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Saper dire «grazie» agli incontri della nostra vita, a cominciare da chi non è più fra noi

di Francesco Lamendola - 06/11/2008

Il 2 novembre si celebra, nella nostra cultura, la commemorazione dei defunti: "commemoratium omnium fidelium defunctorum".
Contrariamente a quanto molti credono, tale ricorrenza non è mai stata festiva. Per questa ragione si è creata l'abitudine di recarsi a visitare i propri cari defunti nella festività liturgica immediatamente precedente, quella del 1° novembre: "Festum omnium sanctorum".
In origine, la Chiesa cattolica celebrava quest'ultima festa nella prima domenica dopo la Pentecoste; fu papa Gregorio III (731-741) a decidere di spostarla il primo giorno di novembre, su richiesta dei monaci irlandesi (l'Irlanda era, all'epoca, una delle roccaforti più agguerrite della cristianità occidentale), in modo da sovrapporla al Samhain, l'antichissima festa celtica del nuovo anno.
A volte sorge il dubbio che Hegel, nonostante tutte le assurdità della sua filosofia, ci avesse azzeccato quando parlava delle astuzie della Ragione: Shamain, la festa pagana  celebrata dai sacerdoti druidi (in gaelico: Sam, «estate», più Fuin, «fine»: la fine dell'estate) si è presa una allegra rivincita sulla nuova religione, riemergendo sotto la forma di Halloween, la notte delle streghe e degli spiriti che tornano dall'aldilà.
Ma perché le streghe, i vampiri, gli spettri?
Tutto ha origine dal fatto che Shamain si trovava al di fuori della dimensione del tempo: non apparteneva né all'anno vecchio, né a quello nuovo. In un simile giorno, e particolarmente nella notte che lo precede, il velo sottile che separa l'aldiqua dall'aldilà si solleva, e il mondo dei vivi e quello dei morti possono comunicare.
Etimologicamente, Halloween deriva da All Hallows Eve, ossia «vigilia della festa di tutti i santi» e attesta chiaramente l'avvenuto sincretismo fra la tradizione pagana e quella cristiana.
Per fatto personale, come si suol dire, la cosa ci disturba parecchio: a noi che siamo nati in quel giorno (anzi, in quella notte), e che abbiamo introiettato la cara tradizione di ricordare i nostri cari defunti, questa irruzione del folclore anglosassone in salsa consumistica, e lo spettacolo dei nostri bambini e bambine vestiti da diavoli e streghette che bussano alle porte, minacciando dispetti (e piccoli vandalismi) se non ricevono qualche bocconcino, invece di pensare ai loro nonni che riposano al camposanto, è più di quanto possiamo sopportare.
Non che ci sia bisogno di uno stimolo esterno per ricordarsi delle persone che hanno contribuito a formare la nostra vita e che ora ci hanno lasciato (ma ci hanno davvero lasciato?); però è innegabile che gli esseri umani, in generale, hanno bisogno di riti, e che quello è uno dei pochi riti veramente essenziali e doverosi nel corso dell'anno.
Essenziale, perché?
Perché noi non saremmo quello che ora siamo, se le persone che abbiamo incontrato nel cammino della vita non avessero agito sul nostro spirito, imprimendovi ciascuna il proprio segno: senza di loro noi non saremmo nulla e, se qualche cosa abbiamo realizzato, lo dobbiamo a loro. Negare a quelle persone un pensiero riconoscente non è soltanto una forma di ingratitudine; è un furto: perché chi prende senza ringraziare i doni ricevuti - dice l'autore della "Bhagavadgita", riferendosi a Dio (ma ciò vale anche per gli uomini), è certamente un ladro.

Sempre, nella nostra vicenda terrena, dovremmo conservare l'attitudine alla riconoscenza per quello che abbiamo ricevuto dalle persone incontrate nel corso della nostra vita: dalle più importanti a quelle che abbiamo incrociato solo fuggevolmente. E, ovviamente, dovremmo partire per prima cosa dalla memoria delle persone che, pur non essendo più tra noi sul piano fisico, hanno però contribuito a formare ciò che noi siamo attualmente.
Non stiamo parlando, è ovvio, delle cose materiali che possiamo aver ricevuto, ma di quel bagaglio di amore, affetto, gentilezza, cultura, fantasia, generosità, allegria, onestà e rettitudine, che ci ha permesso di superare i momenti difficili, di orientarci nella confusione morale, di godere delle cose (apparentemente) semplici.
I piccoli gesti, per esempio: di come la nonna cucinava l'arrosto per il pranzo della domenica per tutta la famiglia, e lo profumava con dei rametti di rosmarino; di come il nonno fornaio impastava solo per i suoi nipotini, il giorno di Pasqua, delle artistiche focacce con dentro un uovo colorato; di come il papà costruiva castelli di cartone e vestitini da fata per le nipotine; di come il fratello sapeva sognare e, da bambini, ci aveva insegnato a giocare…
I piccoli gesti che, sovente, racchiudono un profondo insegnamento: un insegnamento che non ha bisogno di parole, ma che esprime grandissimi valori quali il senso della famiglia, l'attenzione per i piccoli, la laboriosità, l'onestà, il piacere per le cose ben fatte, per il dovere compiuto, per tutto ciò che umilmente rende lode alla vita e la rende più amabile.
Un gesto, a volte, racchiude il senso di una intera vita.
Il nonno, ad esempio, fu uno di coloro che vissero il dramma dell'invasione austro-tedesca del Friuli, dopo la rotta di Caporetto, nell'autunno del 1917. Era appena un ragazzo quando si trovò anche lui, in mezzo a quel mare di profughi, che si riversava sulle strade piovose, inframmezzato da brandelli di divisioni in ritirata, da soldati senza fucile, da cannoni e salmerie, da quel poco bestiame che i contadini, fuggendo, potevano portarsi dietro, verso un avvenire ancora più incerto di quel cielo grigio e inclemente, carico di minaccia.
A un tratto si ricordò che a casa, a Udine, aveva lasciato i canarini chiusi nella gabbietta: e lo colpì l'idea che le bestiole erano condannate a morire di fame… A quel pensiero, non ebbe esitazioni: si volse e ritornò indietro, in mezzo a quel flusso di disperati, col cuore in gola, mentre il rombo dell'artiglieria già si faceva sentire in lontananza. E non ebbe pace fino a che, rientrato nella città semideserta, non rientrò in casa e non aprì la porticina della gabbietta, per permettere ai canarini di uscirne e, forse, di sopravvivere, nel disastro generale.
Ecco: un gesto così, secondo noi, vale più di un poema. E il racconto di un tale episodio, lievitando nella mente di un bambino, vi può imprimere tanti pensieri e sentimenti benefici: non solo l'amore per i nostri fratelli minori - gli animali -, ma, più in generale, la compassione che per chi soffre, per chi è debole e indifeso, verso tutto ciò che è vita, umana e non umana.
Perché è la compassione, come Foscolo fa dire a Jacopo Ortis nella famosa «Lettera da Ventimiglia», il sentimento che davvero ci rende umani, che ci rende un po' meno belve di quello che saremmo altrimenti.

Viviamo in una civiltà che, pur avendo deificato la Storia (da Hegel e Marx in poi), sembra avere il terrore del passato e il rifiuto della memoria. E che non si dà molto pensiero del futuro, a giudicare dai crimini irreparabili che sta perpetrando ai danni della natura: cioè, in ultima analisi, anche ai danni delle prossime generazioni.
Così, l'unico tempo che viene celebrato è il presente: un tempo che non è un tempo, ma una assenza di tempo (come avevano intuito i sacerdoti druidi a proposito del Samhain; ma come ha anche mirabilmente mostrato Sant'Agostino).
Senonché, vivere nell'assenza di tempo è impossibile; equivale a mettersi alla guida di un treno con gli occhi bendati, incuranti delle conseguenze. Vivere soltanto nella dimensione dell'oggi è la barbarie, in quanto disprezzo e disconoscimento del passato; ed è la follia, in quanto disprezzo e disconoscimento del futuro.
Noi tutti viviamo in bilico fra la barbarie e la follia; o, per lo meno, queste sono le condizioni date entro l'orizzonte spirituale della civiltà in cui siamo inscritti e con la quale dobbiamo coabitare, in un modo o nell'altro.
Non si creda che stiamo usando un linguaggio figurato: questa è la nostra situazione reale.
I nostri bambini che bussano alle case nella notte di Ognissanti, travestiti da mostri o da vampiri e scimmiottando una tradizione che non ci appartiene e che serve solo a far vendere giocattoli e costumi inutili, che verranno usati per poche ore e poi gettati via, sono una espressione, al tempo stesso, di barbarie e di follia.

Eppure, c'è qualche cosa che possiamo fare per sottrarci al nostro destino di barbari folli; per sottrarci al destino di regredire allo stadio di ex uomini (come diceva lo scrittore e filosofo polacco Witkiewicz), abbrutiti dalla dipendenza verso le macchine che noi stessi abbiamo fabbricato,  credendo di renderci la vita più comoda.
Possiamo, anzi, dobbiamo riprenderci il nostro passato e il nostro futuro: più precisamente, il nostro futuro mediante il nostro passato: come ha insegnato Kierkegaard col suo concetto della «ripresa»: procedere ricordando.
Di solito, quel che viene rimproverato a coloro i quali sostengono l'importanza di ricordare è di indugiare nella nostalgia di qualcosa che non c'è più, invece di guardare avanti.
È un'accusa sciocca: certo che bisogna guardare avanti. Tuttavia, per guardare avanti, bisogna anche sapere da dove si proviene, e come si è diventati quel che si è attualmente. Non è possibile venire dal niente, dalla terra di nessuno. Tutti abbiamo una patria: e dovremmo esserne fieri.
La nostra patria più autentica, la più antica e la più santa, è quella formata dalla rete di coloro che ci hanno formato, accompagnato, incoraggiato e, talvolta, contrastato; di coloro che hanno fatto di noi ciò che ora siamo.
Vergognarsi di questa patria è cosa abietta; ignorarla, scordarla, rimuoverla, è cosa insieme folle e barbarica. Soltanto i barbari e i folli non hanno patria; o, piuttosto, credono di non averla.
Le più alte opere di poesia di tutti i tempi celebrano la pietas verso i defunti, la memoria per le persone che sono state presenti nella nostra vita: l'«Odissea» di Omero, con l'incontro di Ulisse e la madre Anticlea; l'«Eneide» di Virgilio, con la discesa di Enea nel'Ade per incontrare il padre Anchise; la «Divina Commedia», col commovente colloquio fra Dante e l'antenato Cacciaguida, fra i beati del Paradiso.
Provare riconoscenza per quella patria ideale, del resto, non è solo una operazione della memoria: è anche un gesto di amore per la vita. Per suo mezzo, essa vive in noi; e il legame tra le due dimensioni della realtà - quella visibile e quella invisibile - si rafforza. È vero che solo una parete  sottile le divide; ma, finché perdurano la nostra ignoranza, la nostra ingratitudine e il nostro cieco attaccamento al presente, per quanto sia sottile, essa rimane invalicabile.
Viceversa, nella misura in cui noi conserviamo vivo e caldo di affetti il nostro legame con il mondo invisibile, dove ci hanno preceduti coloro che fisicamente non sono più qui, noi contribuiamo ad un'opera preziosa e insostituibile: contribuiamo, cioè, a preservare l'equilibrio del mondo. È anche grazie a noi se l'asse del mondo, "axis mundi", rimane in equilibrio.
Il mondo non è una cosa morta; non è una sfera di roccia che vaga a caso in un universo casuale, senza un'anima e senza uno scopo.
Il mondo visibile, del resto, è solo una piccola parte della realtà; ci sono molte più cose fra la terra e il cielo di quante non ne spossa sognare tutta la nostra filosofia, dice Shakespeare per bocca di Amleto.
Noi, dunque, non siamo affatto i signori del mondo; ma possiamo esserne i custodi amorevoli e i difensori contro le forze del Nulla.
Ogni qual volta leviamo un pensiero riconoscente verso coloro che hanno contribuito a formarci, a comunicarci vita e calore, a farci sentire amati e protetti, noi non solo compiamo una doverosa opera di giustizia, ma collaboriamo alla grande vita del mondo, al grande mistero dell'Essere, che ci abbraccia e ci pervade.
Basterebbe già questo per dare uno scopo dignitoso ad una vita umana; per dare un senso a questa nostra avventura terrena, intorno alla quale non cessiamo d'interrogarci - inconsapevoli, spesso, di essere già all'interno dell'ultima risposta.