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Noi, figli della Grande Guerra

di Ernesto Galli della Loggia - 03/11/2008

  
 
 
 
In occasione dell’approssimarsi dell’anniversario del 4 novembre 1918, giorno di proclamazione della vittoria sull’Austria-Ungheria, si moltiplicano gli interventi di riflessione sul significato che la Prima guerra mondiale ebbe per il nostro paese. Secondo Ernesto Galli della Loggia, vi sono alcuni elementi di quel cruciale momento storico che si ripetono nella storia del ‘900 italiano: in primo luogo la “divisività” ideologica fra due parti che considerano la propria visione politica inconciliabile con quella dell’altro; in secondo luogo il radicalismo intellettuale manifestatosi in molteplici frangenti storici; infine il trasformismo politico peculiare del secolo scorso.

La rottura del rapporto storico con lo Stato unitario, in conseguenza della sconfitta del ‘40-‘45, insieme all’avvento della democrazia e alla diffusa modernizzazione, hanno reso l’identità italiana odierna qualcosa di difficilmente comparabile con quella di 90 anni fa.
Ma, se si guarda meglio, se si considera con più attenzione lo sviluppo delle cose, allora la prospettiva muta. Allora cominciano a emergere i nessi tra oggi e quel tempo, apparentemente lontano certo, ma che fu anche il tempo in cui cominciammo a diventare ciò che siamo.
Avviene così che quegli anni intorno alla
Grande Guerra ci si presentino non solo e non tanto come un puro punto di partenza ma come qualcosa di assai più significativo. Essi ci appaiono come una sorta di crogiuolo nel quale non è difficile rintracciare i prodromi dei tratti salienti della odierna identità nostra che ho detto — la rottura dell’antico rapporto con lo Stato, le avvisaglie della democrazia e della modernizzazione. E insieme, però, gli anni e gli eventi stretti intorno al nodo della Prima guerra mondiale ci appaiono anche il palcoscenico sul quale andò in scena la prima rappresentazione delle contraddizioni che quei tratti della nuova identità italiana si portavano appresso, che tutt’oggi si portano appresso.
[...] È come se la guerra del ‘15-18 e il vorticoso succedersi di eventi che da essa prese le mosse costituiscano una sorta di Dna del nostro presente. Il paradosso di questo sovrapporsi di lontananza e di presenza, di passato e di attualità, rispecchia bene la natura ambigua di quella guerra, che fu insieme l’ultima guerra per l’unità nazionale, ma anche il primo episodio di un aspro scontro interno al Paese: scontro che in modi e forme diverse era destinato a caratterizzare gran parte del Novecento italiano, assumendo spesso toni e contenuti di una guerra civile. Se è vero che il primo conflitto mondiale segnò la fine del regime notabilare postrisorgimentale e quindi l’iniziale ingresso delle masse sulla scena nazionale, cioè il principio di una moderna vita politica, ebbene, allora è impossibile non osservare come, proprio a partire da quel punto, nel nostro Paese tale moderna vita politica abbia subito una vera e propria rottura. All’Italia, infatti, non riuscì il passaggio cruciale tra liberalismo e democrazia che il conflitto mondiale aveva messo dappertutto all’ordine del giorno. Nella tormentata contingenza della guerra e del dopoguerra l’Italia scoprì da un lato quanto fragile fosse l’involucro liberale dei suoi ordinamenti e di tanta parte delle sue tradizionali classi dirigenti, e dall’altro, insieme, quale concezione primitiva della democrazia avessero tanti che premevano per nuovi equilibri politici e sociali. Il 1919-22 fu una sorta di ultimo atto di quanto era iniziato nell’inverno-primavera del 1915. Comparvero allora in tutto il loro rilievo quelli che nel cinquantennio successivo, e forse oltre, sarebbero stati alcuni tra i fattori determinanti della scena italiana: una cultura e una pratica di governo dominate dall’indecisione, il radicalismo intellettuale di parte significativa del ceto dei colti, la variegata vocazione attivistica di gruppi consistenti di piccola e media borghesia specie giovanile, il massimalismo largamente diffuso nei pensieri e nell’azione degli strati popolari. A cominciare dalle «radiose giornate», dal «biennio rosso» e poi dalla «marcia su Roma», a cominciare da questi tre atti di un unico dramma, in quante altre occasioni della nostra storia sarebbe capitato agli osservatori più acuti di notare il peso condizionante dei fattori che ho appena ricordati, presi da soli o mischiati tra loro in varia misura! Proprio intorno alla Grande Guerra, insomma, si precisò definitivamente e si approfondì quella propensione alla divisività che ha caratterizzato in modo patologico, e per certi aspetti ancora caratterizza, la storia del nostro Paese. Una divisività che, lo sappiamo bene, oltre che riferirsi a una dimensione propriamente ideologico-politica, anzi quasi prima di essa, tende a presentarsi addirittura in una dimensione antropologico-culturale e perfino morale. Come uno spartiacque tra due nazioni, tra due Italie, una buona e degna, l’altra cattiva e indegna, destinate perciò a farsi in eterno la guerra. La nostra identità novecentesca, ci piaccia o no, sembra fatta anche di questa incomponibile volontà contrappositiva, sempre pronta ad alimentare reciproche, eterne, scomuniche. Ma proprio dal primo conflitto mondiale data anche l’inizio di un fenomeno destinato in certo senso a fungere da paradossale contrappeso rispetto alla divisività di cui ora ho detto, e destinato anch’esso a rappresentare un filo rosso della moderna vicenda italiana. Mi riferisco alla frequente migrazione di personalità e di idee da un’Italia all’altra, da uno schieramento politico-culturale all’altro, per essere più chiaro dalla destra alla sinistra e viceversa.
È qualcosa di sostanzialmente diverso dal vecchio trasformismo ottocentesco [...]. Il carattere variegato del fronte interventista nel ‘15 va visto piuttosto come il preannuncio della «grande contaminazione di forze, di ideali, di gruppi» che la guerra produsse già al suo inizio, e poi subito dopo, e che in seguito si sarebbe molte altre volte verificato nell’Italia novecentesca in occasione di ogni grande sommovimento: per esempio nel 1943, e poi nel 1948, e ancora nel ‘68, e da ultimo nel ‘93-94. Un segno, tra i molti altri, di un che di profondamente instabile, incerto e quindi potenzialmente e imprevedibilmente fusionale, che caratterizza la moderna scena pubblica italiana, le sue culture e i suoi gruppi dirigenti, costretti dalla storia a muoversi senza avere il punto di riferimento di alcuna stabile, consolidata, tradizione nazionale. [...]