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Una pagina al giorno: il totalitarismo dei consumi, di Pier Paolo Pasolini

di Francesco Lamendola - 23/10/2008

Così si esprimeva Pasolini a proposito della distruzione del mondo contadino (includendovi anche il mondo operaio nella prima fase dell'industrializzazione massiccia, e quello sottoproletario) e l'avvento di un nuovo totalitarismo, il più invasivo che mai si sia visto nella storia, basato sulla omologazione consumistica, in una lettera aperta a Italo Calvino e pubblicata su Paese sera dell'8 luglio 1974 (in: P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975, 1981, pp. 60-65):

Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un'«età dell'oro», tu dici che rimpiango «l'Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio.
Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l'ho detto chiaramente, sia pure in versi  (Paese Sera, 5-1-74). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo).  Io rimpiangere l'Italietta? Ma allora non hai letto  un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l'Italietta. A meno che tu nn mi consideri radicalmente cambiato: cosa che  fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te,
L'«Italietta» è piccolo borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare.  Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no. Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi però dimenticarlo tu…
D'altra parte, questa «Italietta» , per quel che mi riguarda, non è finita. Il linciaggio continua. Magari adesso a organizzarlo sarà l'«Espresso», vedi la noterella introduttiva («Espresso», 23-6-74) ad alcuni interventi sulla mia tesi («Corriere della Sera», 10-6-74): noterella in cui si ghigna per un titolo non dato da me, si estrapola lepidamente dal mio testo, naturalmente travisandolo orrendamente, e infine si getta su di me il sospetto che io sia una specie di nuovo Plebe: operazione di cui finora avrei creduto capaci solo i teppisti del «Borghese».
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un'altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell'Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L'ordine in cui elenco questi mondi riguarda l'importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni razionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell'Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l'Italia. L'universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto, fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie, che erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel '17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l'avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di società precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano - penso a De Martino - la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l'Italia piemontese, poi l'Italia fascista, poi l'Italia attuale: senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto solo fino a pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch'esso entrando nell'orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un'età dell'oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l'Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l'età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento). Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com'è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l'acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell'esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell'espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli son costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l'annesso glossario come un buon borghese del Nord! (…)
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l'edonismo consumistico) un giovane fascista non può più essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite e condannati a essere ancora più infelici di noi, e quindi probabilmente anche migliori. Questo lo dico per una allusione («Paese Sera», 21-6-74) di Tullio De Mauro, che, dopo essersi dimenticato di invitarmi a un convegno linguistico di Bressanone, mi rimprovera di non esservi stato presente: là, egli dice, avrei visto alcune decine di giovani che avrebbero contraddetto le mie tesi. Cioè come a dire che se alcune decine di giovani usano il termine «euristica» ciò significa che l'uso di tale termine è praticato da cinquanta milioni di italiani.
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all'altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono stati sempre conformisti e il più possibile uguali l'uno all'altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all'interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all'altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell'ansiosa volontà di uniformarsi.
Infine, caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi (sul «Messaggero» (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Ma: 1) certamente non avrai mali tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti  è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno - quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità - ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, perché il suo destino fosse diverso.

Confessiamo di essere quasi imbarazzati all'idea, non diremo di commentare, ma anche soltanto di prendere lo spunto da un brano come questo, tanta è la compattezza, la lucidità, la coerenza intransigente e l'intima, vigorosa onestà intellettuale che da esso traspaiono ad ogni frase, ad ogni riga.
Si può non essere d'accordo su alcuni particolari; non si può non provare una sconfinata ammirazione per chi, nel clima idiota di quegli anni - fra una Democrazia Cristiana sempre più ipocrita e arrogante e un Partito Comunista sempre più puritano e falsamente progressista - ha saputo vedere e denunciare con tanta passione, con tanta forza e con tanta umanità (come si vede dalla riflessione finale sui giovani fascisti, infinitamente più intelligente e «cristiana» del becero moralismo di Calvino) i disastri annunciati della omologazione consumistica.
Quella di Pasolini è stata una delle poche voci che si sono levate, in quegli anni - e , fra tutte, forse la più preveggente e virilmente compassionevole - sul genocidio in atto della civiltà contadina, cui egli associava - come dei sottoprodotti, accomunati ad essa dalla subalternità di classe) sia il sottoproletariato urbano, sia il ceto operaio, almeno fino a quando esso era stato una minoranza nel Paese (come in Russia, alla vigilia della rivoluzione).
Davanti a questo grande profeta inascoltato - anzi, non solo inascoltato, ma anche linciato moralmente e, alla fine, fisicamente - noi ci sentiamo piccoli.
E vediamo, in prospettiva storica, che piccoli, molto piccoli, erano quanti lo attaccavano, più o meno in buona fede, come Calvino; e addirittura dei lillipuziani quanti lo attaccavano per motivi bassamente farisaici, ad esempio per una forma di moralismo da quattro soldi (per via della sua omosessualità, ad esempio).
Fra questi ultimi, vanno ricordati in prima fila i signori del Partito Comunista, i quali, dopo averlo espulso per «indegnità morale», gli hanno fatto, per tutta la vita, una guerra subdola e vile, perfino più meschina di quella dei pennivendoli della piccola borghesia astiosa e feroce, da lui messa tante volte alla Berlina: una guerra sleale, fatta di una apparente disponibilità al dialogo alternata, di tratto in tratto, a colpi bassi di una volgarità quasi intollerabile.
Non che la cultura di sinistra, nel suo complesso - compresa quella «eretica» che si collocava, ideologicamente, al di là del P. C. I. - si sia comportata molto meglio nei confronti di questo grande profeta; il quale, se spesso non ci convince come regista cinematografico, dobbiamo però riconoscere come uno dei giornalisti e dei critici di costume più attenti e intuitivi, oltre che più trasparenti e ardimentosi, degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Ricordiamo, a titolo di semplice esempio, un intellettuale anarchico, che, ormai diversi anni dopo la sua morte - quando, cioè, la sua profezia si era in gran parte avverata, ed era perciò possibile misurare ancor meglio la statura gigantesca di colui che l'aveva proclamata - liquidava il «fenomeno» Pasolini con queste sbrigative (e desolanti) parole: «Pasolini? Ah, ma quello era un reazionario».

Ci ripromettiamo di tornare altra volta sulla questione di «Pasolini reazionario», nel contesto di una più ampia riflessione sul fenomeno del populismo, cui certo Pasolini appartiene - se non in senso strettamente politico, almeno in senso letterario, ma con ben altro spessore di Alberto Moravia o, anche, di Vasco Pratolini o di Elio Vittorini.
Per adesso, ci limitiamo a una semplice considerazione.
Il populismo (quello autentico, almeno: non quello cialtrone dei politici a caccia di elettori o degli artisti a caccia di pubblico) nasce, certamente, da un atteggiamento in parte nostalgico, verso la società anteriore, in parte utopistico, verso un «popolo» che non c'è mai stato.
Per quanto riguarda il primo dei due atteggiamenti, lo stesso Pasolini ha già risposto, e in maniera esemplare, alle obiezioni dei suoi sapienti censori, Maurizio Ferrara e Italo Calvino, (ma specialmente al secondo), proprio nell'articolo che abbiamo riportato.
Aggiungiamo solo che, in Pasolini, la nostalgia per la campagna e per l'infanzia, come anche per il mondo dei sottoproletari, non è mai regressiva (come lo è in Pascoli), nel senso che non conduce mai a un restringimento degli orizzonti e della coscienza; ma, al contrario, ad un ampliamento e ad un approfondimento.
È il caso di ricordare che egli fu quasi il solo, fra gli intellettuali italiani del suo tempo, ad «accorgersi» (dedicandogli una memorabile intervista televisiva) che in Italia viveva, tristemente dimenticato, uno dei giganti della poesia mondiale, Ezra Pound, che nel suo Paese d'origine si era fatto tredici anni di manicomio criminale per avere troppo amato l'Italia, suo Paese d'adozione e sua patria ideale?
E il motivo di quella scandalosa dimenticanza - o piuttosto, per chiamare le cose con il loro nome, di quel vergognoso ostracismo - era che Pound aveva sostenuto in guerra il fascismo contro gli Alleati, pronunciando dei discorsi radiofonici tanto ingenui quanto coraggiosi. Come perdonare la taccia di fascismo a un poeta, per quanto grande, da parte di una cultura, come quella italiana dell'epoca, quasi interamente egemonizzata dalla sinistra?
Ecco dunque il ricatto morale: se qualcuno si ricordava di Pound (tranne che per esecrarlo o, al massimo, per compatirlo, ma come si compatiscono i pazzi), non poteva che essere, a sua volta, un fascista, o, quanto meno, un criptofascista, un fascista travestito. Ma Pasolini, che era un uomo libero - e non certo un fascista - di questi ricatti se ne infischiava. Era uno dei pochi uomini veramente liberi in un gineceo di intellettuali castrati dalla paura, dal conformismo o dalla furbizia cialtrona.
Per quanto riguarda il secondo, possiamo dire che il populismo si connota di sfumature reazionarie allorché esso celebra acriticamente le virtù di un «popolo» astratto, che è poi ciò che alcuni politici e intellettuali borghesi si immaginano essere il «popolo»..
Ma, nelle società moderne, non si dà alcun «popolo», nel senso di unità indifferenziata e artificiosamente concorde: si danno classi, tensioni, conflitti. C'è popolo e popolo.
E Pasolini aveva le idee estremamente chiare sul popolo che amava (ma che, nel 1974, quando scriveva quell'articolo, già era quasi del tutto scomparso, come lui stesso tristemente ammetteva). Per lui, il «vero» popolo (sarà stato anche il suo limite, o appunto la sua utopia: del resto, si può puntare in alto senza utopia?) era:
1) quello dei contadini della sua giovinezza, a Casarsa, nel Friuli;
2) quello dei sottoproletari delle borgate romane, nella sua maturità;
3) quello delle minoranze operaie, di cui aveva letto sui libri di storia; e,
4) quello degli «ultimi» del Terzo Mondo, presso i quali, negli ultimi anni della sua vita, soggiornava sempre più spesso, come per trovarvi qualche altra boccata d'ossigeno.
Tutti e quattro, peraltro, gli apparivano in via di estinzione; tutti e quattro stavano scomparendo sotto il rullo compressore della omologazione culturale.

Si potrà dire quel che si vuole di questa concezione, tranne che fosse una concezione reazionaria della società e della politica.
Era, semmai, una concezione troppo avanzata rispetto ai suoi tempi.
Per questo, appunto, non fu capita.
Ma è il destino dei profeti, e specialmente dei profeti disarmati.