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La forza del male è nel suo circolo vizioso: perché esso chiama, nelle vittime, ancora altro male

di Francesco Lamendola - 10/11/2008


Nel secondo capitolo de «I promessi sposi», là dove Manzoni descrive la ridda di pensieri furiosi che sconvolgono Renzo, quando il giovane riesce a farsi dire da don Abbondio il vero motivo del rinvio delle nozze con Lucia  (e cioè la minaccia dei bravi di don Rodrigo), lo scrittore fa una osservazione di carattere generale sulla circolarità del male, quello agito e quello subìto:

«I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi».

La cosa è abbastanza chiara quando si tratta di azioni malvagie clamorose ed evidenti, in particolare quando viene esercitata la violenza fisica a danno di qualcuno che, in quelle date circostanze, non è in grado di difendersi, ma che allora comincerà a nutrire in cuore, forse, un furioso desiderio di vendetta. In quelle circostanze, anche le persone più miti e pacifiche possono essere tentate dalle vie del male, ossia dal contagio della violenza cui manca, per esprimersi, solo il presentarsi di una circostanza favorevole.
Quando tale occasione, tuttavia, si presenta, ecco che l'offeso si abbandona una vendetta lungamente carezzata nel pensiero e, magari, vi eccede, spingendosi molto al di là del torto subito o dell'offesa patita. Come non ricordare, a questo proposito, il magistrale racconto di Edgar Allan Poe, «Il barile di Amontillado» (cfr. il nostro saggio: «letture e riflessioni sull'opera letteraria di Edgar Allan Poe», consultabile sul sito di Arianna Editrice).
La violenza altrui, cioè, porta alla luce la violenza insita in ciascuno di noi: è questo il circolo vizioso del male, che lo fa crescere in misura esponenziale e ai cui progressi è così difficile opporsi. Esso, per così dire, risveglia la belva che giace addormentata sul fondo della coscienza di ciascuno; forse per questo dice un'antica sentenza che anche l'uomo più timorato di Dio non è immune dal pericolo di trasformarsi in una creatura malefica, in un lupo mannaro.
L'uomo non potrebbe compiere il male, se in lui non vi fosse già una inclinazione verso di esso: altrimenti, il male subito non scalfirebbe la coscienza, per quanto dolorosamente possa essere recepito sul piano esistenziale. Ma il grande mistero del male e la sua potenza segreta consistono appunto in ciò: che esso, giungendo dall'esterno, fa appello alle potenze oscure che si tenevano acquattate in qualche buio recesso dell'anima, in attesa di potersi liberare. Così, il male che viene dall'esterno suscita quello che giaceva, latente, all'interno della coscienza, in un progressione reciproca irresistibile.

Ha osservato, sempre a proposito della concezione morale manzoniana, il critico Tommaso Di Salvo (A. Manzoni, «I promessi sposi», Bologna, Zanichelli, 1987, pp. XIV-XV):

«Anche una semplice osservazione della realtà quotidiana dell'uomo rivela la insistente ed affannosa presenza di un male che sta sotto od accompagna ogni nostro gesto, ogni nostra partecipazione alla vita sociale. Sembra quasi che l'uomo scorra attraverso un territorio in cui si aprono insidiose zone di intricata e inestricabile vegetazione, di paludi malsane e pestifere, di terribili sabbie mobili in cui è sempre facile cadere, anche senza avvedersene, senza che c sia un deliberato proposito di violare una norma, una legge. Ed il destino di sofferenza e di insidia si fa ancora più grave, quando si osservi che ogni nostro movimento, anche quello teso alla liberazione dalla stretta della sabbia mobile, si risolve in maggior male, in un'accelerazione dello sprofondamento. O, se si vuole, la vita dell'uomo si determina come una serie circolare di cerchi che sempre più si dilatano e stringono in una morsa a cui è impossibile sfuggire: come una superficie di acque agitate all'improvviso dal lancio di un sasso: i cerchi che ne derivano provocano l'insorgenza di altri cerchi che via via si allargano fino ad estendersi ai limiti della superficie stessa. Tutto il mondo vive sotto l'assurda e violenta legge del male ed il male ora si annida come serpente e serpeggia occulto e invisibile ora si accampa prepotente.»

Ma il male che gli uomini possono fare ai propri simili non è sempre clamoroso ed evidente e non sempre si traduce in violenza fisica.
Può essere silenzioso e ovattato e può darsi che, all'esterno, nulla o quasi nulla ne trapeli; ma non per questo costituisce un delitto meno grave dal punto di vista di quella giustizia ideale che dovrebbe presiedere i rapporti interpersonali e fondare il criterio supremo di verità in tutte le relazioni tra uomo e uomo, da quelle di semplice vicinato, a quelle di lavoro, a quelle - più delicate di ogni altra, sotto il profilo della vita morale - affettive e sentimentali.
Il tradimento dell'amicizia; l'inganno di colui che si fida, da parte dell'amico o dell'amante; la colpevole leggerezza con cui si suscitano speranze e illusioni, per poi voltare le spalle all'altro, abbandonandolo in un abisso di tenebre angosciose: tutto questo non è meno grave del male che si commettere sotto la forma della violenza fisica o, comunque, di una prepotenza o di una malafede deliberate.
Anche in questi casi - o, se possibile, in questi in misura ancor maggiore - il male chiama altro male, nel senso che suscita, nella parte offesa, sentimenti di rancore, odio, desiderio di vendetta, i quali, alimentati da quella trista consigliera che è la sofferenza cieca e priva di speranza, stravolgono letteralmente la vita dell'anima, pervertono il senso morale, portano a galla la parte peggiore esistente in ciascun essere umano.
Accade così che una persona, la quale aveva riversato tutta la propria capacità di amare su un proprio simile, vedendosi crudelmente usata e poi gettata in un angolo, come uno straccio inutile, si possa sentire spinta a trasformare tutto il bene in male, tutto l'amore in odio, tutto il dono di sé nel suo esatto contrario: la volontà di distruggere l'oggetto del perduto amore.
Si dirà che, se ciò accade, è segno che quell'amore, per quanto grande fosse stato, era tuttavia molto imperfetto, molto cieco, molto, troppo umano; che quel desiderio di donarsi non nasceva da una sovrabbondanza del cuore, ma da una sua povertà e da un bisogno di rifugiarsi in un porto sicuro;  che quel desiderio di vedere la felicità dell'altro era il travestimento di un feroce, permaloso amor di sé, di una egocentrica aspirazione al proprio benessere.
Può essere.
Ma quanti sono gli esseri umani i quali, nell'amicizia o nell'amore, non portano almeno una certa misura di amor di sé, di bisogno di sicurezza, di aspirazione ad aggrapparsi a un saldo punto di riferimento: quanti possono dirsi del tutto esenti da tali difetti? Quanti possono dirsi interamente, totalmente disinteressati; quanti nutrono un sentimento assolutamente "puro"?
Eppure, perfino in questi rari casi, la delusione per il male subito è fortissima. Perfino in questi rari casi, chi subisce un tradimento non rimane impassibile, né si consola pensando che l'ingratitudine e la perfidia della persona amata sono, magari, solo parzialmente consapevoli; oppure che non nascono da premeditata cattiveria, ma da insufficienza della sensibilità e da fragilità del senso morale.
Il Vangelo di Giovanni ci dice che Cristo, durante l'ultima cena, nell'imminenza del tradimento di uno dei suoi discepoli, sentiva la propria anima «triste fino alla morte». Il tradimento di coloro che amiamo fa sempre male; sempre: non c'è ragionamento che valga ad attenuarne il dolore lacerante, implacabile.
Evitare che il senso di inganno, di fallimento, di ingiustizia, si trasformino in odio e desiderio di vendetta; evitare che il male che ci assale dall'esterno faccia appello alle forze infere, che albergano in ciascuno di noi, traendole fuori dall'oscurità: questo è il cimento supremo. È lì che si gioca la battaglia per la salvezza della nostra anima; è lì che si decide se la spirale del male continuerà ad autoalimentarsi all'infinito, o se verrà finalmente spezzata, così come si schiaccia il capo ad una serpe velenosa, che tenta insistentemente e malignamente di morderci.
Noi non abbiamo il potere di impedire al male che proviene dall'esterno di aggredirci e, talvolta, di coglierci a tradimento, proprio da chi meno ce lo aspetteremmo; proprio da colui al quale avevamo rivolto tutta la nostra capacità di bene, tutta la parte migliore di noi stessi.
Abbiamo però il potere di spezzare il cerchio diabolico del male, se riusciamo a padroneggiare la reazione della nostra coscienza ferita che grida vendetta e che agogna alla distruzione dell'offensore, di colui che ci ha inesplicabilmente tradito.
Non è cosa facile, né basta un semplice sforzo di buona volontà. Occorrono invece due cose, senza le quali ogni buon proposito risulta vano: primo, una certa attitudine alla benevolenza e alla mitezza, che può essere anche frutto di esercizio costante, se non la si possiede come un dono naturale; secondo, la capacità di domandare aiuto, negli spasimi dell'angoscia morale, non alle forse infere, per avere vendetta, ma a quelle superiori, per avere pace.
Da solo, l'essere umano non può farcela. Non è nella sua natura fermare in se stesso la spirale del male, una volta che eventi esterni l'abbiano messa in movimento. Può invece accadere che esso creda di esserci riuscito: ma, come aveva ben visto Nietzsche, al prezzo di quella sottile perversione che consiste nel trasformare il perdono in un veleno fatto di presunzione, ipocrisia, falsa mitezza: cioè in una forma raffinata di vendetta, che "sporca" l'anima con il gusto amaro e nascosto della cattiva coscienza.

Questo è il grande mistero.
Liberare il male che è in noi, lasciare campo libero all'odio e alla cattiveria, risulta naturale e quasi spontaneo: non è assolutamente una operazione riflessa, ma istintiva e immediata. Viceversa, fare appello al bene di cui noi, con le nostre sole forze, siamo capaci, è cosa laboriosissima e ardua; né esso possiede una forza sufficiente a contrastare, deviare e spegnere le fiamme dell'odio e del desiderio di vendetta, una volta che esse abbiano trovato anche un modesto alimento.
A chi ci obietti che questa convinzione corrisponde a una forma di pessimismo antropologico, noi rispondiamo che non è pessimismo, ma realismo. Infinite volte abbiamo visto, fuori di noi e dentro di noi, la potenza delle forze del male; molto meno abbiamo avuto modo di osservare quelle del bene: né ci è parso che queste ultime potessero contrastare le prime, su un piano di parità.
Il bene, nell'uomo, è sempre più debole del male, perché è fatalmente soggetto a trasformarsi nel suo contrario, quando si verificano determinate circostanze; mentre è cosa più unica che rara che si verifichi il contrario. Esistono creature capaci di trasformare il male in bene, l'odio in compassione e benevolenza: ma sono creature assolutamente eccezionali. Di norma, avviene il contrario: l'uomo, aggredito dal male, risponde col male; tradito, diventa vendicativo; offeso, diventa feroce; deluso, diventa smanioso di rivalsa.
È per questo motivo che una onesta disamina sulla realtà della vita interiore ci porta, quale logica conclusione, a postulare la necessità di una potenza benefica alla quale l'uomo può rivolgersi, allorché si accorge di sprofondare nelle sabbie mobili del male (per usare la metafora del Di Salvo), ma che non ha la sua origine in lui stesso, né la sua base nelle sue naturali facoltà.
In quanto essere naturale, l'uomo è portato più al male che al bene: non perché ami il male e lo preferisca in quanto tale: ma perché la sua debolezza gli rende più facile inclinare verso il basso che protendersi verso l'alto; dare via libera alle forze infere che giacciono entro di lui, piuttosto che fare appello alle forze benefiche, che lo trascendono.
Grande, dunque, è la responsabilità di coloro che fanno deliberatamente del male al proprio simile, perché la loro azione li danneggia due volte: la prima volta, colpendoli dall'esterno; la seconda, suscitando in essi le forze del male, che li rendono - a loro volta - ingiusti e cattivi.
Può anche accadere - ed è un caso assai più frequente di quanto non si pensi, nelle condizioni spirituali della società odierna - che l'autore di un male morale non abbia piena consapevolezza della malvagità della propria azione.
Ciò è quasi impossibile nel caso di una violenza fisica (per quanto la coscienza sia abilissima nel fabbricarsi ogni sorta di giustificazioni e di scusanti), ma è relativamente facile quando si commette una violenza morale a danno di qualcun altro. Il nostro naturale egoismo ci porta a minimizzare il male compiuto e, al limite, a non voler riconoscerlo come tale. Altro discorso è se la parte più intima della nostra coscienza si lasci autoingannare altrettanto facilmente; secondo noi, no: e la conseguenza di questa rimozione non tarderà ad inquinare e avvelenare segretamente tutta la vita dell'anima, conferendo opacità e grigiore all'intera esistenza.
In ogni caso, colui che subisce questa particolare forma di male morale - un male, cioè, non apertamente riconosciuto come tale da colui che lo ha commesso - non soffre di meno, per il fatto di intuire che quel male non gli è stato inflitto volontariamente. Egli soffre ugualmente; e soffre di scoprire, con raccapriccio, che la persona amata, della quale cui si fidava ciecamente, possiede un livello morale così basso, da non aver nemmeno compreso il male che gli ha inflitto.
La via maestra per uscire da quella sofferenza, per spezzare il cerchio del male resta peraltro, anche in questo caso, quella di fare appello a quel bene perfetto che non è in potere dell'uomo, ma può essergli dato, se egli è abbastanza umile e abbastanza grande da saperlo invocare.