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Scuola pubblica e globalizzazione: un problema italiano

di Eugenio Orso - 27/10/2008

 

 La globalizzazione, con l’integrazione delle economie a livello mondiale, ha esteso a tutti i continenti le conseguenze del crack della finanza USA. Luigi Tedeschi, Italicum, settembre – ottobre 2008 Chi pensava che la pubblica istruzione italiana, estesa a tutto il territorio nazionale con leggi, norme e regolamenti comuni, sarebbe potuta sopravvivere alle asprezze dei processi di mondializzazione economica e alla disputa per l’assegnazione di risorse in progressiva contrazione, si è sbagliato di grosso. Se da un lato c’è chi vuole oggi liquidare il modello “egualitario” di scuola che si è affermato, negli ultimi decenni, a partire da ben altri contesti politici, economici e sociali, il quale ha bene o male il pregio di aver garantito il diritto all’istruzione a fasce sempre più ampie di popolazione, dando così un positivo contributo alla mobilità sociale e all’emancipazione delle così dette “classi subalterne”, dall’altro sappiamo che la vera e principale giustificazione delle riforme in atto nella pubblica istruzione – a partire dall’università, per arrivare fino alle scuole elementari – è rappresentata dalle impellenti esigenze del bilancio dello stato, attualmente gestito da Giulio Tremonti, che importano tagli draconiani in tutti i settori della vita collettiva.Si vuole far dipendere interamente e rigidamente, in altre parole, la sopravvivenza della scuola pubblica così come noi la conosciamo dagli andamenti economici dello scassatissimo sistema paese italiano, in cui sta entrando in una crisi forse irreversibile anche la sua storica “spina dorsale”, che ancora si sostanzia in vaste aree della penisola nella piccola e media impresa, e misurati naturalmente dal solito “specchietto per le allodole” rappresentato dal tasso di crescita del prodotto interno lordo, un indicatore meramente quantitativo che per sua natura non tiene conto di fondamentali aspetti sociali e culturali, delle esternalità negative provocate dallo sviluppo, delle esigenze di garantire adeguata formazione alle nuove generazioni senza distinzioni di censo, e via discorrendo.Si ha quindi l’impressione che siano ormai lontani, addirittura dimenticati, i tempi in cui l’istruzione pubblica ha rappresentato pur sempre un valore imprescindibile per la società tutta e per lo stesso potere politico nazionale, non subordinabile a pure esigenze contabili, e questo a partire dal regime fascista, che ha dato con le sue riforme un contribuito decisivo all’alfabetizzazione di una popolazione ancora prevalentemente rurale, a lungo costretta dalla vecchia Italia liberare in ampie sacche di ignoranza, fino ad arrivare al periodo sessantottesco e post-sessantottesco, in cui, lasciando perdere alcune storture e richieste balzane come quella del “voto politico” a tutti garantito, si è avuta la piena affermazione di quel modello “egualitario” di scuola che anche lo scrivente, ormai cinquantenne, ha conosciuto.La parola “egualitario” è volutamente virgolettata perché non ha in tale contesto il significato di mero appiattimento verso il basso, di costrizione in una situazione in cui risultano annullate le differenze individuali, in termini di capacità intellettuali e di possibilità di affermazione sociale, ma vuole soltanto significare la garanzia di uguali opportunità offerte ai membri più giovani della comunità nazionale, a prescindere dalla condizione economica delle loro famiglie, e ciò a beneficio della comunità stessa e delle possibilità di un suo reale avanzamento.   Oggi siamo giunti ad un momento storico di rottura, in cui nella XVI legislatura il IV governo Berlusconi sembra voler gestire a colpi di decreti – il 133 sull’università approvato questa estate e il 137, detto riforma Gelmini, soggetto al voto di fiducia e quindi senza coinvolgimento parlamentare – e attraverso i concreti tagli all’università e alla ricerca, il passaggio ad un nuovo modello complessivo di istruzione, che avrà riflessi sicuramente negativi fin dal prossimo futuro, con il progressivo ritiro del pubblico a vantaggio del privato e di una scuola “classista” a pagamento, non accessibile per tutte le tasche, nonché soggetto ad un’inevitabile “regionalizzazione” con l’avanzare di quel federalismo, fonte di iniquità, architettato ad uso e consumo leghista, il quale avrà come primo effetto quello di accentuare gli squilibri fra le diverse aree del paese, anche sul cruciale terreno della scuola e della formazione dei giovani.In sostanza, per tagliare drasticamente le risorse pubbliche da impiegare a vantaggio della collettività, per far cassa, per ridurre significativamente “il peso” della pubblica amministrazione in accordo con gli interessi globalizzanti, oltre a privatizzare tutto il possibile, compresa l’acqua, si rinuncia a quella che sembrava una storica conquista: l’istruzione fino ai più alti gradi della scuola a tutti garantita.Se negli ultimi anni, attraversati dalla crisi economica, sociale ed etica italiana, abbiamo sentito parlare i politici di sistema della destra e della sinistra, in termini retorici e generici, della necessità di sostenere l’università, la formazione dei giovani e l’ormai mitica ricerca, al fine di evitare massicce “fughe di cervelli” e un ulteriore, conseguente scadimento scientifico, tecnologico ed anche produttivo del paese, l’esito concreto è stato ben diverso, dato che i continui tagli di risorse alla pubblica istruzione – e l’inevitabile aggravio dei costi per studenti e famiglie – non nascono di certo con il IV governo Berlusconi, ma costituiscono una realtà e una prassi ormai ultra-decennali.Si va verso una situazione disastrosa, grazie alla riforma Gelmini e ai ricordati tagli, con l’espulsione di decine di migliaia di precari – i quali ultimi sono fondamentali per il funzionamento delle università pubbliche – e il blocco delle nuove assunzioni, con la prospettiva della chiusura di alcune migliaia di scuole, forse quattromila, condannate dalla peggior logica economicista, con i problemi che nelle aree più povere del paese la stretta cagionerà alla realizzazione del tempo pieno e lo scadimento inevitabile di molte iniziative didattiche, legate non soltanto alla disponibilità di risorse, ma anche alla qualità degli insegnanti, alle loro possibilità di aggiornamento professionale e al loro numero.E’ ovvio a tutti che questa riforma, realizzata a colpi di tagli e decreti ma ufficialmente ammantata di buone intenzioni, quasi da italietta di altri tempi, che ha come simboli decisamente ipocriti il ritorno del grembiulino e del deamicisiano maestro unico – o meglio “prevalente”, come ha recentemente ricordato lo stesso Berlusconi alla giovane ministra Mariastella Gelmini, la quale ha prestato il suo nome e la sua faccia per questa operazione – non nasce dalla volontà di razionalizzare il sistema scolastico e di aprire nuove prospettive ai giovani, ma bensì da una volontà privatizzatrice e dall’applicazione vincolante in un contesto globale, o quanto meno occidentale, del modello globalizzante in salsa americana dell’economia dei servizi, che ci ha regalato la deindustrializzazione e la perdita di know-how, le dure regole di Maastricht, l’euro e la BCE, la precarizzazione del lavoro e la ri-proletarizzazione dei ceti medi, e infine il crack finanziario statunitense, i cui effetti sono estesi a tutti i mercati e falcidieranno ancor di più il sociale in molti paesi, non ultimo il nostro.Infatti, possiamo ben dire che questa riforma è imposta dall’esterno e dall’alto e passa sopra le teste di tutti, anche di quel Tremonti, attuale super ministro economico e personaggio chiave della maggioranza di governo, il quale a suo tempo ha scritto e pubblicato La paura e la speranza proprio per metterci in guardia contro i rischi della globalizzazione, e che i tagli al settore pubblico li predispone in prima persona.L’ottica nella quale dobbiamo porci, dunque, per comprendere i veri motivi e il vero significato della così detta riforma Gelmini, è essenzialmente ed ostinatamente ancora quella neoliberista – nonostante il default della dimensione finanziaria e il fallimento del modello americanizzante dell’economia dei servizi – ed è per altro la stessa che ha informato ed informa le politiche monetarie e dei tassi della Banca Centrale Europea, volte essenzialmente a sostenere il dollaro, l’economia americana più che quella europea, e a contribuire, in questo momento difficile, al contenimento quantitativo del debito statunitense.Il problema, naturalmente, non è un’esclusiva dell’Italia, se si pensa che in sede di Unione Europea la deroga alle bronzee regole comunitarie, per dare un po’ di ossigeno ai malconci sistemi economici di molti fra i paesi membri, è stata puramente simbolica – quasi una presa in giro ... – con l'ammissione a denti stretti di uno "sfondamento" di qualche decimale appena del limite del tre per cento, concesso per il deficit, e ciò non potrà non significare, in specie nei paesi più deboli e maggiormente in difficoltà, contrazione dei servizi pubblici e disoccupazione generalizzata.A queste esigenze è stato costretto a sottomettersi, inevitabilmente, lo stesso Giulio Tremonti, non potendo andar contro gli interessi dei potentati che con tutta evidenza dirigono le danze e contraddicendo, in tal modo, l’atteggiamento vagamente “ribellista” e moderatamente anti-globalista che lo ha caratterizzato nell’ultima campagna elettorale.Così e solo così si spiega il “pronto soccorso” immediatamente garantito al sistema bancario in difficoltà, con la promessa di impegnare allo scopo il denaro pubblico, ma senza procedere a stabili nazionalizzazioni di istituti di credito in difficoltà, così si spiegano gli interventi repressivi e talora vagamente grotteschi in ordine al pubblico impiego [pensiamo all’idea dei tornelli anti-fannulloni] del ministro per la funzione pubblica e l’innovazione Renato Brunetta, volti più alla riduzione del personale e dei costi della pubblica amministrazione che ad accrescerne efficienza e efficacia, con beneficio per tutta la collettività, e dentro questo quadro di dipendenza della politica dell’attuale governo italiano dai Signori della mondializzazione si può spiegare anche la brutta e discussa riforma Gelmini.Per essere equanime si deve riconoscere che la tendenza alla progressiva dismissione del pubblico, a vantaggio del privato e del grande capitale finanziario, ha largamente interessato anche i precedenti governi, ma il violento attacco al modello di istruzione in essere, e quindi allo stesso diritto allo studio sancito dalla costituzione, è almeno per ora una spiacevole peculiarità italiana, indotta dall’azione di questo esecutivo.Per concludere usando le parole del “tesoriere” Tremonti, vero ispiratore della riforma della pubblica istruzione in Italia, è ormai drammaticamente certo che il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro ... Lo sarà anche per la scuola e la formazione dei giovani, date le premesse.