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L'Analisi di Carl Schmitt e la Tirannia dei valori

di Mario Andrea Rigoni - 28/10/2008

 

Da molto, ma oggi più che mai, corrono sulla bocca di tutti il lamento che «non vi sono più valori» e l' auspicio che si possa «tornare ai valori». Ma a chi abbia un orecchio un po' fine la parola «valore» suona come una moneta di dubbio valore. Non dovrebbe insospettire già il semplice fatto che essa abbia un' origine recente e che ciò che designa fosse ignoto alla classicità, così come al Medio Evo e al Rinascimento? Un saggio di Carl Schmitt, diviso in due parti di tempi e modalità diversi (1960 e 1967), già apparso in italiano e adesso ritradotto da Giovanni Gurisatti per Adelphi col documentatissimo commento di Franco Volpi, getta luce sulla «tirannia dei valori» (l' espressione deriva dall' Etica di Nicolai Hartmann) e sulle sue disastrose conseguenze in campo giuridico, politico e storico. La principale caratteristica del «valore» è infatti quella di testimoniare la scomparsa dell' «essere», la riduzione del mondo e dell' esperienza al rango di «oggetto» e di «merce», la nascita funesta dell' ideologia, delle guerre di religione, del perpetuo bellum omnium contra omnes. Il paradosso è che la filosofia dei valori, sorta come reazione e risposta alla crisi nichilistica del XIX secolo, abbia finito coll' annientare proprio lo scopo al quale mirava. È evidente quanto l' analisi di Schmitt debba alla filosofia di Heidegger, che scriveva nella Lettera sull' umanismo (1947): «Se si caratterizza qualcosa come valore, ciò che così viene valutato viene privato della sua dignità. Proclamare per soprappiù Dio come "il valore più alto" significa degradare l' essenza di Dio (...) Il pensare per valori, qui come altrove, è la più grande bestemmia che si possa pensare contro l' essere». La libertà dai valori è dunque una conquista necessaria: ma è difficile dire in concreto che cosa dovrà o potrà prendere il loro posto.