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Due pessimismi antropologici a confronto: quello umanistico e quello cristiano

di Francesco Lamendola - 21/10/2008

Esistono due forme principali di pessimismo antropologico nella cultura moderna; inteso non come stato d'animo emotivo, ma come ponderata riflessione sulla natura dell'uomo, sulle sue possibilità, sui suoi limiti.
Il primo è il pessimismo antropologico di matrice umanistica: uno dei suoi primi assertori è stato Niccolò Machiavelli, che ne ha fatto la base - come, del resto, Thomas Hobbes  - della sua concezione filosofica e politica.
Il secondo è quello di origine cristiana ed è profondamente diverso dall'altro, per la prospettiva da cui muove e per la stessa concezione dell'uomo ad esso sottesa, visto non come essere immanente ed autosufficiente, bensì come creatura dell'amore divino.
Per afferrare i termini delle rispettive posizioni, si confrontino due brevi passi letterari, l'uno di Machiavelli, l'altro di Manzoni.
Scrive ne Il Principe Niccolò Machiavelli (capp. XVII, 2; XVIII, 3):

Nasce da questo una disputa: s'elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Respondesi, che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma, perché gli è difficile accozzarli insieme, è molto più scuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell'uno de' dua. Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, son tutti tua, òfferonti el sangue, la roba, la vita, e figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando si appressa, e' si rivoltano.  (…)
Non può, pertanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere.  E, se li uomini fossino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro.

E Alessandro Manzoni, nei Pensieri e sentenze (CXXX):

L'uomo riferisce tutto a se stesso, e se ama qualche cosa, l'ama in relazione a quell'amore ch'egli ha per sé, e che vorrebbe che tutti avessero per lui. Queste sono verità molto volgari, ma che bisogna ripetere sovente, perché questo stesso amore primitivo che regola le nostre azioni, ci porta a dimostrare che esso è il mobile di esse, e noi vorremmo potere assegnare tutt'altra ragione di quelle. Ma l'uomo sente nello stesso tempo la sua debolezza, e, disperando della stima e della potenza esclusiva, entra in società coi suoi simili; allora l'amor proprio di molti si bilancia e si contempera. Ma in questa società non si sacrifica, pur troppo, che il meno possibile di questo amore esclusivo di stima e di potenza,  e quindi viene che gli uomini lo trasportano ad un corpo, ad una società particolare, non lo estendono ordinariamente che a quelli con cui si hanno comuni l'interesse e l'orgoglio. Un altro segno di miseria e debolezza che l'uomo ravvisa in sé, è quello che gli sembra che l'eccellenza propria cresca col confronto, dimodoché quanto più gli altri si abbassano, tanto più egli si eleva ai suoi occhi e agli altrui.

Come si sarà notato, il pessimismo di Machiavelli vuole essere di tipo pragmatico: gli uomini sono tristi, cioè malvagi; sono ingrati, volubili, simulatori, eccetera: dunque, non è il caso di trattarli con troppi riguardi, perché chi volesse essere sempre buono con loro, verrebbe mal ripagato. Meglio stare costantemente in guardia, dunque, ed esser pronto a colpire l'altro, prima che lui possa colpire te: questa è, in estrema sintesi, la filosofia de Il Principe; in virtù della quale il suo autore è stato inscritto nella categoria dei filosofi.
Però, a dispetto della sia dichiarata volontà di realismo, per cui Machiavelli sostiene di indagare l'uomo non come egli dovrebbe essere o si vorrebbe che fosse, bensì come egli è realmente, non vengono minimamente argomentate le affermazioni circa il fatto che egli è concepito come un groviglio di bassi istinti, di viltà e di malevolenza; il che non è molto filosofico, e neppure molto realistico. Certo, Machiavelli cita in continuazione sia episodi della storia antica, sia eventi di quella recente e contemporanea; ma chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la filosofia, sa che questo non è un metodo corretto.
Lo studio della filosofia è la ricerca, di là dalla verità fattuale (che è sempre contingente, e che perciò può stare in un modo, come in un altro), della verità di principio (ossia necessaria e assoluta): ovvero dell'Essere, che è come è, perché non potrebbe essere altrimenti. Si dirà che Machiavelli non ambiva a pretendersi filosofo, e che questo riconoscimento è un dono dei moderni; ma esprimere giudizi sulla natura umana in generale significa oltrepassare, e di molto, il terreno della storia e della politica, per entrare in quello della filosofia. Perciò, dire che l'uomo è così e così, dovrebbe essere la conclusione di un ragionamento, e non una affermazione di principio; mentre Machiavelli fa proprio questo.
Ciò premesso, ci resta da vedere da quali motivazioni scaturisca il giudizio negativo sulla natura umana, dal quale - a sua volta - deriva l'indirizzo cinicamente pragmatico della teoria politica umanistica, che tanta scuola ha fatto nel mondo moderno (si confronti, per fare solo un esempio, l'affermazione secondo la quale Non può, pertanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere, con quella del cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg, il quale, nell'agosto del 1914, all'indomani della invasione del Belgio neutrale, disse che I trattati sono pezzi di carta).
Le motivazioni, a nostro avviso, vanno ricercate nella pretesa di assoluta autonomia dell'uomo, che è propria dello spirito umanistico-rinascimentale, e della sua volontà di essere il libero artefice del proprio destino, sfidando le imprevedibili insidie della «Fortuna». Perché, nel momento stesso in cui l'uomo pretende di farsi misura di tutti gli enti e di piegare ogni cosa al proprio volere, così nel mondo della natura, come in quello della storia, egli si accorge pure che ogni «debolezza», ogni ingenuità, ogni esitazione e ogni indugio lo consegnerebbero nelle mani di forze minacciose e a lui materialmente superiori; mentre, volgendosi al mondo dei propri simili, non riesce a scorgervi che potenziali nemici, pronti ad aggredirlo e a sopraffarlo.
In altre parole, allorché il paradigma umanistico ha preso il posto di quello medioevale, è venuta meno non solo la centralità dell'Essere, visto come la causa ultima e come il sapiente reggitore del mondo, ma anche la sua funzione mediatrice fra l'uomo e la natura e fra l'uomo e i suoi simili (per non dire dell'uomo con se stesso: quel doppio uomo che è in me, dice di sé Francesco Petrarca nella Epistola in cui descrive la sua ascensione al Monte Ventoso).
L'Essere, identificato con l'amore divino dalla cultura medievale, aveva sinora svolto questo ruolo di mediazione; e, bisogna dire, con successo, visto che quel paradigma aveva retto per quasi mille anni. Si ricordino le parole di Francesco d'Assisi nel Cantico delle creature:

Altissimu, onnipotente, bon signore,
tue so le laude la gloria
e l'onore et onne benedictione.
Ad te solo, altissimo, se konfano
Et nullu omo ene dignu te mentovare.

È il Creatore che va lodato, non la creatura; la creatura va amata e ammirata in quanto opera sapiente del Creatore e attestazione della sua gloria e della sua perfezione.
Ma ora questo centro irradiante si è spento, o appannato alquanto; si è spenta, o appannata, la sua capacità di mediazione fra l'uomo e la realtà circostante e fra l'uomo e la sua stessa realtà interiore; e, con ciò, sembra essersi spenta, o molto appannata, la bellezza del mondo.
Si dirà che, al contrario, proprio l'opera più tipica dello spirito rinascimentale e del ritrovato sentimento d'indipendenza dell'uomo, L'Orlando Furioso, esprime al massimo grado la bellezza del mondo e la gioia di vivere. Rispondiamo: sì, ma solo nei regni della fantasia. È nel regno incantato dell'immaginazione che il mondo ariostesco si popola di bellezza e di gioia; e tutto l'Orlando Furioso non è che una grandiosa opera di evasione - evasione di altissimo livello, questo è certo; ma pur sempre evasione. Tanto è vero che, per dare un baricentro alla materia vastissima e caotica del suo poema, Ariosto lo individua proprio nelle leggi del mondo cavalleresco, senza le quali ogni personaggio e ogni situazione scivolerebbero verso il vuoto.
Come ha bene osservato il critico Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (cap. XIIII):

Perché l'essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell'individuo, la mancanza di serietà, di ordine, e di persistenza in un'azione unica e principale, sì che le azioni si chiamano «avventure» e i cavalieri si dicono «erranti». Staccarsi dal centro, andare errando e cercando avventure è lo spirito di un mondo che ripugna così all'unità, come alla disciplina.  (…) Come l'unità del mondo, nella sua infinita varietà, è nel suoi spirito e nelle sue leggi, così l'unità di questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.

Tuttavia, se si passa dal regno dell'evasione fantastica a quello della realtà concreta, allora le cose cambiano; e il vero interprete dello spirito umanistico nel mondo concreto è Machiavelli, non Ariosto: colui che nutre per gli uomini non solo un sentimento di disistima, ma di autentico disprezzo.
Stranamente, però, pur avendo a che fare con una natura umana così incline alla viltà, al tradimento, all'ingratitudine e così via, da questo bassissimo materiale egli pretende di costruire un principe dotato di tutte le doti possibili di coraggio, di prudenza, di astuzia e d'intelligenza. Da dove possa uscire un simile individuo, visto che la natura umana è così meschina e inadeguata, non si capisce, né Machiavelli si prende la briga di domandarselo.
Evidentemente, egli pensa che, in mezzo alla massa informe, di tanto in tanto nasce un individuo d'eccezione: ciò non ha importanza; gli basta che, una volta giunto ad afferrare il potere, egli se lo tenga ben stretto fra le unghie, alternando l'astuta prudenza della golpe al possente balzo d'audacia del lione, secondo che lo richiedano le circostanze. Perché la regola dell'agire politico è non avere alcuna regola, e commisurare sempre la propria azione all'evolvere e al mutare della situazione.
Né deve ritenersi un caso che egli abbia creduto di vedere, a un dato momento, incarnarsi un siffatto ideale umano in quel Cesare Borgia, la cui scaltrezza, crudeltà e totale mancanza di scrupoli, non meno che l'ambizione e l'avidità di potere, avevano reso ben (tristemente) noto a tutti gli Italiani del suo tempo; senza rendersi conto, almeno all'inizio, dell'incongruenza di scegliere un siffatto campione quale esempio di principe ideale.
E se, in un secondo tempo, si avvide dell'errore commesso, specie di fronte ai Medici, dei quali sperava il perdono e il reintegro nelle proprie funzioni diplomatiche (ma dei quali il terribile Valentino era stato pericoloso nemico), ciò avvenne per la sola ragione che Cesare Borgia, alla fin fine, si era rivelato un perdente; e, quindi, una sorta di smentita vivente del suo modello di spregiudicatezza, in base al quale il fine giustifica i mezzi. Il duca Valentino, infatti, si era lasciato battere proprio su quel terreno della forza e dell'astuzia, sul quale aveva costruito le proprie fortune: quale monito più evidente del fragile fondamento su cui riposava la dottrina del potere di messer Machiavelli?
Se, dunque, la regola dell'universo e dell'umano agire, è, per San Francesco (come per Tommaso d'Aquino, per Dante e per Giotto) nell'Essere che regge e governa ogni cosa; mentre per Ariosto è nel mondo cavalleresco - un mondo di finzione, e che egli ben sa essere tale, tanto è vero che ce lo ricorda continuamente corso del suo poema -; per Machiavelli la regola è la Virtù, intesa come l'insieme delle abilità mediante le quali l'uomo tiene in scacco la Fortuna e realizza il suo disegno consapevole nella propria vita e nella storia.

Diverso è il discorso riguardo al pessimismo antropologico cristiano, del quale Manzoni costituisce un esempio illustre.
Chi abbia anche solo un minimo di familiarità con il mondo de I promessi sposi - non con la storia e con i personaggi, ma con l'atmosfera, per così dire, spirituale, che pervade l'opera dalla prima all'ultima pagina - avrà certamente notato che Manzoni non ha una grande opinione dell'essere umano. Al quale rimprovera, in buona sostanza, essenzialmente due gravi difetti: quello dell'incontentabilità, per cui desidera sempre ciò che non possiede e invidia chi ha qualcosa che a lui manca; e quello, appunto ad esso collegato, della malevolenza e dell'invidia, originate da uno smisurato amor proprio, per cui gode di abbassare il proprio simile, nell'illusione di innalzare se stesso.
Allo stesso modo, basta leggere un paio di capitoli del romanzo per rendersi conto che Manzoni, pur non avendo una grande opinione dell'uomo - di cui don Abbondio è un ritratto abbastanza tipico: non cattivo, ma debole, egoista e un po' meschino, e disposto a collaborare anche col male, pur di non turbare il proprio quieto vivere -, non nutre per esso alcun disprezzo; ma, al contrario, una bonaria indulgenza e una profonda compassione.
Allo stesso tempo, egli crede fermamente nella perfettibilità della natura umana; crede che ciascun uomo, anche il più scellerato (si pensi all'Innominato), può ravvedersi e mutar vita; ma ad una condizione: che riconosca la propria insufficienza e rivolga almeno un pensiero al suo Creatore, dal quale solamente possono venirgli conforto e aiuto. Manzoni non abbassa l'uomo per poter meglio innalzare Dio; per lui, Dio si trova già al vertice della creazione, e ne sente la silenziosa presenza in tutti gli eventi della storia, così come in quelli della vita di ogni singolo individuo. Ma questa presenza benevola, che opera nel segreto del cuore umano - la Provvidenza -, non è una sorta di deus ex machina, che raddrizza i torti in maniera automatica, salvando i buoni e punendo i malvagi. Le sue vie non sono le nostre vie; e ciò che a noi, da un punto di vista limitato, appare incomprensibile, è frutto di un sapiente disegno che trascende le nostre menti e i nostri cuori.
Perciò, Renzo alla fine potrebbe anche non ritrovare la sua Lucia; potrebbe apprendere, al Lazzaretto di Milano, ch'ella è morta di peste, senza averlo potuto rivedere: non per questo si potrebbe dire che la Provvidenza è impotente o che Dio è lontano. Lui sa sempre quale sia il nostro bene; siamo noi che, sovente, lo ignoriamo o ce ne dimentichiamo. La sventura può anche essere provvida, se diviene occasione di grazia; chi può dire cosa avvenga nel segreto dell'anima, indipendentemente dal giudizio degli altri esseri umani?
Ecco: qui sta il punto; qui sta la differenza fondamentale con Machiavelli e, in genere, con il paradigma umanistico: che per Manzoni, come per ogni uomo dotato di autentico spirito religioso, al centro della persona vi è un grande mistero (egli dice proprio così, appunto nei Pensieri e sentenze), ossia qualche cosa di sacro, che eccede la nostra capacità di giudizio; mentre per Machiavelli non vi è nessunissimo mistero, ma solo un insieme di attitudini e istinti, che lo induce a formulare un giudizio negativo, senza appello. Per Machiavelli, l'uomo non è perfettibile; deve essere già perfetto, se ama il potere: oppure deve rassegnarsi a servire. In ogni caso, la forza che lo sovrasta, e che può vincerlo ed abbatterlo, non è la Provvidenza, ma la Fortuna, ossia una cieca e capricciosa alternanza della sorte, che sembra divertirsi a giocare con lui, innalzandolo o distruggendolo imprevedibilmente.
È un ritorno, per così dire, al concetto greco della Moira, del Fato; non per nulla Machiavelli adora gli antichi, fino al punto di indossare «panni reali e curiali» quando s'immerge nel loro studio amorevole (lettera a Francesco Vettori).
È come se l'idea che l'uomo ha di se stesso e del suo posto nel mondo fosse regredita di oltre duemila anni. Leggendo Il Principe, ci accorgiamo di essere immersi nello stesso clima spirituale dell'Iliade: la stessa solitudine dell'uomo di fronte al mondo e di fronte alla forza terribile del Fato; la stessa, orgogliosa volontà di autoaffermazione, per mettere a tacere la cupa angoscia del nulla che ne mina, dall'interno, ogni senso di sicurezza («le generazioni degli uomini sono come le foglie», dice amaramente Glauco a Diomede); lo steso disprezzo della debolezza, che è, in fondo, disgusto del proprio destino di annullamento e di morte (si pensi all'episodio di Achille e Licaone: uccidere senza pietà, sapendo che si finirà uccisi e che ogni cosa bella si spegnerà per sempre).

Arriviamo così alla conclusione che il grande merito storico del cristianesimo è stato quello di avere introdotto la categoria, pressoché sconosciuta ai Greci e ai Romani, e nuovamente obliata dalla modernità, della speranza.
L'uomo antico è, alla lettera, di-sperato (si veda il saggio di Filippo Maria Pontani sugli eroi omerici, La morte degli eroi, Sansoni Editore, Firenze, 1975): vive nel presente della forza e dell'orgoglio, perché sa che il suo destino è il nulla.
Con Machiavelli e con Hobbes, tetri araldi del nuovo paradigma umanistico, tramonta la speranza e si afferma nuovamente la categoria della volontà protesa senza un fine; della forza per la forza; del potere per il potere; della ragione che vuol bastare a se stessa; della mancanza di compassione per i propri simili; dell'adorazione dell'esistente, pur conoscendone la natura elusiva e ingannevole. In breve, una filosofia della disperazione che non crede più a nulla, se non nel presente immediato (chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza, canta Lorenzo il Magnifico) e che culmina con l'hegeliana autoglorificazione della Storia.

Appare evidente da tutto questo che esiste una relazione diretta fra la pretesa dell'uomo di farsi Dio di se stesso, il pessimismo antropologico che ne è il lato nascosto, e la crescita esponenziale della volontà di potenza e di autoaffermazione dell'uomo moderno. Challenger si chiamava la navicella spaziale americana, il cui disastro commosse l'opinione pubblica mondiale poco più di vent'anni or sono (morì anche una maestrina in volo «turistico»), ossia: Lo Sfidante. Appunto, lo Sfidante: ma contro chi? Chi voleva sfidare, il Challenger?
E questa dismisura, questa hybris, che spinge l'uomo moderno ad alzare continuamente la posta della sfida (bomba atomica; guerra chimica e batteriologica; clonazione; manipolazione genetica),  altro non è che il rovescio del suo timore di perdere il controllo della situazione, di vedersi sfuggire di mano il dominio sulle cose, nel quale ripone - compulsivamente - ogni speranza di salvezza, ora che in lui si è spenta la speranza in un destino trascendente.
Tale è stata la conseguenza di aver rifiutato la mediazione fra sé e il mondo, che la consapevolezza dell'Essere conferiva all'uomo pre-moderno.
A partire da quel momento, e per tappe successive scandite con ritmo inesorabile - dalla Rivoluzione scientifica del 1600, all'Illuminismo, alla Rivoluzione industriale, a quella tecnologica e informatica - l'uomo occidentale, rimasto privo di mediazione, ha imboccato senza più remore la strada del dominio brutale sulle cose, la strada dell'autodistruzione.
Questa, pertanto, è la differenza fondamentale tra il pessimismo antropologico dell'umanesimo e quello del cristianesimo: che il primo ha una natura distruttiva e, chiuso a ogni speranza di redenzione, conduce verso il senso del nulla che mina le basi stesse della vita (come si vede nella filosofia di Sartre e, in genere, nelle dottrine esistenzialiste); l'altro, invece, è di natura costruttiva, perché postula, proprio in risposta al grido d'aiuto dell'uomo che si vede finito, imperfetto e inquieto, la presenza luminosa dell'Essere, che trasfigura le miserie della contingenza e trasporta l'uomo - come dice appunto Manzoni, ne Il cinque Maggio

…in più spirabil aere (…)
pei floridi sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.