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Ognuno deve partire alla ricerca della sua personale «terra necdum cognita»

di Francesco Lamendola - 11/11/2008

 

Cara Sabina, voglio raccontarti un ricordo d'infanzia.
Da bambino mi ero entusiasmato per un antico mappamondo - non so dove lo avessi visto, forse nella vetrina di un cartolaio - sul quale avevo potuto leggere la scritta: «Terra nondum cognita» o «Terra necdum cognita»; e, benché non conoscessi ancora il latino, mi ero immaginato che volesse dire, più o meno, «terra inesplorata», «terra non ancora conosciuta».
Non sapevo che si trattava di una nozione della geografia pre-moderna, vecchia di molti secoli: per un bambino, il concetto di «ieri» e quello di «sei settimane fa» o di «seicento anni fa» non differiscono di molto, dopotutto.
Del resto, sapevo che esistevano ancora delle regioni inesplorate, in varie zone del pianeta; né l'uomo aveva ancora impresso la sua impronta sulla superficie del suolo lunare (ammesso che l'abbia davvero fatto, nel 1969 o negli ani successivi: il che non è poi tanto sicuro come ci vorrebbero far credere; ma questo è un altro discorso).
Dunque, nella mia mente di bambino l'idea che vi fossero state delle ampie zone inesplorate del nostro pianeta, segnate sulle carte geografiche con delle misteriose zone bianche, e l'idea che ve ne  fossero tuttora, erano una sola ed unica cosa.
E la stessa, felice indistinzione vale anche per i concetti relativi allo spazio: per un bambino, l'idea di un luogo distante un chilometro e quella di un luogo distante centinaia o migliaia di chilometri, non presentano una autentica differenza di grado: si tratta sempre di un altrove, e l'altrove è indistinto, come nelle fiabe. Dove si trova la Baghdad delle «Mille e una notte»? Per quel che ne può supporre un bambino, potrebbe anche essere oltre la collina che sorge dietro casa, o al di là del bosco che s'intravede all'orizzonte.
Lui non lo sa, ma "quella" Baghdad è, per lui, un luogo dello spirito, non un luogo sulla superficie della Terra. È per questo che non si meraviglia affatto di trovare, sull'Isola che non c'è, tanto i pirati di Capitan Uncino, quanto Peter Pan e Wendy, e perfino i pellerossa che danzano attorno al totem del villaggio: non coglie né gli anacronismi, né le incongruenze di luogo. Per lui tutto è possibile, perché nessuna mano è venuta ancora a tracciare una linea divisoria fra il regno del possibile e quello dell'impossibile.
Bene; ora torniamo alla Terra Incognita.
Io non sapevo, esattamente, dove e quando fosse stata impressa quella dicitura sul mappamondo;  sapevo solo che esisteva il concetto di Terra Incognita: dunque, con la perfetta coerenza logica dei bambini, pensavo che quella regione inesplorata potesse trovarsi benissimo nei paraggi, magari a poca distanza da casa mia, popolata di cose estremamente affascinanti, perché indistinte e inafferrabili.
Detto fatto, mi misi alla sua ricerca.
A quel tempo, amavo fare delle lunghe camminate solitarie, allontanandomi quanto più possibile dal centro della città - benché si trattasse di una città di provincia, molto tranquilla e niente affatto disordinata o rumorosa. Provavo per la mia città di un sentimento profondo, quale non ho mai più provato per alcun altro luogo al mondo; ma, per me, era pur sempre una città; ed io mi sentivo istintivamente attratto dalla campagna, dal suo verde, dalla sua pace.
Perciò mi mettevo di buon passo sulla strada, e il mio cuore si apriva solo quando alle case fitte del centro succedevano quelle, più diradate, della periferia; e si allargava ancor più quando i campi facevano la loro comparsa, dapprima a brevi tratti intervallati da edifici, poi sempre più liberi ed ampi, sempre più vittoriosi sul paesaggio abitato dall'uomo.
Campi di grano, campi di granturco, campi di riso, vigneti,  risonanti, d'estate, del concerto di migliaia di grilli; campi biondeggianti in mezzo al verde amico, sovrastati da un cielo limpido e aperto. Oppure, d'autunno, campi pensosi e malinconici, come è malinconica - giù nel profondo - l'anima friulana; oppure ancora, d'inverno, campi spogli e silenziosi, biancheggianti di neve e chiusi entro un orizzonte livido, color della cenere.
C'erano delle zone, dei piccoli borghi, talmente isolati e immersi nella vegetazione, da dare quasi l'impressione che la strada, a un certo punto, si sarebbe perduta in mezzo ai campi; scarsissimo il passaggio dei veicoli e raro lo spettacolo delle fabbriche, sullo sfondo; frequenti, invece, i pioppeti disposti lungo la strada, e allineati in file compatte e ordinate, simili a tanti soldati schierati a battaglia.
Più tardi, mi sarei sbizzarrito a percorrere quei luoghi in lungo e in largo con la bicicletta; ma, da piccolo, il mio unico mezzo di spostamento era il cavallo di san Francesco. Quanta strada hanno fatto le mie gambe, su quelle strade solitarie e pensierose, dominate dalla muraglia grigia delle montagne vicine!
Perché, fra tutte le strade che portavano fuori città, sempre, infallibilmente, io mi dirigevo verso quelle che conducevano al nord, con la vista delle montagne sullo sfondo, e con il corteo degli alti, maestosi abeti ai due lati del cammino; mai verso il sud, verso la bassa pianura che digrada dolcemente fino al mare.
Ciascuno ha il proprio paesaggio interiore; e cerca, istintivamente, di mettere anche quello esteriore in sintonia con esso.
Per me, il paesaggio dell'anima era quello alpino, e non potevo neppure concepire quelle mie solitarie esplorazioni, se non guardando in  faccia quello scenario imponente di montagne, con il vento che mi soffiava incontro: il bastione, ripido e vicinissimo, delle Alpi Giulie, sulla destra; e quello un po' più lontano, ma ancor più maestoso, delle Alpi Carniche, proprio di faccia, che si allungava a perdita d'occhio in ogni senso, bello e severo quanto nessun altro.

Dunque: dacché scopersi l'esistenza, ufficialmente riconosciuta e sanzionata dai geografi di professione, di quella inafferrabile «Terra necdum cognita», le mie peregrinazioni in vista dei monti acquistarono un senso nuovo e un sapore nuovo, ancor più esaltante.
Non era più un vagare senza meta, ma una esplorazione consapevole di territori sconosciuti, di misteriose realtà che si celavano oltre l'orizzonte noto; quali, nessuno poteva dirlo: ma la bellezza e l'emozione non stavano nella scoperta, bensì nella ricerca. Questo, oscuramente, sentivo dentro di me: che la ricompensa è già insita nell'atto del cercare, del mettersi in cammino con animo pieno di stupore e di freschezza.
Un poco come Don Chisciotte, vedevo le cose più umili trasfigurarsi in una luce di poesia: una vecchia casa abbandonata era la casa degli spiriti; l'ingresso di una galleria sotterranea, seminascosto dai cespugli, l'accesso ad un regno misterioso e inquietante; le cime degli abeti, nella chiara luce del pomeriggio d'ottobre, erano quelle della Foresta Nera (anch'essa un luogo dello spirito, più che un preciso riferimento geografico); il vecchio mulino in disuso, un ritrovo di fate e di gnomi o, per lo meno, un angolo pieno d'incantesimi. Perfino la squallida osteria fuori mano, persa nella estrema periferia sonnacchiosa, aveva in sé qualche cosa di unico, nascondeva la promessa di una arcana rivelazione…
E sempre quelle montagne sullo sfondo: così alte, così compatte, così scabre e spoglie e severe, ma anche così intensamente e dolorosamente belle, commoventi nella loro austera solitudine…
Un giorno - non ero solo, ma avevo portato con me alcuni amici, contagiandoli con l'ansia della mia ricerca - credetti quasi di essermi spinto davvero in una regione sconosciuta; ma non tanto in senso spaziale, quanto in senso spirituale.
Camminando a lungo, eravamo giunti in un sobborgo che non conoscevamo affatto; dei baracconi erano partiti da poco (lasciando, avrebbe detto Ungaretti, un sapore di «decomposta fiera»); e una serie di particolari - l'espressione o i gesti dei rarissimi passanti; la presenza di alcuni dettagli mai visti prima; il tempo del lungo pomeriggio estivo, che sembrava scorrere all'incontrario rispetto alle lancette dell'orologio - tutto, insomma, parlava il linguaggio di una rivelazione strana e inattesa: come se una misteriosa cortina si fosse sollevata, e un'altra dimensione avesse fatto irruzione nella nostra, quella della realtà di tutti i giorni.
Erano reali, quei «segni» che credevo di vedere? Una cosa sola posso dire: anche i miei amici li vedevano; se di suggestione si trattava, o, addirittura, di allucinazione, doveva dunque trattarsi di un fenomeno collettivo… Tornando a casa, quella sera, tutti quanti sentivamo che qualcosa d'insolito era accaduto. Forse non si era trattato che di una serie di coincidenze; forse i miei discorsi sul mistero ci avevano influenzati più di quanto non credessimo. Di fatto, però, restava in noi un fondo d'inesplicabile stupore. Forse, avevamo realmente sfiorato il velo che separa la realtà visibile e ordinaria da quell'altra realtà che, dicono, si nasconde dietro le cose, enigmatica e inafferrabile, e che solo raramente si lascia intravedere…

Né la mia ricerca della Terra Incognita si limitava a quelle lunghe, trepidanti escursioni  ai confini del territorio conosciuto.
Armato di carta e penna - ero ormai cresciuto abbastanza da prendere una certa familiarità con i libri e le carte geografiche -, mi mettevo al tavolino e compilavo delle apposite cartine. Non conoscendo la distinzione fra topografia e geografia, ma avendo ormai superato il confine tra l'Isola che non c'è (dove tutto è possibile) e la vita "vera" (dove solo alcune cose sono possibili), ricopiavo da una piantina topografica della mia città, le zone suburbane cui mi ero maggiormente affezionato, e che già nella toponomastica di origine celtica o germanica, oppure nella dicitura "Pra' di Sopra", o "Pra' di Sotto", sapeva di campagna, di spazi vasti e illimitati, di popoli e civiltà lontani nello spazio e nel tempo.
Che bellezza, quella piantina di cui mi servivo come base per il mio lavoro! Potevo starmene per delle ore a contemplarla: quelle ampie superfici gialle, indicanti l'aperta campagna, esercitavano sulla mia fantasia un influsso quasi magnetico. C'era una di quelle superfici che era contrassegnata, addirittura, dal nome di "Gran Selva"! Inutile dire che quella zona divenne la mia preferita, per la sola potenza evocativa di quel nome. Avevo sentito dire, del resto, da un adulto - una fonte autorevolissima - che si estendeva, non lontano dalla mia città, un bosco così grande e così fitto, che colui che vi entrava, rischiava di non trovare più la strada per uscirne…
Più di tutto, però, mi affascinava la rappresentazione grafica dell'ospedale cittadino, la cui piantina era stata disegnata dall'architetto che lo aveva costruito seguendo lo schema di un aeroplano stilizzato, con la fusoliera, la coda e le due lunghe ali aperte ai lati, come a voler abbracciare la maggior ampiezza possibile di campagna.
Sapevo che, fra quei padiglioni, esisteva anche un sanatorio per le malattie polmonari; e ciò spiegava la presenza, all'interno del perimetro ospedaliero, di una vasta macchia di conifere, che da lontano ricordava proprio un angolo di paesaggio alpestre. Quella zona era, fra tutte, la preferita nelle mie escursioni solitarie: contemplando, felice, quei pini, quegli abeti e quei cedri e respirando il loro profumo, io non pensavo affatto all'ospedale e alla ragione per cui erano stati piantati quegli alberi; io sognavo: sognavo le vette, l'aria pura, l'orizzonte incantevole e la profondità di un chiaro cielo di montagna.
In qualunque stagione intraprendessi quella particolare passeggiata, i miei pensieri vagavano lontano, trasognati, in una regione dello spirito fatta di bellezza , di poesia e di libertà; e la cima del campanile della chiesa vicina, svelta e aguzza come quelle di tanti altri conventi francescani, mi ricordava proprio le chiesette di alta montagna, coi tetti spioventi per il deflusso della neve; e i ballatoi di legno delle povere case di periferia evocavano l'immagine delle case di montagna, col loro profumo di legno e coi vasi di gerani alle finestre.
Ma torniamo alle carte geografiche che io stesso disegnavo.
Di tratto in tratto, fra il nome di una via o di un prato comunale, su quei fogli di carta giallina che acquistavo, con immenso piacere, nella vecchia cartoleria sotto i portici, tracciavo col pennino a inchiostro, in caratteri un po' goticheggianti, la dicitura: «Terra necdum cognita», proprio come l'avevo vista su quell'antico mappamondo: e mi piaceva ammirare il lavoro terminato, con quella singolare alternanza di particolari topografici realistici e di quei larghi spazi bianchi, contrassegnati dalla qualifica di Terra Sconosciuta.
Un giorno feci ammirare quei capolavori a mio fratello; il quale si limitò a osservare che una simile dicitura, se si usava - forse - per i continenti, non era adatta, però, per i dintorni di una città, che potevano essere raggiunti in pochi minuti di automobile…
Ecco, quello fu uno dei momenti in cui terminò la mia infanzia: riportato coi piedi per terra, dovetti prendere atto che le mie esplorazioni nelle campagne circostanti non potevano essere equiparate ai viaggi o alle navigazioni degli audaci esploratori di nuove terre e nuovi mari. Il principio di realtà si imponeva con la forza della sua evidenza.
Non riportò una vittoria totale, comunque; in qualche angolino seminascosto, qualche cosa di quel mio io bambino, pieno di stupore e d'immaginazione, è rimasta sempre viva e ben decisa a non lasciarsi sopraffare dalla «realtà» ordinaria…
Ammesso (e non concesso) che quella ordinaria sia, puramente e semplicemente, la realtà, la realtà che si suol definire «vera».

Ma perché, Sabina, ti sto raccontando queste cose?
Perché sono più che mai convinto che quel bambino, stupito ed entusiasta, è vivo - in diversa misura - in tutti i bambini; e continua ad esistere, per quanto ignorato e maltrattato, anche nell'adulto più pratico e disincantato.
Anche Giovanni Pascoli, nella sua prosa «Il fanciullino», ha sostenuto una tesi simile.
Perciò io non starò qui a ripetere cose già dette da altri, ma mi limiterò ad aggiungere una sola, ultima osservazione.
Ciascuno di noi ha bisogno di inseguire, nella propria vita, la sua personale «Terra necdum cognita»: non si tratta di una chimera, né di «di più», ossia di qualcosa di cui ci si può sbarazzare senza alcun rimpianto.
No: si tratta di qualcosa di estremamente importante e necessario, senza cui non si può vivere nel pieno senso della parola.
È una forza imperiosa che ci sospinge avanti, che ci aiuta a superare amarezze e delusioni, che preserva la freschezza e l'incanto del mondo intorno a noi e dentro di noi. Grazie ad essa, conserviamo la consapevolezza che gli enti non solo soltanto ciò che appaiono; che in essi - e ciò vale, ovviamente, anche per le persone, a cominciare da noi stessi - vi sono molte più cose di quante non crederebbe una filosofia puramente materialista.
E una tale consapevolezza ci avvicina, niente di meno, che al mistero dell'Essere.

Forse per questo mi sento così legato a te, Sabina: perché non vedo in te solo ciò che chiunque altro  può vedere, ma tante più cose; perfino più di quante non ne conosca tu stessa.