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Home / Articoli / Il ricettario del dr. Céline…

Il ricettario del dr. Céline…

di Susanna Dolci - 06/11/2008

 

…che è meglio del dr. House….
ma che, di certo, se la batte con il dr. Mabuse…

 

 

Viene ripubblicato in Italia di Louis Ferdinand Destouches, in arte Céline, Colloqui con il professor Y. Presenti così e con questo, nel catalogo Einaudi, i suoi libri dell’esilio forzato a partire dal 1951: Casse-pipe, Guignol’s Band I e II, Da un castello all’altro, Nord, Rigodon. Di che parla il libro? Facile a domandarlo ma malagevole a farne un sunto. Bisogna leggerlo ed in-seguirlo, lettera per lettera.

 

 

Diciamo pure che Céline si diverte in maniera borgesiana a fingersi auto-intervistato da un fantomatico signore senza precisa identità, così da sputacchiare ben bene su cultura, genialità, scrittura e scrittori, etc. etc… Con un’attualità a dir quasi miracolosa. Lo stile è quello di sempre, anzi più spietato e lucido che mai. Un’ironia feroce e giocoliera accompagna le oltre 100 pagine del volume, con punte di perfetto e folle delirio che avrebbe fatto illividire lo stesso Amleto shakesperiano.

 

 

La vera differenza, forse, sta solo nel fatto della céliniana consapevolezza della propria imminente finale riduzione in polvere. Dopo le accuse di antisemitismo e collaborazionismo, la fuga, la prigionia, l’esilio dall’universo attinente alla letteratura conforme al palma res degli ippopotami bigotti. Senza nulla togliere alla dignità del possente animale. La fine come liberazione da una secca prigionia scevra, però, dall’aver reso il nostro schiavo di qualcosa o qualcuno.

 

 

Céline muore nel 1961 a Meudon. Caduto in dimenticanza di molti ma non certo della moglie Lucette e dei loro numerosi cani, gatti e perfino di un pappagallo. Animali che gli rafforzarono, sicuramente, quel senso di disprezzo per l’uomo stolto e tonto a cui piace pavoneggiarsi nelle penne di uno struzzo querulo. Bestie dai denti ed unghie ben affilate, come d’altronde taglienti alcuni tra i ferri del mestiere che il dottore usava per i suoi pazienti, letteralmente poveri e disgraziati. Come il suo linguaggio aguzzo, scavato, magro e disobbediente. Parole vomitate in faccia ai lettori affinché acido fosse e sempre sia il senso del loro dire. Merletti e balocchi ai letterati da salotto. Morte, disperazione, violenza, eccessi, crimini, delirio sfrenato e quant’altro ai vagabondi delle strade che conducono nel nessun luogo del non posto.

 

 

Altro che, questo, «un pamphlet sul mondo paranoico, la memoria di un inventore stralunato» come ha scritto Gianni Celati nella postfazione al qui tomo. Céline si sciorina nelle sue pagine-ricette mediche e di medicinali amari al pari se non meglio di Beckett, Jarry, Artaud, Cocteau, Genet. Tutti assurdi, disumanizzati, surreali, violenti, scandalosi, certi del nullo nulla e contro la persistente e pedante essenza dell’essere. Stanno, con Céline in testa, all’esistenza scritturale come le incognite X ed Y strapazzate nella maionese genetica impazzita. Quindi il risultato si annulla nella pozza del nero inchiostro che tutte le convenzioni sociali lorda. Ed è allora, quasi quasi, che occhieggia la patafisica burlesca delle regole intorno alle eccezioni. In quel fondo profondo heideggeriano, sguazzo stagnante delle cicliche fini e dei regolari ritorni…

 

 

Si ascoltano ragionamenti stonati e verbalizzati a suon di terremoti…. Si provano aggressioni linguistiche che con penna e bisturi divergono i lembi delle ferite infette nella putredine dell’assoluto immaginismo nullo novecentesco che spezza l’ampolla dell’amarezza affinché tutti bevano dal teschio corroso dell’essere obiettato… E l’io spinge i bottoni e resetta a piacimento… E Nietzsche se la ride, aspettando di vedere quali saranno, poi a venire, quegli esseri superiori che sapranno quale sia la strada più sinuosa…. E Cèline si deride dell’Io, sempre l’Io, maledettamente l’Io… Con lui vale certamente il gioco a parole del padre filosofico del superuomo: «E a chi non insegnate a volare, insegnate a precipitare più in fretta» ma non certo quel «bisogna ingoiare un rospo ogni mattina se si vuole essere certi di non imbattersi in qualcosa di più disgustoso nel resto della giornata…» dello scrittore francese Nicolas Chamfort. Tutt’al più va a calzare «l’ottimismo e il pessimismo differiscono fra loro soltanto in una cosa: la data della fine del mondo» di quel burlone poetico del polacco Stanisław Jerzy Lec. Va tutto male così, così e sempre così sia. Ma forse, chissà, un giorno «Di nuovo col genio? il genio di che? (…) Il genio di non deragliare, diamine! mai deragliare!»… Un giorno, forse… chissà… Parole finali, queste di cui sopra, sue, di Céline, medico delle anime mutuate…. «Come un maniaco? Ossessionato dalle trovatine?».

Edizione 03 Nov

Il ricettario del dr. Céline…

…che è meglio del dr. House….
ma che, di certo, se la batte con il dr. Mabuse…

 

Viene ripubblicato in Italia di Louis Ferdinand Destouches, in arte Céline, Colloqui con il professor Y. Presenti così e con questo, nel catalogo Einaudi, i suoi libri dell’esilio forzato a partire dal 1951: Casse-pipe, Guignol’s Band I e II, Da un castello all’altro, Nord, Rigodon. Di che parla il libro? Facile a domandarlo ma malagevole a farne un sunto. Bisogna leggerlo ed in-seguirlo, lettera per lettera.

 

Diciamo pure che Céline si diverte in maniera borgesiana a fingersi auto-intervistato da un fantomatico signore senza precisa identità, così da sputacchiare ben bene su cultura, genialità, scrittura e scrittori, etc. etc… Con un’attualità a dir quasi miracolosa. Lo stile è quello di sempre, anzi più spietato e lucido che mai. Un’ironia feroce e giocoliera accompagna le oltre 100 pagine del volume, con punte di perfetto e folle delirio che avrebbe fatto illividire lo stesso Amleto shakesperiano.

 

La vera differenza, forse, sta solo nel fatto della céliniana consapevolezza della propria imminente finale riduzione in polvere. Dopo le accuse di antisemitismo e collaborazionismo, la fuga, la prigionia, l’esilio dall’universo attinente alla letteratura conforme al palma res degli ippopotami bigotti. Senza nulla togliere alla dignità del possente animale. La fine come liberazione da una secca prigionia scevra, però, dall’aver reso il nostro schiavo di qualcosa o qualcuno.

 

Céline muore nel 1961 a Meudon. Caduto in dimenticanza di molti ma non certo della moglie Lucette e dei loro numerosi cani, gatti e perfino di un pappagallo. Animali che gli rafforzarono, sicuramente, quel senso di disprezzo per l’uomo stolto e tonto a cui piace pavoneggiarsi nelle penne di uno struzzo querulo. Bestie dai denti ed unghie ben affilate, come d’altronde taglienti alcuni tra i ferri del mestiere che il dottore usava per i suoi pazienti, letteralmente poveri e disgraziati. Come il suo linguaggio aguzzo, scavato, magro e disobbediente. Parole vomitate in faccia ai lettori affinché acido fosse e sempre sia il senso del loro dire. Merletti e balocchi ai letterati da salotto. Morte, disperazione, violenza, eccessi, crimini, delirio sfrenato e quant’altro ai vagabondi delle strade che conducono nel nessun luogo del non posto.

 

Altro che, questo, «un pamphlet sul mondo paranoico, la memoria di un inventore stralunato» come ha scritto Gianni Celati nella postfazione al qui tomo. Céline si sciorina nelle sue pagine-ricette mediche e di medicinali amari al pari se non meglio di Beckett, Jarry, Artaud, Cocteau, Genet. Tutti assurdi, disumanizzati, surreali, violenti, scandalosi, certi del nullo nulla e contro la persistente e pedante essenza dell’essere. Stanno, con Céline in testa, all’esistenza scritturale come le incognite X ed Y strapazzate nella maionese genetica impazzita. Quindi il risultato si annulla nella pozza del nero inchiostro che tutte le convenzioni sociali lorda. Ed è allora, quasi quasi, che occhieggia la patafisica burlesca delle regole intorno alle eccezioni. In quel fondo profondo heideggeriano, sguazzo stagnante delle cicliche fini e dei regolari ritorni…

 

Si ascoltano ragionamenti stonati e verbalizzati a suon di terremoti…. Si provano aggressioni linguistiche che con penna e bisturi divergono i lembi delle ferite infette nella putredine dell’assoluto immaginismo nullo novecentesco che spezza l’ampolla dell’amarezza affinché tutti bevano dal teschio corroso dell’essere obiettato… E l’io spinge i bottoni e resetta a piacimento… E Nietzsche se la ride, aspettando di vedere quali saranno, poi a venire, quegli esseri superiori che sapranno quale sia la strada più sinuosa…. E Cèline si deride dell’Io, sempre l’Io, maledettamente l’Io… Con lui vale certamente il gioco a parole del padre filosofico del superuomo: «E a chi non insegnate a volare, insegnate a precipitare più in fretta» ma non certo quel «bisogna ingoiare un rospo ogni mattina se si vuole essere certi di non imbattersi in qualcosa di più disgustoso nel resto della giornata…» dello scrittore francese Nicolas Chamfort. Tutt’al più va a calzare «l’ottimismo e il pessimismo differiscono fra loro soltanto in una cosa: la data della fine del mondo» di quel burlone poetico del polacco Stanisław Jerzy Lec. Va tutto male così, così e sempre così sia. Ma forse, chissà, un giorno «Di nuovo col genio? il genio di che? (…) Il genio di non deragliare, diamine! mai deragliare!»… Un giorno, forse… chissà… Parole finali, queste di cui sopra, sue, di Céline, medico delle anime mutuate…. «Come un maniaco? Ossessionato dalle trovatine?».

 

Susanna Dolci

 

 

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