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Ritorno alla madre terra

di Mario Tozzi - 27/10/2008

Quando arrivò in India nel 1905, Sir Albert Howard (agronomo della Real Casa) era convinto di obbligare i sudditi orientali di Sua Maestà a obbedire alla legge dell’aratro e dei fertilizzanti chimici per portarli sulla via maestra dell’agricoltura industriale. Ci mise poco a scoprire che i veri selvaggi erano i suoi concittadini britannici e che, invece, le pratiche agricole orientali avevano superato a pieni voti l’esame della natura: le fattorie cinesi o indiane erano permanenti almeno quanto la foresta primaria o la prateria originaria. E il tutto senza aratro e senza alcun tipo di ammendante. Allora riconsiderò gli apparenti successi dell’agricoltura occidentale, che era stata in realtà un fallimento perché non aveva saputo mantenere la fertilità del suolo, principio fondamentale cui le pratiche orientali si attenevano scrupolosamente: raccolti misti, promiscuità delle messi, mescolanze di cereali e legumi, nessuna monocoltura, recupero delle deiezioni animali, nessun fertilizzante, niente aratro e grande equilibrio fra bestiame e prodotti agricoli.

La «madre terra - scrive Howard -, privata dei suoi diritti di concimazione, è in rivolta: la terra scende in sciopero; la fertilità del suolo decresce e aumentano le malattie»; inoltre l’erosione del suolo minaccia campi e colture. A un secolo di distanza è difficile dargli torto anche da un punto di vista del gusto: con i concimi artificiali si ottengono grandi rese quantitative, ma la qualità è peggiorata in fatto di sapore, qualità e capacità di conservarsi. Le verdure coltivate con NPK (azoto, fosforo e potassio) sono dure, coriacee e fibrose, e solo i congelatori ne permettono una resistenza oltre le regole naturali.

La ricchezza della vita vegetale è andata perduta negli ultimi decenni: un tempo esistevano decine di specie di pesche o di frumento e i frutti di un albero erano diversi da quelli di un altro. Erano spesso «brutti», ma nessuno ne metterebbe in discussione il sapore, di gran lunga superiore a quello delle stagioni scialbe di oggi: non più di cinque qualità di mele, due di uva, forse sei di pere caratterizzano le nostre tavole ed è diventato difficile perfino distinguerle. Le esigenze di globalizzazione industriale hanno imposto una standardizzazione del prodotto che non risponde ad alcuna logica naturale, che riduce il gusto e impoverisce lo spirito, mentre, ovviamente, arricchisce i soliti portafogli. 

Il recupero dei prodotti locali e l’opposizione di molte comunità agricole alla globalizzazione hanno effettivamente segnato un’inversione di tendenza di cui «Terra Madre» è un segno robusto: recupero della biodiversità attraverso pratiche biologiche, opposizione agli Ogm, valorizzazione del prodotto locale. Uomini e donne legati al mondo industriale hanno cominciato a ritornare alle campagne riconvertendo proprietà e denari: producono vini di qualità, fanno formaggi o semplicemente ritornano agli orti per poter mangiare quello che coltivano con le proprie mani. Un’intera comunità (i damanhuriani) è tornata alla Terra nel Piemonte industriale del terzo millennio. Al di là della moda, di cui pure si cominciano a risentire gli effetti, sembra un necessità genuina di ritorno alle origini, a un mondo meno sofisticato: di più, sembra l’ultima forma di resistenza all’omologazione più subdola, quella per cui puoi trovare lo stesso hamburger da New York a Sydney.

Sperando, però, che anche qui non si annidi l’inganno: Colonnata è un paesino di 250 anime in Toscana, con un piccolo territorio e un numero limitato di maiali: come è possibile che il lardo di Colonnata si ritrovi in tutta la penisola? Per non parlare del Brunello di Montalcino: quel vitigno, quel clima e soprattutto quel territorio sono circoscritti: non si possono produrre altre bottiglie oltre a quelle già in commercio, non ci può essere espansione quantitativa per quel mercato. Altrimenti si arriva al paradosso del prodotto locale che torna a essere globale, fatto che non è semplicemente possibile per definizione: bisogna andarselo a cercare nel posto d’origine e nella stagione giusta, come un tempo, abbandonando l’idea che sia più intelligente un Natale con ciliegie cilene o manghi sudafricani. Ma questo è più difficile da comprendere.