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Ogni passo che ci porta fuori del nostro piccolo io è una apertura che ci avvicina all'Assoluto

di Francesco Lamendola - 10/11/2008


Una delle parabole di Cristo che maggiormente provocano l'ascoltatore è quella dei due figli del padrone della vigna, così come è narrata nel Vangelo di Matteo (21, 28-32).

«In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: "Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo, disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?". Dicono: "L'ultimo".
E Gesù disse loro: "In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.»

Vi sono rispecchiate due maniere caratteristiche di porsi davanti all'imperativo morale della coscienza: il sì formale e abitudinario, che non si traduce in atti conseguenti; e il no reciso, seguito però da un soprassalto dell'anima e da un impegno fattivo e generoso.
Sono due casi limite; ma Cristo amava ammaestrare l'interlocutore scegliendo dei casi limite, come quando scelse di rappresentare il "prossimo" nella figura di un Samaritano, ossia di un disprezzato infedele, piuttosto che in quella di un sacerdote o di un levita, come i suoi ascoltatori si sarebbero attesi che facesse.
Ora, non intendiamo qui addentrarci in una esegesi del passo neotestamentario da un punto di vista generale; bensì prendere spunto da esso per mettere bene in luce uno dei concetti che esso sottende e che a noi, qui, particolarmente interessa: quello che nessun progresso verso l'Assoluto è possibile, se non al prezzo di allontanarsi dal proprio io egoistico, quello che il Buddhismo chiama "il piccolo io", sempre avido di gratificazioni e sempre attaccato alle cose.

Il primo dei due figli della parabola di Cristo non ha avuto il coraggio di uscire dal suo piccolo io, ma nemmeno quello di dichiarare apertamente la sua indisponibilità alla richiesta del padre, ossia all'imperativo morale. Ha simulato una adesione che non aveva intenzione di tradurre in pratica, per ipocrisia e per pusillanimità.
Il secondo figlio, invece, si è ribellato apertamente alla richiesta del padre e ha pronunciato un "no" categorico, quasi in tono di sfida. Ma vi sono, nell'uomo, molte più cose di quante non appaia all'esterno e, sovente, anche più di quante non immagini egli stesso. Nel proclamare il suo "no", il giovane non aveva tenuto conto di questo mistero; ma poi, col trascorrere delle ore, una protesta era salita dall'interno della sua anima, contro la ribellione alla richiesta del padre: una protesta contro se stesso, contro il suo rifiuto.
Da quella protesta aveva avuto origine una profonda crisi interiore, che lo aveva sospinto, quasi per forza propria, verso quel dovere che, a parole, egli aveva dichiarato di rifiutare. E adesso i piedi lo portavano, misteriosamente e irresistibilmente, verso la vigna, verso il lavoro che aveva proclamato di non voler compiere.
Dov'era la sua coscienza, in quel momento? Quale dei due frammenti del suo io diviso era quello autentico: il primo, che aveva detto: "no" a suo padre; oppure il secondo, che stava obbedendo a quella richiesta?

Ogni qualvolta ci troviamo di fronte a un imperativo morale che c'interpella e ci mette in una posizione scomoda davanti a noi stessi, ecco che scopriamo l'esistenza di due io all'interno della nostra coscienza: il piccolo io e il grande Io.
Il primo è fatto di attaccamento alle cose e, perciò, di desiderio di comodità e di benessere: vorrebbe essere sempre lodato, apprezzato, ammirato, desiderato. Il secondo è fatto di distacco, equanimità, benevolenza, compassione: non cerca le lodi e non teme le critiche; non desidera un posto in prima fila, anzi, non saprebbe proprio che farsene.
Noi tendiamo a identificarci con il primo, almeno nella maggior parte dei pensieri e degli atti della nostra vita quotidiana. È per questo che siamo così incostanti, così viziati e anche così vulnerabili: bastano una parola, un'occhiata storta per ferirci; non parliamo, poi, di un mancato apprezzamento o  di un biasimo esplicito.
Pur di ottenere riconoscimenti e di ricevere calore e amore, il nostro piccolo io sarebbe disposto a fare quasi qualunque cose: anche a simulare, a ingannare, a mentire; anche a farsi passare per altro da sé, a pavoneggiarsi con virtù che non possiede. Nella sua ricerca di onori e di attenzioni, è disposto a strisciare, a mendicare, a umiliarsi senza ritegno: e, quel che è più grave, a volte senza esserne nemmeno consapevole.
Il grande Io, l'Io profondo, è calmo e forte, sereno e distaccato. Non lo turbano le maldicenze, non lo inquietano i dispetti, non lo scuotono le minacce; né valgono a illuderlo e fuorviarlo lusinghe di qualsiasi genere. Sa di essere saggio, anche se lo trattano da stupido; sa di essere forte, anche se lo accusano di debolezza; sa di essere importante, anche se lo ignorano o, addirittura, lo disprezzano. Non cerca la lode degli altri e non ha paura dei loro attacchi.
Il grande Io non è solo "nostro" nel senso comune del termine, ma è la parte di noi che condividiamo con la dimensione che sta al di sopra di noi. È nostro e non è nostro: lo perdiamo, quando cerchiamo di stringerlo; lo ritroviamo, quando lo lasciamo andare. La sua forza risiede nel non attaccamento; la sua sicurezza, la sua intrepidezza, la sua imperturbabilità, non sono merito nostro, ma gli vengono dall'alto.
Può darsi che molti di noi ignorino perfino di possederlo: non se ne sono mai accorti, perché non sono mai usciti dagli angusti confini del piccolo io. Rassomigliano ad un uomo il quale, da anni ed anni, si sia abituato a vivere in una buia cantina che sa di chiuso e di muffa,  mentre ignora di possedere un magnifico palazzo, pieno di luce e di sole, con tante stanze dagli alti soffitti e tanti balconi spalancati sul cielo azzurro.
Ignorano di possedere il bel palazzo luminoso quegli esseri umani che non hanno mai imparato a dire: "tu"; che non hanno mai osato staccare le loro mani, simili ad artigli, dalle cose e dalle persone cui si afferrano in maniera compulsiva, terrorizzati all'idea di restare poveri, se dovessero allentare la presa. Invece, il segreto per accedere al grande Io è proprio questo: recidere le forme morbose di attaccamento, lasciarsi andare al flusso della forza cosmica che scorre, e che si può definire con una sola parola: Amore.
Il piccolo Io non sa cosa sia l'Amore: conosce solo capricci e languide attrazioni; ma, in fondo, non ama nessun altro che se stesso. Non si è mai fatto da parte per amore di qualcuno; e, da perfetto egocentrico, ha sempre identificato il bene altrui con il proprio.

Ci si può domandare se il secondo dei due fratelli abbia dovuto faticare molto per tornare al senso del dovere da compiere, per rinunciare all'egoismo del piccolo Io e farsi strumento di un superiore senso di giustizia.
Faticare, crediamo di no: almeno, non nel senso comune del termine. Liberarsi dal potere tirannico del piccolo Io può apparire una fatica solo finché si rimane nella prospettiva della vecchia mentalità, basata sull'attaccamento e sul bisogno patologico di soddisfare ogni capriccio.
Dal punto di vista di quel Sé cui aspiriamo per realizzarci pienamente, invece, si tratta di una vera e propria liberazione. Più che di sottoporsi a una fatica, possiamo dire che si tratta di rompere un muro psicologico, una barriera di cattive abitudini. Ma, poi, la ricompensa è infinitamente superiore alla rinuncia: è la scoperta del cielo, limpido e alto sopra di noi, dopo l'oscurità e l'odore di chiuso della cantina.

Ha scritto W. Quack (in «La Bibbia della domenica, Anno A, vol. IV, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1975, p. 206):

«…Principi, posizioni, punti di vista, tutto ha un valore relativo. Riguardo alla volontà di Dio, invece, si tratta sempre di essere in cammino, di un andare nella vigna. Ogni passo compiuto lontano da me stesso e nell'ascolto invece della volontà divina, è un passo verso Dio. Chi è colui che sa già in partenza in quale direzione bisogna cercare Dio? Lo spirito infatti soffia dove vuole! Ogni singolo passo è un passo nella direzione di Dio solo se è seguito da altri passi, con spirito di disinteresse e di servizio…»

Noi possiamo identificare la voce del dovere, che ci interpella, come un invito di Dio, oppure come il richiamo della nostra coscienza. Ciascuno serve a suo modo la verità; ciascuno se la rappresenta secondo le proprie convinzioni e le proprie esigenze interiori.
La verità non muta aspetto per il fatto che noi le possiamo attribuire nomi e volti diversi; non diviene altro da sé, perché non la sappiamo riconoscere nel pieno del suo fulgore.
Inoltre, la verità non ci domanda le credenziali per arruolarci al suo servizio, né  si indebolisce per il fatto che a parole la respingiamo; purché poi, interpellati dall'intimo della nostra coscienza, ci mettiamo in cammino verso la vigna.
La vigna della verità ha bisogno di molti operai. Non è importante la qualifica che possiedono o il modo in cui vengono chiamati; è importante che avvertano in sé la chiamata e che si affrettino al lavoro, lealmente e senza condizioni.
Non è neanche importante se sono entrati nella vigna per lavorarvi sin dalle prime luci dell'alba, o se hanno atteso fino a poco prima del tramonto. Ciascuno ha i suoi tempi per comprendere, ciascuno  ha la sua battaglia da condurre per vincere i desideri e le paure del piccolo Io e per spezzare le catene con cui esso tiranneggia il vero Io.
Chi entra nella vigna all'ultimo momento, forse, ha più merito di chi vi è entrato al levare del sole, perché ha dovuto percorrere, per arrivarvi, una strada molto più lunga e accidentata, ferendosi i piedi e sbucciandosi le mani.
Ma l'importante è presentarsi all'appello, dire di sì con i fatti.
Nella vigna non servono le chiacchiere e non basta dire di sì: bisogna entrare, rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro. Solo questo conta, e nient'altro.
Può anche accadere che gli operai che erano entrati fin dal primo mattino, al vedere quei ritardatari, si ingelosiscano e storcano il naso, irritati al pensiero di poter essere equiparati a loro, essi che hanno lavorato tanto di più.
Nella vigna, però, non conta tanto la quantità del lavoro svolto, quanto piuttosto la qualità. Conta lavorare bene, più che lavorare molto. E lavora bene chi lavora con cuore puro, senza confrontare il proprio lavoro con quello degli altri.
Infatti, la necessità di molti operai non nasce dal fatto che la vigna ha realmente bisogno di loro, ma dal fatto che essi hanno bisogno di seguire la via del dovere. Non è la mole del lavoro svolto che conta, ma il fatto che ciascuno si senta chiamato e che ciascuno si impegni al massimo, mettendosi in gioco senza risparmio.
Non verrà domandato all'operaio quanti cesti di uva ha vendemmiato, ma se ha riconosciuto la chiamata e se fatto del suo meglio, una volta entrato nella vigna.
Ce n'è di uva, che attende ancora le cesoie del vignaiolo!
Ma la vendemmia più grande è quella che il vignaiolo compie nel mistero della propria anima.