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Agenzie di Rating: complici del disastro

di Mario Braconi - 21/10/2008

 

Nessuno dubita che le banche siano le principali colpevoli della crisi che sta mettendo in ginocchio la finanza e l’economia globali. Eppure, come sostiene Joseph Stiglitz, studioso delle asimmetrie informative nei mercati e premio Nobel per l’Economia 2001, “le banche non sarebbero riuscite a fare tutto quello che hanno fatto senza la complicità delle agenzie di rating”. Infatti in assenza del misterioso procedimento alchemico di Moody’s e di Standard & Poor’s, i mutui in sofferenza concessi in allegria senza adeguata documentazione sarebbero rimasti quello che sono, una spina nel fianco; invece sono diventati il cosiddetto “sottostante” di titoli con il rating migliore possibile (AAA). Parla chiaro il comunicato stampa con cui lo scorso 8 luglio la Securities and Exchange Commission ha riportato gli esiti di un’inchiesta sulle tre principali agenzie di rating (Fitch Ratings, Moody’s Investor Services, e Standard & Poor’s): l’organismo di controllo americano rimprovera loro la difficoltà che hanno dimostrato nel mantenersi al passo con i prodotti sempre più complessi di cui però continuavano imperterriti a stimare il merito di credito;

Sotto accusa anche l’assenza di procedure organiche di valutazione e un imbarazzante livello di opacità, tanto su procedure e pratiche di rating che sulle situazioni di conflitto di interessi (per chi non lo sapesse, le agenzie vengono pagate dagli emittenti dei titoli che valutano). A rovinare la loro reputazione, un tempo indiscussa, sono stati diversi fattori: il cambio del loro modello di business all’inizio degli anni 2000 e la distorsione provocata dai margini elevati ottenuti per effettuare il rating di prodotti strutturati rispetto alle care vecchie obbligazioni, innanzitutto. Di qui il conflitto d’interessi e una colpevole superficialità nell’analisi, dimostrata dall’impiego di modelli matematici e statistici imprecisi, contraddittori e resi inaffidabili da assunzioni errate quando non da gravi errori materiali.

Il mondo delle agenzie di rating ed i loro obiettivi societari subiscono una radicale trasformazione nel settembre del 2000, quando la Dun & Bradstreet scorpora e mette sul mercato Moody’s. Da quel momento in poi le agenzie, più che un soggetto che diffonde valutazioni sul merito di credito degli emittenti di titoli, diventano consulenti, orientati più alle esigenze di azionisti e clienti che al rigore e alla trasparenza. Ricorda ancora Stiglitz: “Le agenzie di rating non si limitavano a dare il rating (cioè il voto) alle emissioni, ma spiegavano anche ai clienti come fare per ottenere la valutazione desiderata”.

Ad aggravare la situazione contribuirono gli elevati compensi che le agenzie chiedevano agli emittenti per emettere il loro rating su una emissione CDO (Collateralized Debt Obligation) e di altri strumenti ABS (Asset-Backed Securities) - che praticamente non si potevano collocare sul mercato senza la tripla “A”. Per un simile servizio, le agenzie caricavano tra gli 8 e i 10 centesimi del valore nominale dell’emissione, tra le due e le tre volte rispetto alle commissioni previste per normali emissioni obbligazionarie. C’era dunque un incentivo a chiudere tanti più contratti di rating possibili e soprattutto a non scendere mai sotto la tripla “A”.

Al termine di un quinquennio (2002 - 2007) in cui ben 3,2 migliaia di miliardi di dollari di mutui traballanti (subprime) hanno dato vita ad un ammontare equivalente di titoli negoziabili con ottimo credito, il dipartimento “Finanza Strutturata” di Moody’s ha sfiorato i 900 milioni di dollari di fatturato. Inoltre, tutti gli operatori di mercato vivevano nell’illusione che la distribuzione del rischio implicita nelle tecniche di strutturazione finanziarie impiegate nella creazione di CDO trasformasse in realtà il sogno proibito di ogni finanziere: profitti elevati e basso rischio di default.

Ecco quello che Frank Raiter, ex dirigente di Standard and Poor’s, racconta ad Elliot Blair Smith, giornalista di Bloomberg: “Il 20 marzo del 2001, giorno in cui il mio capo mi chiese di firmare una relazione di rating su un’emissione che nemmeno avevo analizzato, l’agenzia ha messo un cartello “Vendesi” sulla propria reputazione. Ed in effetti erano gli anni in cui nel settore andava di moda una incredibile procedura denominata “notching”: si trattava, né più né meno, di copiare la valutazione già emessa da un’agenzia di rating concorrente, abbassandola di una tacca (“notch” in inglese) per compensare il fatto che non si sapeva assolutamente nulla dei portafogli di mutui che avrebbero dovuto garantire i flussi di cassa dei prodotti finanziari sottoposti a rating”.

Che questa forma di lucida follia fosse divenuta piuttosto comune è dimostrato dalle dichiarazioni del Presidente della SEC, Christopher Cox, il quale, nel giugno del 2008, ha proposto di vietare alle agenzie di rating riconosciute dal governo di emettere rating a meno che non abbiano a disposizione informazioni sugli attivi che sottostanno ai titoli; da ciò si evince che, fino a quattro mesi fa, il sistema finanziario riteneva accettabile che l’organismo deputato a fare le pagelle agli emittenti lo poteva fare senza conoscere la sostanza di ciò che sta “valutando”.

Raiter conferma come i vertici di Standard and Poor’s fossero allergici ad informazioni dettagliate sulla massa di credito su cui poggiavano i titoli negoziabili (e non regolamentati): quando insisteva sulla opportunità di sviluppare metodi analitici più sofisticati e di acquistare dati statistici aggiornati sulle insolvenze dei mutuatari, il top-management si era comportato come le proverbiali tre scimmiette (Non Vedo, Non Sento e Non Parlo): “Se anche fossimo stati in grado di assumere in azienda un essere supremo perché ci dicesse quanta parte di un prestito fosse irrecuperabile- continua Raiter - i miei capi non lo avrebbero mai preso a lavorare con noi, perché Wall Street non ci avrebbe dato un dollaro in più per saperlo.” Semplicemente, alle banche non interessava sapere che cosa avevano venduto in giro, e alle agenzie non interessava scoprirlo.

Un ragionamento a parte va fatto sulle metodologie di valutazione. Fin dal 1996 Moody’s si era servita di un modello, denominato BET (in inglese “scommessa”), che tendeva a “premiare” i portafogli di attività diversificate rispetto a quelle troppo concentrate su un solo segmento di mercato (i mutui, le carte di credito, i leasing delle società aerospaziali eccetera). Però questa metodologia, forse proprio perché intuitiva, non piaceva troppo al mercato e per questo Moody’s stava perdendo quote di mercato. A quanto riporta Bloomberg, mentre nel 2003 oltre il 90% delle nuove emissioni CDO avevano il rating di Moody’s, l’anno successivo questa percentuale era scesa al 76,8%.

Sulla scena arriva Gary Witt, manager di Moody’s, le cose cambiano drasticamente: il metodo BET non funziona più così bene, sostiene Witt, e con una serie di studi condotti tra il 2004 e il 2005, dimostra che, a causa di alcuni errori statistici, i modelli aziendali sovrastimavano il rischio dei titoli. Per questo impone nuovi metodi quantitativi, che includono nel computo evidenze statistiche sui default sulle emissioni strutturate: benché questo metodo sia discutibile, dato che confonde input con output, le percentuali di fallimento atteso sono finalmente quelle desiderate da Witt: dall’agosto del 2004 (in cui Witt presenta il suo studio) Moody’s ricomincia ad emettere rating (elevati) sui CDO, fino a raggiungere nel 2006 la percentuale vicina al 100% delle nuove emissioni.

Purtroppo le tesi di Witt, che nel frattempo ha lasciato la finanza per insegnare finanza e statistica all’università (e anche qui c’è da ridere!), si sono rivelate del tutto errate. Peccato che un simile catastrofico errore, non si sa se dettato da malafede o ignoranza, abbia contribuito in modo importante alla più grande crisi finanziaria di tutti i tempi.