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Forse Prezzolini fu il solo a comprendere e Del Noce fu il solo a capire che aveva compreso

di Francesco Lamendola - 03/11/2008


Da quando Marx ha proclamato che i filosofi devono smetterla di ragionare sul mondo, ma rimboccarsi le maniche per cambiarlo, in tutto il pensiero occidentale si è verificato un gigantesco fenomeno di "fuga in avanti".
Da quel momento non c'è stata più pace: gli intellettuali, volendo farsi perdonare secoli di passività e di distacco dai problemi concreti della vita, si sono lanciati in una corsa furiosa per superarsi continuamente in fatto di impegno ideologico, militanza politica, impazienza rivoluzionaria. Verso destra (fascismo) o verso sinistra (comunismo), l'importante era andare sempre più in là; e quelli che meno erano disposti ad uscire dal chiuso e confortevole mondo delle loro cattedre universitarie, delle direzioni dei giornali o dai posti in prima fila nei salotti letterari, proprio quelli si sono scalmanati più di tutti gli altri, lanciando lo slogan dell'armiamoci e partite.
Costoro, infatti, avevano una doppia colpa da farsi perdonare: quella, comune alla loro razza, di una secolare evasione dai problemi reali della società; e quella, loro specifica, di scarsa propensione a sporcarsi le mani scendendo in strada e affrontando la vita, come tutti gli altri che lavorano, producono, rischiano.
È stato, lo ripetiamo, un fenomeno mondiale, sincronico - del resto - alla diffusione della società di massa, che ne è lo scenario tipico e inconfondibile; in Italia, però, ha assunto caratteri peculiari. Da noi, più che altrove, esisteva una tradizione di distacco fra la cultura delle élites e quella delle masse; dunque, il tempo da recuperare era doppio o triplo che in altri Paesi, e la casta degli intellettuali nostrani (perché di una autentica casta si trattava e si tratta) aveva molte più cose da farsi perdonare.
Ai primi del Novecento, poi, questo ribollimento generale si è incontrato e si è fuso con la frenesia delle Avanguardie, anch'esse impegnate a scavalcarsi l'una con l'altra in senso antitradizionale, sovversivo e rivoluzionario; sicché le due spinte si sono sommate, specie nel Futurismo, con il risultato di produrre la nascita fulminea di un movimento artistico e letterario la cui ragion d'essere consisteva nella rabbia iconoclasta contro i musei, le biblioteche, la grammatica, la sintassi, la punteggiatura, la pace, l'umanitarismo, la donna, il sonno e il riposo; in breve, una sorta di crisi epilettica o di delirium tremens per cervelli vuoti e sovreccitati dalla noia.
Si assiste così allo spettacolo grottesco, e un tantino repellente, di un Filippo Tommaso Marinetti che, fra un duello e l'altro, compone poesie per celebrare la bellezza incomparabile degli intestini fumanti sparsi sui campi di battaglia, mentre sentenzia che la guerra è la sola igiene del mondo e di un pubblico giovanile (e meno) che va in visibilio davanti a simili sconce insulsaggini; mentre il loro autore, dismessi i panni del dinamitardo sanguinario, indossa con la massima disinvoltura il doppiopetto di accademico d'Italia.
La scoppio della prima guerra mondiale e, poi, delle due rivoluzioni russe del 1917 (la prima delle quali, non si sa perché, è stata completamente dimenticata, pur essendo stata assai più "popolare" dell'altra, quella di Ottobre), offre la saldatura ideale fra l'ala "letteraria" e quella "politica" degli intellettuali militanti in cerca di legittimazione civile. Se la guerra, come teorizzato da Marinetti, è uno spettacolo estetico, allora va da sé che manifestare a favore della guerra presenta il doppio vantaggio di rompere il sonno degli intellettuali poltroni e panciafichisti e di realizzare quella unità fra arte e vita che già i decadenti avevano postulato, dal Dorian Gray di Wilde al Des Esseintes di  Huysmans, passando per l'Andrea Sperelli di D'Annunzio.
Non vogliamo immiserire e ridicolizzare le ragioni dell'interventismo, che fu un fenomeno europeo veramente di massa; ma è certo che vi fu anche questa componente: quella di una pletora di scrittori, giornalisti, professori, che vollero lavare per sempre l'onta di essere intellettuali da salotto e mostrare i muscoli anche loro; meglio ancora, poi, se si trattava di mostrarli soltanto e di spingere al macello i loro giovani lettori e i loro ingenui e generosi studenti.
Se la borghesia aveva voluto la guerra per «cementare la nazione» (e prevenire la rivoluzione, dopo il campanello d'allarme della "settimana rossa"), alla fine si trovò fra le mani, nonostante la vittoria, una società ancor più disgregata e uno Stato ancor più debole e screditato che nel 1914; e, quindi, un pericolo di sovversione e di rivoluzione ancora più grande, specie dopo il temibile esempio dell'Ottobre in Russia.
A quel punto i nodi vennero al pettine tutti in una volta; e la dissoluzione morale e politica della società italiana fu "congelata" dal ventennio della dittatura fascista, ma solo per esplodere a ritmo accelerato nel secondo dopoguerra. Lo stato italiano è morto l'8 settembre 1943 e non si è più ripreso, se non nella facciata; la società continua lentamente a putrefarsi, mentre intere regioni sono in balia della malavita organizzata, vero e proprio antistato mafioso.
E gli intellettuali, che cosa hanno fatto in tutto questo tempo? Dapprima si sono ferocemente divisi davanti alla crisi del primo dopoguerra; poi si sono combattuti a morte nella guerra civile, e non per modo di dire: si veda, ad esempio, l'ordine di far fuori Giovanni Gentile impartito, sia pure con parole in codice, da Concetto Marchesi; o la fucilazione degli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida da parte dei partigiani. Finita la guerra e caduto definitivamente il fascismo, quegli stessi baldi intellettuali che ne avevano cantato le lodi si sono scoperti una veemente indignazione antifascista (i "sacri furori" della «Conversazione in Sicilia» di Vittorini) e tutti, quasi dal primo all'ultimo, sono passati armi e bagagli nel campo dell'antifascismo militante, a cominciare da Curzio Malaparte, Luigi Barzini e Indro Montanelli.
Tutti indignati nel 1915 (contro i vili neutralisti, prezzolati dall'oro germanico); tutti indignati nel 1945 (contro il fascismo e le sue turpitudini, ma dopo averlo incensato per vent'anni); tutti indignati nel 1968 (contro l'immobilismo della società italiana, in cui pure avevano sguazzato e costruito le loro carriere); tutti indignati nel 1992 (contro Tangentopoli e la partitocrazia); tutti indignati nel 1994 (contro il clientelismo e l'assistenzialismo della sinistra); tutti indignati nel 2006 (contro l'arroganza e il dilettantismo della destra); e di nuovo indignati nel 2008 (vedi alla penultima voce)… Sempre sacrosantamente indignati; sempre titanicamente soli e coraggiosi; sempre con le carte in regola per far la voce grossa contro degenerazioni, abusi, privilegi e pastoie di un Palazzo  arteriosclerotico, disonesto e pasticcione. E, sempre, rigorosamente impegnati e militanti; sempre interpreti e paladini della sete di giustizia della società civile contro gli abusi, gli sprechi e i tartufismi di un Palazzo con cui, ovviamente, loro non hanno nulla da spartire…

In questo spettacolo desolante, un figura si staglia con una sua dignità e una sua compostezza, attraverso le convulsioni dell'Italia novecentesca: quella di Giuseppe Prezzolini.
Fu amico di Papini e di Croce, di Gobetti e di Mussolini; tenne la schiena dritta davanti a tutti; e non rinnegò le sue amicizie quando ragioni di opportunità lo avrebbero consigliato: non insultò Gobetti dopo la sua fine e non sputò sul cadavere di Mussolini a Piazzale Loreto.
La sua posizione culturale, fra "Il Leonardo" e "La Voce" e, poi, tra fascismo e antifascismo, fu giudicata da molti, nel migliore dei casi, «ambigua», mentre era semplicemente la posizione di un uomo libero, che sapeva vedere più lontano degli altri e che cercava le ragioni della concordia e della collaborazione anche, quando gli odi più imperversavano e dividevano gli animi, togliendo la serenità di giudizio anche ai migliori.
Nella stagione dell'odio e dello scontro frontale, Prezzolini ha cercato di comprendere le ragioni di entrambi, fascisti e antifascisti; e, dopo la caduta del regime, si è adoperato perché ne venisse fatto un «necrologio onesto»: tanto è bastato perché egli fosse accusato di ondeggiamento ideologico e di sostanziale «ambiguità», se non, addirittura, di opportunismo.
Invece, forse, Prezzolini aveva saputo vedere più lontano di tanti altri; aveva saputo comprendere sia le ragioni storiche che avevano determinato il successo del fascismo e il sostanziale consenso del popolo italiano, sia quelle che ne avevano determinato la rovinosa caduta e la fine ingloriosa. E basterebbe questo per rendergli giustizia sul piano etico e intellettuale.
Pure, Prezzolini non è stato capito.
Sono stati capiti e "perdonati" tanti altri, compresi alcuni che aderirono apertamente al regime (salvo poi abiurare solennemente, cospargendosi il capo di cenere); lui, no. La "colpa" che non gli è mai stata perdonata: quella di non essersi schierato con decisione; quella di non aver demonizzato la parte avversa, rifiutandosi di prenderne in considerazioni le ragioni.
Horribile dictu, durante il regime egli - che si era stabilito in America - rientrava in Italia abbastanza regolarmente, rifiutando di vestire i pani dell'emigrato iriducibile; e non disdegnava di parlare con Mussolini, lui che aveva stimato Gobetti…

In tanta mediocrità intellettuale, in tanto grigiore civile spicca la posizione del filosofo Augusto Del Noce, il quale - a quanto ci risulta - è stato uno dei pochissimi, forse l'unico, a rendere pienamente giustizia a questo grande italiano, schivo e sdegnoso, ma non arcigno, che conservò la sua bella giovinezza (era nato a Perugia nel 1882 e morì centenario, a Lugano, nel 1982) in un modo che apparirebbe quasi inspiegabile, se davvero egli fosse stato - come dissero i i soliti Soloni e moralisti da quattro soldi - il simbolo vivente di una certa fiacchezza, di una certa senile stanchezza della classe colta italiana, incapace di perseverare nei suoi propositi di rinnovamento e sempre propensa a sedersi pigramente a metà strada, paga dei primi risultati raggiunti.
Ha scritto Del Noce nel suoi libro «Fascismo e antifascismo. Errori della cultura» (Milano, Leonardo, 1995, pp. 195-201):

«Possiamo vedere  nel "Manifesto dei conservatori" la conclusione della polemica con Gobetti iniziata negli anni '20, che può trovare la sua piena espressione soltanto nella critica della mentalità rivoluzionaria.
Vediamo ora come Prezzolini vi è giunto. Nel 1950 fu sollecitato da Longanesi, che combatteva una campagna  scetticheggiante  sulle tracce ideali (credo che questa sia l'interpretazione esatta) di Adriano Tilgher, contro la mentalità azionista e comunista  e contro la versione antifascista  del conformismo, a far ritorno  nella cultura italiana. Comparve allora un Prezzolini nuovo e inatteso, che chiedeva si ponesse fine  all'interpretazione demonologica del fascismo per passare al giudizio storico , e ciò "senza concedere nulla al fascismo".  Si può dire che, dopo il 1960, questo indirizzo si è imposto, per ostacoli che ancora incontri. Ma allora le cose erano del tutto diverse; e mi sia lecito dire che lo sa chi adesso scrive: quanti consigli (sia concesso l'eufemismo) a non mettersi per questa via, o ostacoli alla pubblicazione, o accuse di reazionario! Così che solo nel 1959 potei pubblicare una semiclandestina rivista, "L'Ordine Civile", uno scritto sull'interpretazione storica del fascismo, che venne poi nelle mani dell'attentissimo storico Nolte,  e fu da lui tradotto in tedesco. L'argomento che  generalmente veniva addotto era che in linea di diritto questa ricerca  era legittima, ma che dovesse essere rinviata a un tempo più lontano, quando le passioni fossero placate e non vi fossero più pericoli di "rigurgiti fascisti"; e che non deponeva bene sul carattere di chi lo proponeva, l'essere invogliato l'essere invogliato di occuparsi di un argomento che a spiriti nobili doveva ripugnare; e che tale sforzo per comprendere, e quindi in qualche maniera per giustificare, minacciava di allentare quella tensione antifascista  in cui era il segno primo della moralità, quello a cui gli altri potevano venir ricondotti.  Ma prescindiamo, nel seguire i ricordi, da tanti ostacoli.  A me appariva come il passaggio a questo giudizio storico fosse il problema culturale e politico più importante,  re che solo procedendo da esso "si potesse salvare la libertà  da nuovi pericolo totalitari"; ed era quasi soltanto nella lettura di Prezzolini che trovavo, all'inizio, conforto in questa idea.
Pensavo, e penso, questo, perché in conseguenza di simile mancanza di giudizio storico, avviene che il fascismo sia cangiato in una sorta di categoria metastorica o di principio metafisico; ora identificato con l'ultimo stadio della borghesia, ora, in Occidente soprattutto, con lo spirito autoritario e repressivo. Sempre con un'essenza del male  che, nei tempi recenti, si sarebbe manifestata allo stadio pieno. Si era, insomma, al tema delle "due città", ma completamente secolarizzato; in maniera che dipendesse dall'uomo il passaggio dalla città del peccato alla città di Dio. Ma che altro è il totalitarismo se non questa secolarizzazione del tema delle "due città"? Il passaggio alla città libera dai contrasti dovrebbe avvenire per opera dell'uomo. Una volta eliminato il capitalismo… una volta eliminata la razza giudaica… Una volta eliminato lo spirito autoritario  e repressivo. Non importa guardare ai totalitarismi  ormai spenti. Il pericolo totalitario dipende oggi da questa entificazione del fascismo a principio del male; e il problema della difesa della libertà coincide, per l'Europa occidentale almeno,  con il passaggio dalla veduta gnostico.-manichea  a una veduta storica del fascismo. A me pare che il grande merito di Prezzolini stia nell'avere inteso questo; e che , in nome dell'amore della libertà (che certo include l'opposizione al fascismo, ma non si identifica in essa) si debba esser grati al Prezzolini di quest'ultimo periodo assai più che per il "Leonardo" o per la stessa "Voce" e, a tanto maggior ragione,  per il suo interventismo. Col che non si fa che corrispondere a quel che egli pensa di se stesso,  perché la sua autocritica degli ultimi vent'anni lo ha portato  ad abbandonare le varie forme che dipendono da un solo errore , la sostituzione della storia a Dio: il pensiero rivoluzionario, l'idealismo militante de "La voce", il futurismo, che, secondo un'espressione che fu usata da Gobetti, già caratterizzava il "Leonardo".
Torniamo alla domanda proposta all'inizio. Credo che non possa ormai essere più posta in dubbio  la coerenza del pensiero di Prezzolini nell'intero suo sviluppo; e che risulti che il suo punto più problematico debba venir ravvisato in questa impossibilità, dal punto di vista dell'idealismo militante de "La Voce", scegliere tra fascismo e antifascismo. Il che importa:
1) la reciproca impossibilità di fascismo e antifascismo di passare a un giudizio storico sull'avversario, con le conseguenze che si son dette;
2) la necessità di procedere al di là di fascismo e antifascismo, che può essere realizzata soltanto attraverso la critica di quell'orizzonte culturale comune che condiziona entrambi.
Ne siamo ancora all'interno? Molta acqua è passata sotto i ponti dal 1903 a oggi,; ma come possiamo dimenticare che a quello stesso anno risale la nascita del marx-leninismo con "Che fare?", quindi della politica comunista di questo secolo; e che "La Critica" segue alla più importante polemica sul marxismo teorico che si fosse sino allora svolta in Occidente; in modo da poter dire che alla liquidazione del marxismo occidentale compiuta da Croce, abbia corrisposto in Lenin la sua riaffermazione orientale? Bisogna quindi raffrontare sempre questi due orizzonti.
Chi pensa che ne siamo lontani è tratto in inganno, o volutamente giuoca  sul termine "idealismo" per poi argomentare così: dopo il 1930 si è iniziato un processo di distacco, lento ma irreversibile, dalla cultura idealistica; dopo il 1950 pressoché tutti gli intellettuali l'avrebbero abbandonata, come ancora romantica; e si sarebbero divisi, i laici, tra neomarxisti e neoilluministi per dar poi luogo a varie sottospecie.  In realtà, il tratto caratteristico di questa cultura è un laicismo che esclude così naturalismo  come soprannaturalismo, e insieme intende differenziarsi dalla forma in cui questa esclusione è pronunziata dal marxismo. L'idealismo non ne fu che una tappa a cui successe, nello stesso Croce, lo storicismo. Ponendoci da questo punto di vista, vediamo che le nuove filosofie sono state recepite in Italia attraverso disposizioni intellettuali che dipendono dall'orizzonte che si è detto. Così le posizioni neomarxiste lo sono state, secondo antecedenti forme di pensiero di origine crociana e gentiliana; così il mosaico neoilluminiusta si inserisce nello svolgimento dell'incontro con l'illuminismo  dell'idealista Gobetti.
Dunque per l'esigenza giustissima asserita da Gobetti di andar oltre la distinzione di fascismo e antifascismo occorre "criticare questo orizzonte". Perché l'antifascismo di tipo azionista si trova obbligato a questa entificazione del fascismo in principio del male (nella sua forma più recente è costretto ad accogliere quella identificazione col fascismo con l'emergere allo stato puro dello spirito autoritario o repressivo, nozione mitica, se altra ce ne fu, o punto limite di quel mitologismo che è proprio dello scientismo).  Questa entificazione coincide con l'impossibilità di del passaggio a un giudizio, conseguenza inevitabile dati che l'antifascismo di questo tipo si trova subordinato al fascismo nell'opposizione. Talmente subordinato che al suo inizio, e quando pretendeva di porsi come nuova posizione politica, non riuscì neppure a trovare un nuovo termine per definirsi: e riesumò la vecchia denominazione risorgimentale di partito di azione o ricorse alla giustapposizione dei termini di liberalismo e socialismo (quel che Croce chiamò "l'ircocervo").
Si può averne conferma indiretta da uno scritto del filosofo politico che rappresenta l'ultimo anello di quella "linea torinese" che ha in Gobetti il suo inizio: Norberto Bobbio. Si tratta di uno scritto esemplare per coerenza e rigore scientifico; ma che "appunto per ciò" lascia apparire chiara la possibilità di conclusioni diverse da quelle a cui arriva il suo autore.
Scrive Bobbio: "L'unica ideologia nata in funzione  della lotta antifascista e che la fine del fascismo, invece di attuare, dissolse, fu quella di diversi gruppi di intellettuali che da diverse parti  confluirono nel partito d'azione. Poiché il fascismo era, in quanto dittatura, antiliberale, e, in quanto  regime della classe borghese, antisocialista, l'antifascismo integrale non poteva essere o soltanto liberale o soltanto socialista, ma insieme liberale e socialista. Negazione del fascismo che era stato negazione di liberalismo e di socialismo, voleva dire affermazione contemporanea di entrambi. Il rinnovamento totale non poteva venire che da un'ideologia antifascista totale. Poiché il rinnovamento totale comportava una trasformazione rivoluzionaria, la nuova ideologia si contrapponeva a ogni forma di restaurazione del passato prefascista che stava a cuore ai liberali, ma insieme a ogni tentativo rivoluzionario che ripetesse pedissequamente gli schemi  di una rivoluzione che si riteneva esaurita nella sua capacità di creazione di una nuova società, com'era la rivoluzione sovietica… Rivoluzione, dunque, e non semplice restaurazione; rivoluzione, sì, ma non comunista o sovietica, ma democratica (o liberale come aveva detto Gobetti)."
Non potrebbe esser affermato con maggior chiarezza che l'antifascismo sulla scia di "Rivoluzione Liberale", unica ideologia sorta in funzione della lotta antifascista, trae il suo contenuto dalla semplice negazione del fascismo, e trova il suo criterio nel tentativo di portarla alla radicalità estrema. Di più: è in questa ricerca che incontra le varie forme di filosofia e di cultura sorte in altri paesi, e che le giudica secondo il solo metro della "progressività" (o dell'antifascismo, avendo identificato fascismo con reazione).
E qui traspare la sua debolezza (gravissima per una forma di pensiero che, nell'intenzione, è tanto avversa all'irrazionalismo e ai miti): l'aver sostituito l'ideologia con la filosofia. Un parallelo col marxismo può servire a chiarire questo punto: nel caso del pensiero di Marx abbiamo una filosofia che si fa politica; in quello dell'antifascismo, un'avversione politica  che cerca una filosofia che la giustifichi. Siamo nel caso tipico di un pensiero eclettico, salvo che si tratta di un eclettismo non più di destra, ma di sinistra; e che, dopo l'abbandono della filosofia di Croce come giustificazione insufficiente, cerca la sua giustificazione nella combinazione di un esistenzialismo che non è più esistenzialismo, di un prammatismo che non ha più i caratteri specifici del prammatismo, di un marxismo che non è più marxismo; e via via deve percorrere la sua strada sino alla negazione scientifica della filosofia.
Ma il più curioso è che l'antifascismo deve incontrare, rovesciato, lo stessi itinerario di Prezzolini. Dopo la sconfitta politica finisce per dar luogo a qualcosa che è molto simile ala Società degli Apoti. Poi con la "politica della cultura" ripropone in sostanza quella figura dell'intellettuale impegnato nella trasformazione della società, che era già stata de "La Voce".
Poi ancora si impegna nelle vie della spovincializzazione dell'Italia e delle negazioni della tradizione, che erano state proprie del "Leonardo": i discepoli, imboccando la via della contestazione, ritrovano o prolungano i temi e gli atteggiamenti che furono propri di quella rivista, in una forma per cui non sono più arginati da "La Critica". Al fondo c'è l'impossibilità di render conto storicamente del fascismo, se non in  termini indeterminatissimi: lo stesso Bobbio parla della  "esplosione" virulenta di mali endemici dello sviluppo della società italiana e di vizi cronici del nostro popolo", riassumendo in termini sintetici quell'interpretazione che fu detta "rivelativa", e che vede nel fascismo un "errore contro la cultura" e non già "un errore della cultura"; dimenticando che Mussolini non fece che impersonare un mito di uomo politico che era stato costruito pezzo per pezzo dalla cultura italiana del '900, ognuna delle forme in cui si era manifestata portandovi il suo contributo (onde il "fascio").  Certamente tra questi intellettuali vi fu anche Prezzolini. Ma sono suoi grandi meriti il non aver minimamente fruito dei privilegi che ciò gli avrebbe procurato al tempo del successo del fascismo, e l'aver rivendicato, senza assumere affatto l'attitudine del penitente, le sue responsabilità al momento della disgrazia. E, soprattutto, l'autocritica che investe questo intero orizzonte di cultura, individuato nella sostituzione della storia a Dio. Sta in questo errore la radice della mentalità rivoluzionaria e la contraddizione che c'è nella stessa idea di rivoluzione liberale.  Muove di qui quel suo abbandono, di cui già si è detto, delle posizioni intellettuali e pratiche che aveva professato nel suo periodo di intellettuale militante; dell'immanentismo filosofico, dell'interventismo de "La Voce", del negativismo di "Leonardo". L'esito è un conservatorismo, di cui sarebbe da studiare il nesso con la tesi filosofica affermata in "Dio è un rischio", che mi pare si possa definire come un empirismo del tutto dissociato dallo scientismo e che quindi non esclude la possibilità, senza affermare la certezza, di un Dio trascendente.
Tornando al suo giudizio sulla storia presente, importano due rasi del "Manifesto dei conservatori": "i tempi nostri potrebbero essere definiti (in Italia) la corruzione del Risorgimento…Un conservatore che sostenesse il ritorno ad antiche consuetudini potrebbe sembrare e sarebbe un rinnovatore". Prezzolini non ha rinunciato ai suoi ideali di rinnovamento; ma afferma oggi che rinnovamento non può voler dire ricerca di una "rivoluzione ulteriore a quella marx-leninista" (tentativo comune delle varie forme della cultura italiana del '900, quando hanno cercato di passare alla pratica politica: così a Gentile, come a Gobetti e ai loro continuatori; con l'eccezione di Croce il cui conservatorismo è però in contraddizione con la sostituzione della storia a Dio), dato che "questa rivoluzione si risolve in dissoluzione".  Mi sembra che questa sia la sua tesi, anche se non si serve di queste parole.  ma, In fondo quest'assenza di giudizio storico sul fascismo non dirige l'intellettuale militante contro il paese reale identificato con i suoi vizi cronici, quindi verso una cultura di sradicamento, portata a una dissacrazione di tutti i valori tradizionali? Non si tratta d cercare colpe di uomini, ma di definire l'errore di una cultura che, mossa indubbiamente da un'esigenza di rinnovamento morale, si rovesciò, negli effetti, nel suo opposto.
Onde la necessità di quel "ritorno ai principi" che fu raccomandato, come Prezzolini ricorda giustamente, così da Machiavelli come da Leone XIII. Ma basta per questo la posizione conservatrice,  o è necessario un passo ulteriore?»

A questo punto, la posizione di Prezzolini (che, nonostante i numerosi cambiamenti, conservò sempre una sua interna e dignitosa coerenza, e non di tipo paradossale, se con ciò si intende casuale), appare caratterizzata da una volontà di trasformare la filosofia in azione, di chiara derivazione idealistica e, al tempo stesso (e qui appare particolarmente acuta l'interpretazione di Del Noce), scientista, nel senso di una deificazione dell'esistente.
Nell'ultima parte del suo itinerario intellettuale, Prezzolini si rese conto dell'errore commesso e cercò di uscirne, avendo visto con chiarezza - ma già lo aveva percepito al tempo del rapporto con Gobetti e con l'attualismo gentiliano  - che fascismo e antifascismo non erano che due facce di una stessa medaglia, ossia di un errore della cultura italiana (e non di un tradimento dei chierici, nel senso di Benda): quello di aver sacrificato la visione del Paese reale ad una sua mitizzazione in chiave volontaristica e rivoluzionaria.
L'idealismo è stato una filosofia rigorosamente rivoluzionaria, che ha trovato in Gentile lo sviluppo più conseguente. Ed è significativo che sia Gobetti, sia Gramsci siano partiti dall'attualismo per approdare, rispettivamente, al "socialismo liberale" e al  marxismo-leninismo. Fa eccezione Croce, la cui posizione liberal-conservatrice spiega, da un lato, il suo isolamento durante il ventennio fascista, dall'altro il suo ridimensionamento nel secondo dopoguerra, quando la sua filosofia venne a contatto con quella europea, e se ne poté misurare appieno tutto il provincialismo culturale: una rifrittura dell'hegelismo in chiave post-romantica.
Se tutto ciò è vero, allora bisogna ammettere che le varie forme di antifascismo militante, e specialmente quelle più volontaristiche, come l'azionismo, hanno manifestato la stessa debolezza originaria del fascismo: una incolmabile distanza dal Paese reale, mascherata dietro parole d'ordine, formule astratte, buone intenzioni e parecchia retorica.
Caduto il fascismo, è caduto l'azionismo; poi, gradualmente, si è dissolto il liberalismo; ultimi a crollare, sulla distanza, il socialismo e il comunismo: come se, una volta scomparso il fascismo, l'antifascismo programmatico non avesse più una vera ragione per sussistere.
Particolarmente indicativo è il fatto - su cui, giustamente, si è accentrata la critica di Prezzolini - che l'antifascismo non abbia mai voluto riconoscere la piena legittimità storica del fascismo: per il liberalismo esso non era stato che una "malattia"; per il socialismo e il comunismo, uno strumento nelle mani della borghesia: degli agrari, degli industriali, dell'alta finanza. In pratica, sia il liberalismo, sia il socialcomunismo si sono rifiutati di vedere nel fascismo un prodotto organico della società italiana nel suo complesso; hanno preferito avallare la tesi di comodo, che la piccola borghesia e il ceto contadino e operaio lo abbiano subito, come se fosse stato un corpo alieno,  piovuto da un qualche lontano pianeta della Galassia.
Ma, aggiungiamo noi, la cosa più grave di tutte è che si sono rifiutati di vedere qualcosa di non puramente casuale nel fatto che un movimento, da essi considerato  sic et simplicter di estrema destra, fosse andato a scegliersi il proprio capo carismatico proprio nelle file dell'estrema sinistra. E c'è una ragione precisa in questo strabismo della riflessione antifascista sulle origini del fascismo: se si fosse ammesso che Mussolini,  proveniente dall'ala massimalista del Partito Socialista, non tanto aveva voltato le spalle al suo passato fondando i Fasci di combattimento nel 1919, quanto piuttosto aveva impresso una svolta a una tradizione di cui restava tuttora imbevuto, sarebbe apparso che il fascismo non è affatto quell'oggetto alieno e inclassificabile o quel banale manganello brandito dalle forze reazionarie che i suoi avversari hanno descritto, ma un sottoprodotto del socialismo anarchicheggiante, che già aveva svolto una funzione decisiva sia nell'interventismo di sinistra, sia nell'esperienza fiumana (si pensi solo al ruolo di De Ambris nella stesura della "Carta del Carnaro").
Forse, appunto, bisognerebbe partire proprio da lì, per comprendere il fascismo: dal 1915 e da quell'interventismo di sinistra in cui Mussolini (che abbia o no compiuto un voltafaccia rispetto alla linea ufficiale del P. S. I.) non fu affatto un caso isolato. Basterebbero i nomi di De Ambris, Corridoni, Battisti, Salvemini, Bissolati, per mostrare quanto ampio e variegato fosse l'universo degli interventisti di sinistra (anche a livello internazionale: basti citare il caso del sostegno alla Francia in guerra del leggendario leader anarchico Kropotkin).
Il fascismo è sorto come prolungamento di quell'interventismo, come riproposizione di quei temi in chiave di reducismo ed ex combattentismo, e non senza influssi dell'Ottobre bolscevico (si ricordi che Lenin considerava Mussolini come l'unico socialista italiano veramente capace di fare una rivoluzione). Se, dunque, il fascismo delle origini è stato la forma più conseguente assunta dall'interventismo di sinistra a guerra finita, così come l'interventismo di sinistra era stato la forma più conseguente di rivoluzionarismo socialista: allora appare chiaro che, come il fascismo reclutò il suo nucleo originario - quello di Piazza San Sepolcro - negli ex arditi, così il nucleo dell'antifascismo militante di Gobetti e Gramsci è stato una sorta di arditismo antifascista, che già nella guerra civile spagnola era abbastanza forte da infliggere alle forze mussoliniane la severa sconfitta di Guadalajara.
Ma, così come l'arditismo della prima guerra mondiale non poteva sopravvivere alla fine della  guerra, se non trasformandosi in movimento politico e conquistando il potere, così il contro-arditismo partigiano non poteva sopravvivere a lungo alla caduta del fascismo, neppure agitando costantemente lo spauracchio di una possibile resurrezione del fascismo per giustificare la propria sopravvivenza. Ma si è sempre guardato bene dal fare una lucida analisi della propria genesi e di quante cose avesse in comune con il fascismo: a cominciare dal metodo - la demonizzazione dell'avversario e la radicale negazione delle sue ragioni - e proseguendo con la comune matrice idealistica hegeliana, fatta di volontarismo un po' superomistico e di voluta ignoranza del Paese reale.
In queste condizioni, è chiaro che quella del 1946 è stata una mera illusione: illusione di rinnovamento, illusione di rinascita nazionale. Non si può versare il vino nuovo in otri vecchi; non solo: non si può nemmeno versare vino vecchio in otri nuovi. E sia il liberalismo, sia il socialcomunismo erano molto più vecchi di quanto non volessero far credere: vecchi abbastanza da essere stati fratelli siamesi del fascismo, figli dello stesso padre o patrigno - Hegel - e dello stesso mito: il mito di una Storia che sa molto bene dove sta andando, perché «tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale, è reale».
Con queste ideologie vecchie, puramente oppositive, non si poteva fare un'Italia nuova; né si poteva reggere l'intero edificio della democrazia e della Repubblica sulle basi inconsistenti di un antifascismo senza più fascismo, cioè senza più il polo negativo del binomio di cui era parte.
Del Noce ha visto bene: il mito rivoluzionario nasce con la pretesa idealistica di sostituire la storia a Dio; e culmina con l'errore storico del fascismo, seguito dall'errore uguale e contrario dell'antifascismo. Entrambi cadono nell'idolatria della storia, ma senza la capacità di guardare al Paese quale esso è realmente: vizio tipico dell'idealismo. Per i fascisti l'Italia è stata vittima della politica imbelle dei liberali e della demagogia dei socialcomunisti; per liberali e socialcomunisti, essa è stata vittima di una truce dittatura imposta soltanto con la forza. Entrambi non possono sopravvivere alla scomparsa del proprio antagonista, né accoglierne le ragioni storiche per dare sostanza alla propria proposta politica.
Questo è stato l'intimo dramma dell'antifascismo italiano, preso in una inestricabile contraddizione con se stesso: perché, hegelianamente,  ha identificato il reale con il razionale, cioè ha identificato se stesso con la storia; ma poi, poco hegelianamente, ha rifiutato di operare una sintesi rispetto alle istanze del proprio avversario. L'antifascismo, così, è divenuto uno storicismo senza dialettica, una guerra dichiarata contro qualche cosa di cui si negava la reale consistenza; anzi, di cui si negava la stessa storicità, trasformandolo in un evento metafisico e mitologico.

Giuseppe Prezzolini ha intuito o visto tutto ciò, e si è spinto - nel "Manifesto dei conservatori", ancora più in là.
Il carattere della scienza moderna è quello di trasformare il mondo in un oggetto, di ridurlo a una cosa, o un insieme di cose, manipolabili a piacere. Essendo venuta a mancare un'istanza di ordine superiore, una istanza basata sui valori del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, tutti gli uomini sono diventati cose per ogni altro uomo: o strumenti di piacere e di potere, oppure ostacoli da abbattere.
Ora, Prezzolini rivendica il suo diritto ad essere un conservatore proprio in base alla constatazione che la cultura di sinistra privilegia la categoria dei diritti rispetto a quella dei doveri: dunque, essa va nella direzione dello scientismo, ossia nella riduzione degli enti a cose da sottomettere e strumentalizzare. Scientismo e idealismo hanno un elemento fondamentale in comune, nonostante le apparenze: pretendono di ridurre gli enti a oggetti manipolabili a piacere:  l'uno in nome della Scienza, l'altro in nome dell'Idea (che s'incarna nella Storia).

Dobbiamo dire un grazie a Giuseppe Prezzolini per averci aiutati a comprendere questi meccanismi culturali e queste dinamiche nascoste della società italiana moderna; e ad Augusto Del Noce per averci aiutato a comprendere Prezzolini, e il nostro debito nei confronti di un maestro ingiustamente dimenticato.