tutto il percorso letterario ed umano di Cesare Pavese è segnato dalla tensione insanabile, dalla lacerazione sofferta tra un ideale di vita «impegnata», militante, sentito come moralmente doveroso, e una invincibile attrazione per il ricordo, l'infanzia, la campagna, il mito, sentita come irrinunciabile ma, al tempo stesso, vissuta con un sentimento di colpa, quasi come una diserzione dai doveri dell'altro ideale, quello attivo e rivolto al futuro; e che, da quel conflitto, egli uscì spezzato, fino a decidersi per il gesto estremo del suicidio lucido e consapevole. Scrive Davide Lajolo nella sua nota biografia Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese (Il Saggiatore, Milano, 1960, 1977, pp. 347-351): All'inizio del '50 ecco ritornare Augusto Monti attraverso due lettere che forniscono un esempio di come discussione e polemica siano continuate costanti dagli anni del liceo tra maestro e allievo.  Non abbiamo più potuto seguire, dal tempo clandestino, gli incontri e gli scontri intercorsi tra il professore  di italiano e latino e l'allievo che si arrotolava tra le dita la ciocca di capelli, nel primo banco del D'Azeglio, ma l'ininterrotto dialogo fu la consuetudine che riconduceva Pavese alla realtà di un insegnamento severo e duro che non ammetteva concessioni o divagazioni., Monti, uomo tutto d'un pezzo, fedele alla sua adamantina dirittura morale, sincero fino al rischio di alienarsi simpatia ed affetto, ha continuato a tallonare con cosciente sollecitudine, passo passo l'ex allievo per tutta la vita.Quando pavese si tuffa nei ritorni a S. Stefano come paese dell'infanzia, spinto dall'illusione di ritrovare quello che gli uomini e la vita hanno ormai distrutto o rinnovato, sa già che gli giungerà il rimbrotto di Monti.  Il maestro nei suoi libri - Non tornare a Monesiglio - e nei suoi insegnamenti costanti, l'aveva sempre ammonito a non tornare al paese come ricerca del tempo felice dell'infanzia, ma a guardare avanti, nella vita.Così dopo ogni opera di Pavese, dalla prima all'ultima, le critiche, i plausi e le raccomandazioni del professore s'infittiscono. Sulla copia di Lavorare stanca ancora nell'edizione «Solaria», Pavese aveva scritto per Monti una dedica nella quale confessava di non essere ancora nel solco della fedeltà, cui il professore s'era sforzato di avviarlo, e prometteva di rifarsi al prossimo libro. Quelle liriche di Lavorare stanca, il professore le aveva lette e meditate in carcere e soltanto quando tornò, dopo aver scontato la sua condanna politica, ebbe la dedica di Pavese. Iniziava con la citazione dei versi in cui Orazio ricorda la sua fuga dalla battaglia di Filippi e lo scudo «non bene abbandonato», e concludeva con queste parole: «Ci rifaremo al prossimo libro».Da allora Monti continua ad indicare a Pavese, con la stessa intransigenza e lo stesso amore con cui correggeva i suoi temi d'italiano o quelli di latino, i pregi e gli errori dei suoi scritti. Fino a che, dopo la pubblicazione di Prima che il gallo canti e di La bella estate le osservazioni di Monti si trasformano in aspra rampogna.Sono appunto del gennaio '50 due lettere di Pavese in risposta alle dure critiche del maestro nelle quali difesa e attacchi si combinano. Queste lettere rivestono particolare importanza perché sono state scritte appena sette mesi prima della morte, e datate l'una a pochi giorni dall'altra, incalzanti. All'accusa che Monti gli rivolge di essere un Capaneo senza muscoli, volto all'odio verso tutti, e a quella di imitare Pastonchi e D'Annunzio, Pavese reagisce quasi con ira.Poiché dopo la sua prima risposta irata, Monti imperterrito ricarica la dose, anche per certi passaggi della Casa in collina accusandolo di filosofia disumana e di superomismo, Pavese ribatte ancor più energicamente. Ma ecco le lettere: «18 gennaio '50Caro Monti,quando ho letto il paragone con Pastonchi, "l'altro dannunziano", ho detto: "È diventato fesso e basta". Che un racconto sia giudicato appartenere a questa o quella scuola, al passato o all'avvenire, è una questione che si risolve col gusto e con le buone letture - cose su cui non si discute.Ma un giudizio sul "positivo etico" è altra cosa e si discute. Mi pare che i due racconti in questione (Diavolo e Donne - non parlo del primo: storia di una verginità che si difende) distinguano l'umanità proprio in chi lavora, chi è utile a qualcosa, e in chi, non lavorando e non essendo utile, va in cancrena e puzza. Cos'è questa storia dell'odio per il prossimo, che mi attribuisci? Il  Diavolo è un inno giovanile di scoperta della natura e della società, ai tre ragazzi tutto pare bello, e soltanto a poco a poco prendono contatto ciascuno a modo suo con la sordidezza del mondo "futile" - un certo mondo borghese che non fa nulla e non crede a nulla, su cui non vedo perché dovrei tirare un velo. Lo stesso si dica per le Donne: qui non sono più ragazzi, qui non si canta la scoperta, qui una dura esperienza di persona che lavora, che si è fatta, che basta a sé, viene a contatto, con che?, col solito mondo futile di chi non crede a nulla o crede a delle balle - soprattutto perché è scioperato, - e osserva questo mondo putrefarsi e uccidersi. Ma persino in questo mondo si cerca di salvare il salvabile: la suicida è una vittima, in fondo, ingenua, è la più innocente di tutti, e se muore è proprio perché di tutti è l'unica capace di sentire quel che le manca (salvo, beninteso, la Clelia).Ora, mi chiedo, che senso ha che tu m'imponga di «non trattar male» questi signori che ho detto? Perché ti sfido a trovare una sola persona per bene (produttrice di qualcosa di utile, di qualche valore) che non sia nei due racconti messa su un piedestallo - nel primo, i sabbiatori, i contadini, la famiglia di Oreste, i suoi cugini, la cameriera e il giardiniere del Greppio; e nel secondo, Rosetta Mola, tutta Clelia, Beccuccio e il suo mondo e, per quel che sanno fare, persino la scultrice Nene e l'architetto Febo.Mi viene un sospetto. Che tu sia sentimentalmente così legato all'alta borghesia da seccarti quando senti dir cacca sul suo conto, e volontaristicamente così legato al mondo del lavoro da esigere da un libro il generico astratto ottimismo di tipo militante. In questo caso, è evidente che non possiamo intenderci.CiaoPavese». «28 gennaio, '50Caro Monti,dopo "i gridi e le onte", veniamo a un bel passo d'armi.Adesso che mi hai spiegato con citazioni testuali che cos'è il mio odio del prossimo, la mia filosofia disumana, il mio superomismo, rispondo che hai mancato la prova.  Se tu frequentandomi avessi avuto l'impressione che io considero strame per i miei cavalli l'interlocutore, allora non avrei più niente da aggiungere. Ma i testi sono testi e le frasi che tu mi citi e altre molte di quel racconto fanno parte della confessione di un "peccatore", sono la piaga della sua coscienza, e in più d'un caso vengono da lui dette ad altri con orgasmo quasi a cercarsi un alibi. Mi pare evidente che quel tal Corrado si autodenuncia, si autopunisce proprio per aver vissuto e vivere in un certo modo - e l'autore che gli cava questo verme sa ben altro, sa che la vita consiste in tutt'altro (e, come autore, l'ha dimostrato inventando altri personaggi che non hanno nessun bisogno di rivolgersi quel rimprovero). Del resto, la parabola del racconto va dall'orgogliosa solitudine del protagonista, attraverso l'esempio del semplice sacrificio degli altri e dell'enormità umana degli avvenimenti, alla compunzione e umiliata semplificazione della chiusa, al suo compatire ai morti. Il rovescio di un superuomo. Come puoi accusarmi di aver descritto un rimorso? Sarebbe come se, visto che Corrado ha brutalizzato una ragazza, tu ritenessi che la mia filosofia è di brutalizzare o ingannare o sfruttare le ragazze. Ti sembrano superuomini anche i tre studenti del Diavolo o Pablo del Compagno? La garanzia e la speranza della mia "futura grandezza" (stiamo seri) è una sola: fare bene il lavoro che ci tocca (qualche volta il lavoro è cercare un lavoro) - chi fa bene il suo lavoro ha la coscienza a posto; chi no, no. E come me facciamo tutti - sian messi tutti in grado di farlo. Non mi sembra una filosofia né peregrina né pastonchiana, né dannunziana.Perché è questo che non ti passo. Che, in persona dei miei eroi, mi capiti di trovarmi a volte solo e amareggiato (il mondo è quello che è, e chi non si salva da sé non lo salva nessuno), non significa che io faccia il superuomo o l'antiuomo. Ho di meglio da fare. In questi casi concentro più che mai il mondo nel mio eventuale mestiere (congiura, chitarra, sartoria, discussione ecc.) e aspetto l'indomani, sicuro che un indomani c'è sempre. Il cugino dei Mari del Sud è dannunziano anche lui?Legami sentimentali e ottimismo militante valevano come ritorsione polemica contro il tuo scatto ("Mi viene il sospetto che…"). Non accettando, come non accetto, la tua accusa di odiare tutti, dovevo pur tener conto che di maltrattati nel mio libro non ci sono che certuni, e questi certuni sono quei signori…Ci siamo spiegati? Se tu ritiri il dannunziano, io ritiro il sentimentale e il militante, e mi auguro che tuo nipote Carlo sia altrettanto trattabile.Ciao, sta' bene e ricordati che Einaudi paga con dolorePavese». Alla pubblicazione de La luna e i falò, Pavese manderà a Monti, quasi a chiedere scusa, il libro con questa dedica: «Et nunc dimitte me domine». Arrivati a questo punto, non possiamo fare a meno di domandarci quanto abbia  pesato, sul dramma umano e artistico di Cesare Pavese, la dura incomprensione e la continua, implacabile censura dei suoi «compagni» del Partito Comunista Italiano; e, in particolare, quale influsso abbia esercitato, specie negli ultimi anni, la insistita, intransigente reprimenda del suo ex maestro Augusto Monti, nella genesi e nella crescita abnorme di quel senso di colpa che lo condusse a percepire la propria vita come una vita mancata, come un «vizio assurdo». Noi non vogliamo fare, qui, una sorta di processo al professor Monti, che era certamente bene intenzionato e che nutriva, senza dubbio, un affetto sincero per quel suo ex allievo salito ai vertici della letteratura (aveva vinto il premio Strega proprio in quel tragico 1950). Oltretutto, non siamo degli esperti della biografia di Pavese e non possediamo elementi sufficienti per dire una parola definitiva sulla questione.Non possiamo, tuttavia, fare a meno di interrogarci su come sarebbero andate le cose se quei compagni di partito così imbevuti di spirito militante, se quel professore così esigente ed invasivo avessero avuto un poco più di rispetto per l'autentica vena di scrittore del Nostro, e non avessero continuato, fino all'ultimo, testardamente, a cercare di redimerlo oppure a farlo sentire in colpa se non accettava incondizionatamente una tale redenzione.Eppure, l'interpretazione forzata di Pavese è proseguita per anni e per decenni dopo la sua morte. Per anni e per decenni si è detto, scritto ed insegnato nelle scuole, che Pavese si sentiva mancato come uomo e come scrittore, perché non aveva saputo fare, nel 1943, la scelta «giusta»: quella di entrare nella Resistenza; e perché, dopo il 1945, aveva mancato anche la seconda occasione di divenire un «intellettuale organico» (nel senso gramsciano del termine), sposando sino in fondo, senza se e senza ma, le direttive del partito Comunista, compreso il dogma  prettamente staliniano del realismo socialista. Che, insomma, avrebbe potuto diventare veramente un grande scrittore e, forse, un uomo pacificato e realizzato, se avesse abbandonato le sue ubbie e i suoi cincischiamenti esistenziali e borghesi e si fosse gettato anima e corpo, con assoluta fiducia, nelle grandi braccia del Partito e nello spirito rigenerante del Neorealismo.E, più in generale, non possiamo fare a meno di interrogarci su una questione ancora più ampia: sino a che punto, cioè, sia giusto e opportuno che un Maestro, che pure ha avuto dei grandi meriti nello stimolare la crescita intellettuale, spirituale e morale dei suoi allievi, cerchi poi di forgiarli in tutto e per tutto secondo la sua volontà e secondo le sue convinzioni, ritenendosi pienamente soddisfatto solo allorché li veda divenire tutt'uno con il suo pensare e con il suo sentire, come se avessero interamente abdicato alla propria personalità e alla propria visione del mondo. La risposta, in verità, non può essere dubbia.Un Maestro che agisca in tal modo, e sia pure con le migliori intenzioni di questo mondo, ha cessato di essere tale. È divenuto un uomo piccolo, un ambizioso e un intollerante, che non gode di vedere i suoi pulcini farsi adulti e spiccare il volo nella direzione che essi desiderano, ma che pretende di tenerli sempre sotto il proprio occhiuto controllo e il proprio incessante ricatto morale: un uomo di potere, e sia pure in sedicesimo.

Dio ci scampi da simili maestri. Dalle loro scuole non potranno uscire che uomini piccoli, oppure uomini in eterno conflitto con se stessi.