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Gesù Cristo dal Golgota al Kashmir nella congettura di Fida M. Hassnain

di Francesco Lamendola - 17/11/2008


Nel precedente articolo «Gesù è stato in India e nel Tibet? Il manoscritto trovato da Nicolas Notovich nel 1887» (consultabile sui siti di Edicolaweb e di Arianna Editrice) avevamo preso in esame l'ipotesi che Gesù Cristo possa essersi spinto, al seguito di qualche carovana di mercanti, fino in India, nel Kashmir e nel Tibet, attraverso la Mesopotamia e la Persia, durante gli «anni oscuri» della sua giovinezza e prima dell'inizio della predicazione pubblica in Galilea e in Giudea (ma non dopo la crocifissione, come vorrebbero certe tradizioni orali e come suppongono certe ricerche moderne, tanto spregiudicate quanto astruse).
Avevamo anche avuto occasione di ricordare, fra gli autori che si sono occupati della cosa, il filologo torinese Marcello Craveri, il quale, nella sua ormai celebre ricostruzione de «La vita di Gesù» (Milano, Feltrinelli, 1966, 1979 p. 54-55), sfiora velocemente l'argomento, esprimendo un parere recisamente negativo.
Lo fa, peraltro, senza risparmiare frecciate alle interpretazioni cristiane della vita di Gesù, dalle quali traspare un atteggiamento polemico e un po' petulante che dispiace, nel contesto di un'opera dalla quale ci si aspetterebbe - proprio per la natura estremamente controversa del soggetto -  il massimo del rigore e dello sforzo di obiettività

«Logicamente, alla teologia cristiana pare sconveniente dover ammettere che Gesù, figlio di Dio, abbia dovuto formarsi una cultura attraverso lo studio come tutti gli esseri umani. Si dice perciò che egli possedeva "la perfetta sapienza dei beati in cielo, ma che la manifestò progressivamente, altrimenti non lo avrebbero creduto vero uomo, se anche nella puerizia  avesse mostrato maturità perfetta di sapienza e di scienza" [quest'ultimo periodo è fra virgolette, ma non viene indicata alcuna fonte, sicché non si capisce se sia una citazione effettiva o una specie di citazione immaginaria].
Nel 4° e 5° secolo, invece, prevaleva la teoria dell'agnoetismo, dal greco γνοια (ágnoia) che significa "ignoranza", secondo cui Gesù, partecipando della natura umana, come entità reale e concreta, aveva condiviso tutte le qualità degli uomini, compresa l'ignoranza. Di opinione consimile sono modernamente i cosiddetti Kenotici, soprattutto teologi anglicani, seguaci della teoria della kénosi, in greco χένοσις, che significa "spogliamento": Dio ha trasmesso al figlio le sue divine proprietà (onniscienza, onnipotenza, ubiquità, ecc.), ma Gesù non ne ha fatto uso, perché si è spogliato, per autolimitazione, di codesti attributi.
Gli esoterici invece si compiacciono di immaginare che Gesù abbia compiuto la sua preparazione viaggiando tutti gli anni della giovinezza in India, in Egitto, in Persia, divenendo discepolo persino dei lama del Tibet e dell'Imalaja, seguace di Buddha e di Zoroastro.
Nel 1963 D. Diringer ha pubblicato a Mosca un antico Vangelo tibetano, da cui si dovrebbe dedurre addirittura che Gesù era indiano, e che comunque dall'India deriva il suo culto.
Ma nei Vangeli Gesù appare né più né meno come tutti gli Ebrei del suo tempo e del suo stesso ambiente Già da secoli la filosofia greca aveva posto le basi del razionalismo, ma Gesù, non diverso dai suoi conterranei, viveva ancora nella superstizione, credeva nel diavolo e negli angeli, credeva che le malattie fossero effetto di dèmoni, in punizione dei nostri peccati, vedeva  un diretto intervento divino in tutte le cose umane.»

Dopo averci così edotti circa il fatto che credere nel diavolo e negli angeli è una forma di superstizione, e che l'unica visione veritiera della realtà è quella razionalista, Craveri incorre in un grosso incidente linguistico ed ermeneutico: proprio lui che, come studioso del latino e del greco, avrebbe dovuto poter evitare meglio di altri simili infortuni.
Afferma infatti, poche righe più sopra, in tono perentorio, che

«… il vangelo di Giovani dice esplicitamente (VII, 15-16) che Gesù non sapeva leggere. »


Veramente, il passo evangelico citato recita testualmente così («La Bibbia di Gerusalemme», Gv., 7, 14-15):

«Quando ormai si era a metà della festa [delle Capanne], Gesù salì al tempio e vi insegnava. I Giudei ne erano stupiti e dicevano: "Come mai costui conosce le scritture, senza avere studiato?".

Senza avere studiato, dunque, e non senza saper leggere, che è un controsenso; senza avere studiato, nel senso di: senza essere andato a  scuola.
In realtà, vi è più di un passo, nei Vangeli, da cui si ricava che Gesù sapeva leggere e scrivere; ne citeremo uno solo, che - al di là di ogni possibile controversia filologica - parla chiarissimo, quanto al contenuto (nel Vangelo di Luca, 4, 16-21):

«[Gesù] si recò a Nàzaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
Lo spiriti del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella Sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi".»

Dunque Gesù lesse un brano del profeta Isaia davanti alla folla riunita nella sinagoga il giorno di sabato; lo lesse e lo commentò, mostrando di averlo perfettamente compreso.
Evidentemente, quando scarseggia il buon senso, ad esso non può sopperire tutta la filologia di questo mondo; né si può scrivere una vita di Gesù con risultati soddisfacenti, se si possiede solo e unicamente la mentalità del filologo.
Ma su ciò, non è il caso di soffermarsi più a lungo.
Vogliamo invece ritornare alla questione dei supposti viaggi compiuti da Gesù Cristo in Oriente all'epoca dei suoi «anni oscuri», diciamo approssimativamente fra il 20 e il 30 d. C.
Nei Vangeli e negli altri testi neotestamentari non vi è nulla che autorizzi una supposizione del genere, tranne, forse, un passo del Vangelo di Giovanni, di poco successivo a quello sopra citato (Gv., 32-36):

«I farisei intanto udirono che la gente sussurrava queste cose di lui e perciò i sommi sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo. "Gesù disse: per poco tempo ancora rimango con voi, poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete, e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire". Dissero dunque tra loro i Giudei: "Dove mai sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e ammaestrerà i Greci? Che discorso è questo che ha fatto: Mi cercherete e non mi troverete e dove sono io voi non potrete venire?".»

Dove per «Greci» bisogna certamente intendere «pagani»; i Giudei, pertanto, si chiedevano se Gesù non progettasse di recarsi fra le comunità ebraiche disperse fuori della Palestina, tanto verso Occidente che verso Oriente.
Ora, noi sappiamo - per l'appunto - che comunità giudaiche esistevano sia in Mesopotamia e in Persia, sia in India e nello stesso Kashmir; nonché nelle regioni dell'odierno Afghanistan e Turkestan; tanto è vero che, più tardi, esse sarebbero riuscite a convertire alla propria religione il potente ma effimero Impero dei Khazari.
Ed è qui che il cerchio si chiude e torniamo all'ipotesi del soggiorno di Cristo in Kashmir, ove esisterebbe tuttora - come abbiamo visto nel precedente articolo - la sua tomba, nei pressi di Srinagar.
Se, cioè, Cristo si recò in quelle remote regioni ai piedi del Tetto del mondo - e sottolineiamo il «se», egli potrebbe essersi spostato da una comunità giudaica all'altra, attraverso i Paesi della diaspora dopo l'esilio assiro e, poi, quello babilonese; così come avrebbe fatto, dopo di lui, san Paolo - almeno nella prima fase dei suoi viaggi apostolici, quando ancora non si rivolgeva direttamente ai pagani - attraverso l'Asia Minore; e come, molto tempo prima, aveva fatto il giovane Tobia, con la guida dell'arcangelo Rafael, nel suo viaggio da Ninive a Ecbatana e a Rages, nel cuore della Media, così come è narrato nell'omonimo libro (peraltro, deuterocanonico) dell'Antico Testamento.
Questa è la cornice generale delineata dal saggio di Fida M. Hassnain, nel suo libro «Sulle tracce di Gesù l'Esseno» (titolo originale: «A Search for the Historical Jesus: From Apocriphal, Buddhist, Islamic & Sanskrit Sources», 1994; traduzione italiana di Daniela Muggia, Torino, Edizioni Amrita, 1997), la cui pubblicazione ha dato nuovo fiato alle discussioni già accese dalla pubblicazione del manoscritto di Nicolas Notovich del 1894; e, poi, nel 1929, dal libro sul medesimo argomento dello swami Abhedananda, così come abbiamo narrato nell'articolo sopra citato.
Ma chi è Hassnain?
È un professore in legge, già direttore del Museo delle Antichità dello Stato di Jammu e Kashmir (appartenente all'India e rivendicato dal Pakistan); il quale, nel corso del suo lavoro, si sarebbe imbattuto in alcuni documenti che attesterebbero il passaggio di Gesù nel Ladakh.
Non solo: quei documenti proverebbero che la prima educazione di Gesù avvenne ad opera della setta degli Esseni; e che, poi, egli trascorse gli «anni oscuri» viaggiando, studiando e predicando fra gli Ebrei della Persia e dell'India.
Per quanto riguarda i rapporti di Gesù con gli Esseni, esistono - come è noto - anche alcuni scritti apocrifi che attestano una tale tradizione. Per quanto riguarda i viaggi e i soggiorni in Oriente, invece, le fonti sulle quali si è documentato il professor Hassnain attesterebbero la presenza di Cristo fra gli Ebrei del Kashmir non solo prima della sua vita pubblica in Israele, ma anche dopo la crocifissione, alla quale sarebbe sopravvissuto.
Abbiamo già discusso di questa eventualità, sostenuta non dal testo rinvenuto da Notovich e, poi, visto anche da Abhedananda (e da Nicholas Roerich), ma da una tradizione orale esistente in quella regione dell'India settentrionale, ai piedi del Karakorum e dell'Altopiano del Tibet; e ripresa, poi, in ani recenti, da alcuni scrittori occidentali moderni, fra i quali l'ebreo-americano Hugh J. Schonfield, autore del best-selller  «The Passover Plot», del 1965 (traduzione italiana: «Cristo non voleva morire», 1968).
E, dopo averla discussa, abbiamo concluso per la sua totale inverosimiglianza, nonostante l'atteggiamento possibilista di storici di un certo nome, come Bontempelli-Bruni, nel voluminoso saggio «Il senso della storia antica».
Ad ogni modo, ci occuperemo ora brevemente del contenuto del libro di Hassnain; il quale, essendo un sufi, sembra muoversi decisamente a suo agio negli scenari delineati dalla sua inchiesta, che a noi appaiono, invece, decisamente inconsueti, per non dire stravaganti. Per un sufi - e, più in generale, per un musulmano - non desta alcuno scandalo l'idea che Gesù Cristo sia stato un grande santo e che abbia predicato anche negli anni successivi alla sua presunta morte sulla croce, perché ciò non farebbe che confermare la sua natura puramente umana.
Si potrebbe anche inscrivere il lavoro di Hassnain nella cornice di un più vasto tentativo di «islamizzare»il cristianesimo, quale primo passo di una operazione mirante a inglobale e assimilare il cristianesimo nell'Islam.
Un tipico esempio di questa strategia può essere considerato, fra gli altri, il libro di Muhammad 'Ata ur-Rahim, «Gesù profeta dell'Islam» (tradotto in italiano dalla Casa Editrice Atanòr), il cui obiettivo dichiarato è quello di dissolvere la «macchinosa teologia della redenzione» elaborata da san Paolo e riportare la figura e l'opera di Cristo alle dimensioni di un semplice profeta, per di più «islamico», ossia il predecessore di Maometto, proprio come Giovanni il Battista non è stato che il predecessore di Cristo (Giovanni il Battista che, vale la pena di ricordarlo, assurge a un ruolo centrale in una religione antica quanto il cristianesimo e oggi rappresentata da poche migliaia di seguaci, confinati nelle paludi dell'Irak meridionale: il mandeismo.
Chiaro, dunque, che le tesi di Hassnain non hanno sollevato alcuna difficoltà nell'ambito della cultura islamica; anzi, non possono essere state accolte che con favore, in quanto si sposano con le recenti tesi «negazioniste», alla Schonfield, secondo le quali Gesù avrebbe inscenato la commedia della morte sulla croce, per poter simulare la propria resurrezione e proseguire altrove, indisturbato (come una specie di Fu Mattia Pascal, se ci è concesso il paragone) la sua predicazione, avendo cancellato ogni traccia della sua esistenza precedente.

La cosa è ben diversa per uno studioso occidentale, specialmente se di formazione cristiana.
Se la ricostruzione di Hassnain fosse da considerare verosimile, allora bisognerebbe trarre la conclusione che non solo Gesù era un uomo come tutti, a parte l'eccezionale livello morale e spirituale del suo messaggio; ma che l'intera speranza dei cristiani nella resurrezione risulta essere  puramente  illusoria.
Ne abbiamo già parlato, con una certa ampiezza, nel precedente articolo «Il concetto cristiano della redenzione tra riparazione della colpa e divinizzazione dell'uomo» (sempre sul sito di Arianna Editrice).
Come afferma San Paolo nella «Prima Lettera ai Corinzi» (15, 12-29),:

«Noi dunque predichiamo che Cristo è resuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? ma se non c'è resurrezione dai morti, neppure Cristo è resuscitato! E se Cristo non è resuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi, finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che Egli ha resuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non resuscitano, Dio non lo ha resuscitato affatto. Infatti, se i morti non resuscitano, allora neppure Cristo è resuscitato. E se Cristo non è resuscitato, la vostra fede è un'illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo che sono morti sono perduti. Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini.»

Non solo.
Se Cristo architettò un piano per sembrare morto sulla croce, e poi allontanarsi in segreto, lasciando credere che era, invece, risorto, egli non era che un impostore, un ciarlatano da quattro soldi; il che - pensiamo dovrebbero convenirne anche gli studiosi non cristiani - mal si accorda con la sua figura lineare, vigorosa, intellettualmente onesta.

Nel suo libro, Hassnain si serve (come recita il sottotitolo) di fonti buddhiste, islamiche, sanscrite e apocrife; insomma, di tutte le fonti possibili e immaginabili, ma di nessuna fonte cristiana. O meglio, le fonti cristiane gli servono solo per essere confutate alla luce di quelle altre. Come abbiano potuto acquistare autorità e reggersi per circa duemila anni, non viene detto; ma si tratta, evidentemente, della solita congiura dei preti cattivi, cui già siamo assuefatti da scadenti libri (e film) commerciali, conditi in una dolciastra salsa New Age, come il fin troppo celebre romanzo «Il Codice Da Vinci» del furbo confezionista di best-seller pseudo rivelatori e pseudo femministi, Dan Brown.
Ad ogni modo, dopo aver sostenuto, sulla base di fragilissime argomentazioni e di evanescenti riscontri, che Gesù - dopo la finta morte sulla croce - soggiornò, insieme agli apostoli Pietro e Tommaso, in Persia, Afghanistan, India e Asia Centrale, il professor Hassnain conclude che egli venne sepolto in Kashmir, fra genti di origine ebrea, come già era avvenuto a Mosé e a Maria, sua madre.
Sì, proprio così: Gesù non andò da solo a vivere e a morire (di vecchiaia) nei pressi di Srinagar: ci andò con Tommaso, l'apostolo incredulo, e con Pietro, che a torto la tradizione cristiana considera come il primo vescovo di Roma, perché egli - in realtà - si diresse all'estremità opposta del mondo conosciuto. Anche Maria, la madre di Cristo, andò a concludere i suoi giorni nel Kashmir, ai piedi delle bianche montagne del Karakorum, e vi ricevette la sua sepoltura; e la stessa cosa era toccata, parecchi secoli prima, niente meno che a Mosé.
Di vero, o di verosimile, in questo guazzabuglio di labili tracce erette al valore di prove storiche, ci sono soltanto due fatti: primo, la tradizione cristiana afferma, effettivamente, che san Tommaso si recò in India dopo la morte e la resurrezione di Gesù, divenendone il primo evangelizzatore (ma nulla di ciò si trova negli «Atti degli Apostoli» o in altri testi del Nuovo Testamento); secondo, Mosé, a un certo punto, 'scompare' dalla narrazione biblica, come se le circostanze della sua fine e il luogo della sua sepoltura dovessero rimanere volutamente misteriose.
E, su questa sparizione improvvisa, si sono scatenate ridde di ipotesi; una delle quali, quella dell'ammiraglio Flavio Barbiero (già autore di un originale studio sull'identificazione dell'Atlantide di Platone con il continente antartico, allora non del tutto ricoperto, come oggi, dalla coltre di ghiaccio), intitolata «Alla ricerca dell'Arca dell'Alleanza»(Sugarco, 1985) individua la sepoltura del più grande dei patriarchi in qualche grotta nascosta dell'Har Karkom, in Palestina; e non certo in India o nel Kashmir.
Se vi fosse la benché minima probabilità che la tradizione di un soggiorno e di una sepoltura nel Kashmir non solo di Gesù Cristo, ma anche di Maria e di Mosé, abbia un fondamento reale, è semplicemente impossibile che nulla ne sia mai trapelato in Occidente; che, anzi, vi si siano affermate delle tradizioni di segno totalmente diverso. Né ci sembra cosa seria pretendere di spiegare una tale, abissale discrepanza di tradizioni soltanto con la solita congiura di perfidi preti o, magari, con le trame degli immancabili Templari o dell'Opus Dei.
Per favore, cerchiamo di essere seri: stiamo cercando di fare storia, non fantascienza, né una storia di spionaggio e di magia alla Indiana Jones.

Affinché il lettore possa formarsi una propria opinione in merito (e invitandolo, ovviamente, alla lettura integrale del libro), riportiamo il passaggio dell'opera sopra citata di Fida M. Hassnain, nel quale si avanza il dubbio che Cristo potrebbe anche non essere morto sulla croce - è ancora, "mutatis mutandis", la 'vecchia' tesi Sconfield (Op. cit., p. 109):

«È strano che, mentre alle due altre vittime veniva inflitta la punizione delle gambe spezzate, Gesù fosse risparmiato: fu per negligenza, ignoranza, corruzione o complicità? Gesù avrebbe anche potuto essere  in stato di coma, in quel momento, e fingersi morto autoinducendo uno stato di trance catalettica. Il fatto che dal suo corpo sgorgasse sangue misto ad acqua starebbe  a dimostrare, dal punto di vista medico, che egli era ancora vivo. Gesù era in coma o era davvero morto?»

Basterebbe questo breve brano per mostrare quanto precarie siano le basi, storiche e anche logiche, del metodo di lavoro di Hassnain.
Tanto per cominciare, la frattura delle gambe del crocifisso non era affatto una punizione, ma - semmai -, in un certo senso, un atto di pietà. Comunque, il suo scopo era affrettare la morte del condannato: incapace di reggere il peso del tronco sulle gambe e sui piedi, egli moriva ben presto per soffocamento, non riuscendo più ad ossigenare i polmoni.
Se questo trattamento non venne inflitto anche a Gesù, ciò significa, semplicemente, che egli doveva apparire come già morto. Ad ogni modo, il colpo di lancia del centurione, oltre che ad accertarsene, sarebbe stato di per sé sufficiente ad uccidere un uomo; e, quanto all'affermazione che l'uscita di sangue ed acque attesterebbe, da un punto di vista medico, che il soggetto era ancora vivo, essa è puramente e semplicemente gratuita.
Ma sulla base di quali elementi reali Hassnain sostiene che Cristo non morì sulla croce, ma sopravvisse e si trasferì in India e, poi, nel Kashmir?
A suo dire, esiste una antica versione induista della crocifissione, contenuta in un Sutra conosciuto come «Natha-nama-vali», che egli riporta nel suo libro (Op. cit., pp. 121-22):

«Isha Natha venne in India all'età di quattordici anni.  Dopodiché egli tornò nel suo paese e cominciò a predicare.  Ben presto i suoi brutali e nazionalistici connazionali cominciarono a cospirare contro di lui e lo crocifissero. Dopo la crocifissione, o forse anche prima che essa avvenisse, Isha Natha entrò in samadhi, o trance profonda, per mezzo dello yoga.
Vedendolo così, gli Ebrei presunsero che fosse morto, e lo seppellirono in una tomba.  Proprio allora, tuttavia, accadde che uno dei suoi guru, il grande Chetan Natha, trovandosi in profonda meditazione sui contrafforti più bassi dell'Himalaia, vide in visione le torture a cui era sottoposto Isha Natha. Rese dunque il proprio corpo più leggero dell'aria  e si trasferì nella terra d'Israele..
Il giorno del suo arrivo  fu contrassegnato da tuoni e fulmini, perché gli dèi erano in collera  con gli Ebrei, e tutto il mondo tremò.  Quando arrivò, Chetan Natha prese il corpo di Isha Natha dalla tomba, lo risvegliò dal samadhi  e in seguito lo condusse lontano, nella sacra terra degli Ariani. Isha Natha dunque fondò un ashram nelle regioni più basse  dell'Himalaia e vi stabilì il culto del lingam e della yoni.»

Gesù Cristo, dunque - secondo questa versione - avrebbe concluso la sua carriera di Messia predicando il culto della fertilità ai piedi del Karakorum: ultima e più stridente inverosimiglianza di tutta una serie di stramberie e di incongruenze.
Sfidiamo qualsiasi studioso in buona fede, anzi, qualsiasi persona di buon senso, a trovare nella predicazione di Cristo a noi nota un sia pur minimo elemento che permetta di intravedere in lui il futuro annunciatore di un culto fallico come quello del lingam.
Piuttosto, ci sembra interessante confrontare questa versione della passione di Gesù con quella riportata nel manoscritto tibetano pubblicato da Notovich: là, il solo responsabile della condanna a morte di Cristo era Pilato, mentre i capi dei Giudei avevano tentato l'impossibile per ottenerne la liberazione; qui, tutta la responsabilità è addossata ai Giudei, mentre dei Romani non si parla nemmeno. Là, inoltre, Cristo moriva realmente sulla croce, come uomo, mentre il suo spirito si ricongiungeva con quello della Divinità; qui, viene sottratto alla morte dal suo guru indiano e portato avventurosamente lontano dai suoi nemici, nella terra del Gange.
E tanto ci pare che basti a dare un'idea di quanto si possano prendere sul serio questi pretesi documenti originali, che si smentiscono completamente a vicenda e che non portano la minima prova a sostegno di quanto affermano.
Invece le lettere di San Paolo e i Vangeli, checché se ne dica, riferiscono delle testimonianze che, se fossero state completamente false, sarebbero state prontamente smentite da migliaia di testimoni oculari: perché i fatti di cui parlano si erano verificati appena qualche decennio prima, e molte persone che avevano visto e conosciuto Cristo e i suoi discepoli erano ancora vive.
Ora, questo non è accaduto.
Nessuno degli scrittori pagani anticristiani del tardo Impero Romano, nemmeno Celso, mette in dubbio che Cristo sia veramente morto sulla croce; quello che essi mettono in dubbio, è - ovviamente - che egli sa risorto.
Perciò, nel complesso, ci sembra che il libro di Hassnain contenga ben pochi elementi che permettano, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, di prenderlo troppo sul serio.
Ed è un peccato: perché l'ipotesi - per quanto tenuissima - di un viaggio iniziatico di Gesù in India e nel Tibet, durante i cosiddetti «anni nascosti», è, comunque, non poco stimolante; e meriterebbe, semmai, di essere affrontata con altri strumenti culturali e con altra mentalità che non quella, parziale e facilona, mostrata da quanti, fino ad ora, se ne sono interessati.