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Accordo Usa-Iraq, Baghdad studia le modifiche, il Pentagono minaccia conseguenze drammatiche

di Ornella Sangiovanni - 22/10/2008




La scadenza sarebbe il pomeriggio di oggi. Questo il tempo concesso dal premier iracheno Nuri al Maliki ai ministri che compongono il suo governo, perché presentino le proposte di modifica all’accordo con Washington, che autorizzerebbe le truppe Usa a restare in Iraq dopo il 31 dicembre, quando scadrà il mandato Onu per la cosiddetta “Forza multinazionale”.

Cominciano a emergere dettagli e retroscena, dopo la riunione del Consiglio dei ministri iracheno di ieri, dalla quale è uscita la decisione – ufficialmente presa all’unanimità - di chiedere modifiche al testo del documento concordato dai negoziatori statunitensi e da quelli iracheni (finora considerato finale).

Di ufficiale non c’è nulla, ma diversi “partecipanti all’incontro” hanno parlato con la stampa – manco a dirlo, a condizione di restare anonimi. La situazione, infatti, è assai delicata.

Numerose obiezioni al testo dell’accordo

Tutti riferiscono di numerose obiezioni al testo dell’accordo fatte ieri da parecchi dei ministri – 37, oltre al premier - che fanno parte del governo Maliki. Sciiti e sunniti. Obiezioni che riguarderebbero “molti articoli”.

Non solo, dunque, i più controversi: quello relativo all’immunità per i militari Usa rispetto alla legge irachena, che prevede che essi possano essere perseguiti dai tribunali iracheni solo se dovessero commettere reati “gravi e intenzionali” quando non sono in servizio, e fuori dalla loro basi, e quello che contiene il calendario per il ritiro delle truppe statunitensi. Che lascerebbero le città irachene entro il giugno 2009, e se ne andrebbero da tutto il Paese entro il 31 dicembre 2011. A meno che - e qui sarebbe il punto di contenzioso - il governo di Baghdad non chieda loro di restare ancora.

Nel corso della riunione di ieri, durata quasi sei ore, solo i ministri della Difesa, degli Interni, e della Pianificazione avrebbero dato il loro Ok alla bozza di accordo così com’è, a detta di alcuni “funzionari governativi” citati dalla Associated Press.

Tutti gli altri avrebbero sollevato obiezioni – alcuni spingendosi addirittura a chiedere che l’accordo con Washington venga sottoposto a un referendum popolare, secondo quanto riferito al Los Angeles Times da uno dei partecipanti alla riunione.

Il portavoce governativo, Ali al Dabbagh, che ieri aveva diffuso il comunicato in cui si annunciava che il governo di Baghdad aveva deciso di chiedere modifiche al testo dell’accordo, ha detto che verrà preparata una lista delle varie modifiche proposte dai diversi membri dell’esecutivo, da presentare agli americani. Ma non ha parlato di scadenze.

Secondo la fonte del Los Angeles Times, invece, il Consiglio dei ministri inizierebbe a discutere le proposte di emendamenti domenica.

Il silenzio di Maliki

Assente finora, in tutto ciò, è stata la voce del premier Nuri al Maliki. Che non si è espresso pubblicamente sull’accordo.

Uno dei funzionari governativi presenti alla riunione di ieri ha riferito ai giornali del gruppo McClatchy che, nel corso dell’incontro, il premier iracheno non ha fatto alcun tentativo di difendere l’accordo nella sua forma attuale, né ha fatto pressioni perché venisse approvato, mentre i vari ministri esponevano le loro obiezioni.

“Si rende conto sinceramente che un accordo è necessario”, avrebbe commentato con il gruppo McClatchy “un alto funzionario iracheno”, in riferimento a Maliki, “ma ha la sensazione che gli abbiano passato una patata bollente”.

Secondo quanto riferito al Washington Post da un altro dei presenti all’incontro, il Primo Ministro iracheno avrebbe detto che “l’accordo, così com’è, è difficile che venga approvato dal Parlamento”.

E in Parlamento, è chiaro, Maliki non vuole andarci senza avere prima almeno l’avallo del suo governo – dopo che non c’è stato quello del Consiglio Politico per la sicurezza nazionale, un organismo consultivo di cui fanno parte, oltre al premier, il presidente Jalal Talabani e i suoi due vice, i leader delle maggiori formazioni politiche, e il presidente del Parlamento.

Per questo avrebbe chiesto che tutti i ministri che hanno emendamenti da suggerire al testo dell’accordo li presentino per iscritto. Entro il pomeriggio di oggi.

Da Washington diplomazia e minacce

Da Washington le reazioni alla decisione del governo di Baghdad si dividono fra l’understatement diplomatico (del Dipartimento di Stato) e le minacce (del Pentagono).

Sean McCormack, portavoce del Dipartimento, ha detto che l’amministrazione Bush aspetterà un comunicato formale degli iracheni prima di fare commenti.

Ma dal Segretario alla Difesa, Robert Gates, arrivano toni assai diversi.

Parlando ieri con i giornalisti al Pentagono, Gates ha ammonito di “conseguenze drammatiche”, se Washington e Baghdad non firmeranno l’accordo.

In tal caso, ha sottolineato, le forze Usa in Iraq dovrebbero “fondamentalmente cessare ogni attività”.

Il capo del Pentagono ha ammesso che da parte di Washington c’è “molta riluttanza” a riaprire i negoziati.

“Non penso che si tratti di sbattere la porta”, ha commentato Gates con i giornalisti, “ma direi che è decisamente chiusa”.


Fonti: Associated Press, Agence France Presse, Los Angeles Times, McClatchy Newspapers, Washington Post