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Elogio della bicicletta. Ivan Illich

di Marco Managò - 02/11/2008

 

Il titolo del volume pubblicato da Bollati Boringhieri Editore, opera del filosofo e antropologo Ivan Illich (nella foto) deceduto nel 2002, non deve ingannare. Più che di vera e propria elegia della bicicletta, si deve parlare, soprattutto per la prima parte del libro, di un’interessantissima valutazione del predominio sociale delle ricchezze energetiche e della disparità sociale che, la velocità e i mezzi di trasporto, generano tra le fasce sociali. Da sottolineare, inoltre, come la prima versione del testo risalga addirittura al 1973, in piena crisi energetica; come sia attuale e, purtroppo, assai lungimirante.
Discorrere di crisi energetica non significa altro che proseguire nell’opera di asservimento dell’uomo alle macchine, agli “schiavi energetici”, come li definisce l’autore. Anche lo sviluppo ipotetico di una quantità enorme di energia pulita, non placherebbe la sete energetica che rende automi gli individui e li conduce verso un illusorio progresso.
Scrive Illich: “Una volta oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell’iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall’educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia. Questo quantum segna il limite dell’ordine sociale”.
Ingozzare la società di energia non significa condurla al benessere. Molte volte, il lamentarsi di crisi energetica presuppone la legittimazione a nuove misure di prelievo fiscale, presentate come necessarie per la ricerca di ulteriori processi. Tale “controricerca”, è così battezzata dall’autore per il carattere “anti” rispetto all’umana causa.
La dipendenza assoluta dal trasporto, inteso come movimento per effetto di agenti ausiliari e non propri (come per il transito), fa divenire palesi, spiega Illich, “… le contraddizioni tra la giustizia sociale e la potenza motorizzata, tra il movimento efficace e l’alta velocità, tra la libertà personale e l’itinerario preordinato”.
Con notevole efficacia, Illich scrive, inoltre: “… i cittadini diventano consumatori di trasporto nel giro dell’oca quotidiano che li riporta a casa…”.
L’illusione di guadagnar tempo, attraverso montagne di cavalli vapore, non maschera una reale e insoddisfatta penuria di tempo, diversamente gestita da società industrializzate e altre meno avanzate tecnologicamente. A tal proposito vale la pena citare un’altra efficace precisazione dell’autore: “Ciò che distingue il traffico dei Paesi ricchi da quello dei Paesi poveri, per quanto riguarda i più, non è un maggior chilometraggio per ogni ora di vita, ma l’obbligo di consumare in forti dosi l’energia confezionata e disugualmente distribuita dall’industria del trasporto”.
In questa ingiustizia sociale della mobilità e dell’accesso all’energia, occorre evidenziare quanto la geografia del territorio sia modificata dalle esigenze dell’industria del trasporto che, paradossalmente, isola con delle autostrade, i campi che un tempo il contadino raggiungeva a piedi; oppure, attraverso la disponibilità di un’ambulanza, spinge gli uomini a risiedere lontano da quegli ospedali ove un tempo si recava a piedi e celermente. Allontana, in realtà, ciò che pretende di avvicinare attraverso infrastrutture e mezzi meccanici, di energia e potenza.
L’esigenza di guadagnar tempo, attraverso veicoli sempre più veloci e un’auspicabile ottimizzazione delle infrastrutture, conduce il singolo lontano dall’autentica valorizzazione del proprio corpo e delle relative capacità motorie, assimilandolo sempre più a un consumatore di tempo, energia e trasporto anziché libero cittadino. Un cliente che vuole prodotti migliori e non la liberazione da tale consumo.
Il tempo stesso, oggetto della capitalizzazione esasperata, si definisce in termini di “mercato” quali: spendere, risparmiare, investire, sprecare, impiegare.
La disuguaglianza nell’accesso ai mezzi di trasporto conduce all’analoga disparità nella gestione del tempo, ottimizzando quello di una minoranza a danno di una maggioranza.
Il tema centrale del volume, indicato sulla falsariga di citazioni alla Proudhon, si esprime con tale sublime percezione da parte di Illich: “Oltre una velocità critica, nessuno può risparmiare tempo senza costringere altri a perderlo. Colui che pretende un posto su un veicolo più rapido sostiene di fatto che il proprio tempo vale più di quello del passeggero di un veicolo più lento. Oltre una certa velocità, i passeggeri diventano consumatori del tempo altrui…”.
Il fatto che non ci siano lavori, studi e statistiche concernenti la contabilità del tempo sociale, soprattutto nell’epoca in cui è stato elaborato l’abbozzo di questo scritto, non impedisce all’autore di valutare, nella misura dei 25 chilometri orari, il limite oltre il quale si genera penuria di tempo e correlativa frustrazione umana; di uomini trasportati nell’illusione che la maggior velocità si traduca in un benessere, mentre molte delle loro ore lavorative sono necessarie per pagare il solo trasporto che, merce da vendere ai consumatori, come tutte le merci industriali è implicitamente scarsa.
Tra le varie invenzioni che hanno condizionato enormemente la storia, vanno citate quella antica della ruota e, nel Medioevo, della bardatura e ferratura del cavallo, ottenendo colture più ingenti, in tempi più rapidi e in luoghi inviolati più a Nord (spostando quindi il potere nelle mani dei paesi dell’Europa centro-settentrionale). Recente è l’invenzione del cuscinetto a sfera, uno spartiacque tra la duplice utilizzazione, nell’industria automobilistica e in quella ciclistica, tra la velocità e il rispetto per l’uomo. Discriminante sociopolitica moderna, la velocità delinea due direttrici fondamentali di sviluppo delle libertà umane.
Si sviluppa, nel testo, il dovuto elogio alla bicicletta e alle sue prerogative ambientali, di basso costo fisso e corrente, di limitato spazio e di enorme creatività, che non genera aspettative e frontiere irraggiungibili.
L’unica alternativa possibile è la riappropriazione dello spazio, in un contesto misurato del consumo energetico, a cavallo tra carenza e opulenza, ove, per dirla alla Illich, sia chiara “una soglia socialmente critica della quantità di energia incorporata in una merce”.
Molto interessante anche la postfazione di Franco La Cecla che, tra ironia e paradosso, esaspera il rapporto maniacale e servile dell’uomo con il proprio mezzo automobilistico; una sorta di protesi in luogo dell’antico antropocentrismo sublimato dalla padronanza umana di veicoli a trazione animale. Per questo, l’automobile svolge una mera (e inutile) funzione estetica, di certificazione del potere e del privilegio, quando non consente il risparmio di tempo che tanto si prefissava di realizzare. Paradossalmente, per gestione oculata delle infrastrutture, individui di comunità che possiedono un assetto veicolare limitato, riescono comunque a raggiungere i luoghi di cui abbisognano con altri mezzi e con tempi non lunghi. Nei paesi superindustrializzati, tali pedoni sono costretti a vivacchiare nelle loro riserve, le isole pedonali. La Cecla definisce, efficacemente, l’automobile come un ossimoro.
Complice la miopia di amministratori, urbanisti e architetti, la poltrona semovente su cui l’uomo si insedia, e al contempo si sfoggia, tende ad aumentare quelle distanze che ha cercato di abbreviare.
La Cecla offre un altro interessantissimo concetto: “Non è un caso che le auto oggi assomiglino sempre di più ad auto di diplomatici o a veicoli da guerra. Presuppongono un paesaggio di paesi bombardati da attraversare con vetri fumè. L’auto è oggi il disprezzo del mondo là fuori, il poterne chiaramente fare a meno”.
Soltanto la bicicletta è in grado di colmare il deficit di democraticità veicolare che il mondo pretende.
Illich lo enuncia in maniera arguta e, attraverso l’elogio alla bicicletta, richiama l’attenzione su un fenomeno sconosciuto di disparità sociale, senza annoiare il lettore con ovvi, ipocriti, scontati e “verdi” richiami alla tutela ambientale.