Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Si possono conoscere molte cose ed essere ignoranti di quella più importante

Si possono conoscere molte cose ed essere ignoranti di quella più importante

di Francesco Lamendola - 08/11/2008


«Professore, lei conosce molte cose, ma non sa proprio niente».
Queste mortificanti parole si sente rivolgere, da un misterioso esaminatore, l'anziano medico Isak Borg (interpretato dall'attore e regista svedese Victor Sjoström), il protagonista di quel capolavoro assoluto del cinema che è «Il posto delle fragole», realizzato da Ingmar Bergman circa mezzo secolo fa, nel 1957 (cfr. il nostro precedente articolo: «"Il posto delle fragole": omaggio a Ingmar Bergman", consultabile sul sito di Arianna Editrice).
«Lei conosce molte cose, ma non sa proprio niente»: parole non solo mortificanti; parole terribili se mai ve ne sono, agghiaccianti, che danno la misura di un  pieno e, forse, irreparabile fallimento esistenziale.
Eppure queste parole potrebbe essere prese a epitaffio di una intera civiltà, la nostra: la civiltà moderna, basata sulla scienza e sulla tecnica, sull'economia, sulla velocità, sull'efficienza e sulla manipolazione indiscriminata di cose e persone.
Sì, davvero conosciamo molte cose; i nostri bambini sanno molte, ma molte più cose dei bambini delle generazioni passate; i nostri lavoratori, le nostre casalinghe, i nostri pensionati: tutti leggono i giornali, ascoltano la televisione, si collegano a Internet con la massima disinvoltura e immagazzinano quantità enormi di conoscenze d'ogni tipo.
Peccato che tutte queste conoscenze non si traducano affatto in una vera sapienza, in una più limpida visione del mondo e di noi stessi; che non ci avvicinino d'un passo - ma, se possibile, che ci allontanino ancora di più - dall'unica conoscenza che veramente ha un significato irrinunciabile: quella circa il senso della nostra vita, del nostro esserci, qui e ora. Se si è in grado di rispondere a qualunque altra domanda - quanti sono i satelliti di Saturno, come si formi la spirale del DNA e se sia dimostrabile il teorema di Fermat - , ma non a questa, allora vuol dire che si è sbagliato tutto, ma proprio tutto.
Vuol dire che la quantità delle conoscenze non ci ha reso più umani, ossia più capaci di essere noi stessi fino in fondo, di interpretare degnamente la nostra parte nel mondo; ma ci ha solamente gonfiato di ridicola superbia o, all'opposto, ci ha gettato sulle amare scogliere del vuoto e della delusione esistenziale. In entrambi i casi, vuol dire che abbiamo fallito clamorosamente il nostro progetto esistenziale; che abbiamo sprecato la nostra occasione.
Scrive Sant'Agostino nelle «Confessioni»: "E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei fiumi e l'immensità dell'oceano e il corso delle stelle; ma di se stessi non si prendono cura."
L'uomo moderno si è gettato sul conoscere con lo stesso abito mentale con cui si è gettato su ogni altra cosa, dalla natura al mistero, dai propri simili alle ricchezze: con avidità smodata e con imperiosa brama di possesso e di dominio. E ogni nuova conoscenza si è tradotta in un grido di trionfo e in una specie di sfida al mistero del mondo.
Anche il linguaggio tradisce un tale atteggiamento mentale: non si parla, infatti, di conquiste del pensiero; di conquista della terra, del mare, dell'aria; perfino di conquista dello spazio? Non si chiamavano «Challenger», ossia «Lo sfidante», le navicelle spaziali americane lanciate in orbita negli anni Ottanta? Non disse forse un astronauta russo, al termine del suo viaggio nello spazio, di aver guardato in ogni direzione, ma di non aver visto Dio?
Ecco: tutto questo indica una volontà di conoscenza disgiunta dal vero sapere; di una volontà di conoscenza finalizzata all'autoglorificazione dell'uomo, ma priva di amore, di gratitudine e di compassione; di una volontà di conoscenza diabolica, il cui unico scopo è sottomettere e sfruttare ogni aspetto della realtà che abbiamo ricevuto come dono gratuito.

La conoscenza riguarda la dimensione del contingente e del finito e corrisponde alla sfera del profano.
Si esercita sugli enti che la mente può catalogare, misurare, quantificare: essa aumenta o decresce a seconda del numero di conoscenze che si possiedono.
Il sapere riguarda la dimensione del necessario e dell'assoluto e corrisponde alla sfera del sacro (nel senso etimologico del termine: consacrato, votato agli dei; e quindi, se si tratta degli dei inferi, maledetto).
Non si esercita sugli enti; al contrario, è esso che possiede e pervade la mente e lo spirito; né aumenta o diminuisce, poiché non dipende dal numero: ma è o non è.
Noi possiamo impadronirci della conoscenza, almeno fino a un certo punto; ma il sapere ci viene dato dall'alto: è una rivelazione che illumina e trasfigura il nostro intero essere.
Si possono accumulare conoscenze su conoscenze, pur restando fondamentalmente identici a se stessi; ma non si può pervenire al sapere, senza esserne intimamente trasformati e rinnovati.
La conoscenza è conoscenza di problemi e tentativo di trovare le relative soluzioni; il sapere è una finestra spalancata sull'abisso del mistero e non ammette risposte, men che meno risposte umane, ma solo un atto di apertura alla rivelazione.
Di possono conoscere tante cose e, tuttavia, si può rimane ignoranti; mentre il sapere è accesso a una chiarificazione definitiva che è, al tempo stesso, una trasmutazione alchemica dell'essere che la riceve e ne è investito.
Il Maestro "sa" non per aver letto numerosi libri, ma perché ha avuto il coraggio di mettersi radicalmente in discussione, abbandonandosi al mistero dell'Essere. È stato nel ventre della balena, come Giona, per tre giorni e tre notti: ha effettuato il viaggio più lungo e più ardito, quello nelle profondità insondabili dello spirito.
Da sempre, in tutte le civiltà umane e con la sola eccezione di quella moderna, non sono stati riconosciuti come Maestri coloro che conoscevano molte cose, bensì coloro che avevano raggiunto il sapere; meglio: che erano stati raggiunti dal sapere.
Erano ritenuti grandi coloro che avevano saputo farsi piccoli; erano ritenuti coraggiosi coloro che avevano guardato in faccia la propria paura; ed erano ritenuti ammirevoli coloro che non avevano ricercato il plauso delle folle, ma avevano cerato di piacere agli dei. E ciò è sempre stato una cosa rara: talmente rara da suscitare stupore e ammirazione incondizionata.
Per conoscere molte cose, viceversa, è sufficiente una macchina: nessuna mente umana può rivaleggiare con un computer, quanto alla capacità di accumulare ed elaborare conoscenze. La conoscenza non implica un viaggio dell'anima, né richiede il coraggio di guardare nella bocca dell'abisso; e, quanto alla quantità di nozioni ch'essa implica, un bambino può acquisirne più di suo nonno, che ha camminato sulla terra per un tempo sette od otto volte maggiore.
Soltanto la civiltà moderna ha ritenuto di doversi inchinare davanti alla conoscenza e, in particolare, davanti a quella particolare forma di conoscenza che è la tecnica. E soltanto la civiltà moderna si è scordata del sapere, ignorando la figura del Maestro.
La civiltà moderna ha ritenuto di non aver bisogno di Maestri, ma di doversi affidare solamente ai tecnici: uomini e macchine in possesso di grandi conoscenze.
La civiltà moderna, fra tutte quelle a noi note, è l'unica che si stia autodistruggendo; e, pur vedendo ciò ormai molto chiaramente, non sembra seriamente intenzionata a modificare la rotta. Le sue guide, i tecnici e i calcolatori elettronici, hanno segnalato il pericolo, ma non si può dire che ne abbiano trasmesso tutta l'urgenza, né una autentica consapevolezza.
È possibile conoscere il pericolo di un certo modello di "sviluppo", ma non essere in grado di elaborare una risposta adeguata, per mancanza di autentico sapere.
Questo avviene perché la vera consapevolezza del pericolo non è mai un fatto esclusivamente tecnico, ma ha anche a che fare, di necessità, con la salvezza della nostra anima. E il pericolo che attualmente ci minaccia non è solo o principalmente di natura materiale: non riguarda solo o principalmente la distruzione dell'ambiente, il cambiamento climatico o l'eventuale uso, in guerra, degli arsenali nucleari: ma riguarda soprattutto la nostra anima.
Noi stiamo rischiando di perdere la nostra anima; non solo: stiamo tentando di distruggere anche l'anima delle cose, l'anima del mondo (cfr. il nostro precedente saggio: «Esiste un progetto consapevole per strappare l'anima del mondo?», consultabile sui siti di Edicolaweb e di Arianna Editrice).
Il sapere, a differenza della conoscenza, è anche consapevolezza del senso del limite e del senso del mistero, appunto perché investe la sfera del sacro.
Il vero sapere, pertanto, non è l'accumulo orgoglioso di conoscenze che, innalzate una sopra l'altra, ci consentano di sfidare Dio (come nella filosofia sottesa al progetto astronautico del «Challenger»), simili a una moderna Torre di Babele; ma è, al contrario, la consapevolezza della nostra finitudine e, al tempo stesso, del nostro anelito alla trascendenza e all'eterno.
Il vero sapere è la rivelazione della verità che sta al di là delle cose; e la strada per giungervi non è l'accumulo delle conoscenze, se non nel senso di acquisire consapevolezza di quanto esse siano parziali e illusorie, a paragone del mistero dell'Essere.
Perciò, in genere, chi accumula molte conoscenze sviluppa anche l'ingenua presunzione del bambino che crede di poter travasare l'acqua del mare in una buca scavata nella sabbia; mentre il vero sapiente è un viandante che va alla ricerca della verità e che sa di non sapere nulla e, perciò stesso, è in condizione di poter ricevere il dono dell'illuminazione.
La conoscenza, specializzandosi nelle varie branche della scienza, vorrebbe, poco a poco, eliminare ogni problema, credendo - con ciò - di eliminare anche il mistero. La sapienza sa che il mistero resterà sempre, per il semplice fatto che esso è parte di noi, ed è il segno che noi siamo ancora vivi e ancora umani.
La conoscenza, spogliata del mistero, è un occhio disumano aperto sul mondo: senza bontà, senza amore, senza compassione. Cose mostruose vengono fatte in nome della conoscenza: vivisezione di animali, mutazioni genetiche sulle piante, perfino clonazione di esseri viventi.
La sapienza, al contrario, è uno sguardo amorevole e compassionevole sul mondo, che tutto abbraccia con infinito stupore e con infinita gratitudine.
Scrive Sant'Agostino («Confessioni»X, 6, 9-10):

«Interrogai la terra, e mi rispose: "Non sono io"; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovavano in essa. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con anime vive, e mi risposero: "Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi. Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: "Neppure noi siamo il Dio che cerchi", rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo: Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui"; ed essi esclamarono a gran voce: "È lui che ci fece". Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro rispose, la loro bellezza. Allora mi rivolsi a me stesso. Mi chiesi: "Tu, chi sei?"; e risposi: "Un uomo". Dunque, eccomi fornito di un corpo e di un'anima; l'una esteriore, l'altra interiore.  A quale dei due chiedere del mio Dio, già cercato col corpo dalla terra fino al cielo, fino a dove potei inviare messaggeri, i raggi dei miei occhi? Più prezioso l'elemento interiore. A lui tutti i messaggeri del corpo riferivano, come a chi governi e giudichi, le risposte del cielo e della terra e di tutte cose là esistenti, concordi nel dire:" Non siamo noi Dio"; e: "È lui che ci fece". L'uomo interiore apprese queste cose con l'ausilio dell'esteriore; io, l'interiore, le ho apprese, io, io, lo spirito, per mezzo dei sensi del mio corpo. Interrogai sul mio Dio la mole dell'universo, e mi rispose: "Non sono io, ma è lui che mi fece".
Non appare a chiunque è dotato di sensi compiutamente questa bellezza? Perché dunque non parla a tutti nella stessa maniera? Gli animali piccoli e grandi la vedono, ma sono incapaci di fare domande, poiché in essi non è preposta ai messaggi dei sensi una ragione giudicante. Gli uomini però sono capaci di fare domande, per scorgere quanto in Dio è invisibile comprendendolo attraverso il creato. Sennonché il loro amore li asservisce alle cose create, e i servi non possono giudicare.
Ora queste cose rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare; non mutano la loro voce, ossia la loro bellezza, se uno vede soltanto, mentre l'altro vede e interroga, così da presentarsi all'uno e all'altro sotto aspetti diversi; ma, pur presentandosi entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l'uno è muta, per l'altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce ricevuta dall'esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono.»

Ecco, questa è la differenza.
Chi desidera la conoscenza fine a sé stessa, non ha occhi per vedere la bellezza del mondo; e, non vedendola, non si interroga sulla sua origine.
Chi, invece, cerca la sapienza, vede la bellezza del mondo, ne esulta e ne ringrazia; attraverso i suoi occhi bene aperti, si fa strada la Verità che è all'origine di una simile magnificenza.
È questa la facoltà che dovremmo recuperare, per il nostro stesso bene.
Inebriati dalle nostre conoscenze, non vediamo più la bellezza, non ci interroghiamo su di essa, e non apriamo il nostro essere all'amore. Il sapere che ne deriva è sterile, insensibile, a volte maligno e crudele.
Ma il vero sapere è di tutt'altro genere. Scaturisce da una apertura e da un atteggiamento di disponibilità di tutto il nostro essere ed è fatto di contemplazione disinteressata, di benevolenza, di gioiosa celebrazione del mistero che è al di là delle cose.
Ed è di questa forma di sapere che abbiamo bisogno, se teniamo alla nostra anima.