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Quale Buddhismo?

di Giuseppe Gorlani - 18/11/2008

 


In un articolo intitolato Buddhisti nostrani, comparso sul n° 424 di Studi cattolici (ediz. Ares, Mi), Carlo A. Landini sostiene la tesi che il Buddhismo si sta candidando, suo malgrado, a divenire il cavallo di Troia per mezzo del quale il sistema del sapere e la fede religiosa occidentali potrebbero venir distrutti alle radici. Tale tesi - benché, come si vedrà, non manchi di pecche - non è, a mio avviso, tanto assurda quanto potrebbe apparire di primo acchito ed ha fondamenti sia storici che dottrinali.
I primi li troviamo nella storia dell'India antica e moderna. Nei secoli immediatamente seguenti la predicazione del Buddha, infatti, la religione che ne prese il nome nacque e dalle esigenze di fissarne e sistematizzarne l’insegnamento, e da istanze di contrapposizione al Brahmanesimo da parte della casta degli Kshatriya.1 In epoca più recente, nell’India del XX sec., il fuoricasta occidentalizzato Bhimrao Ram Ambedkar, autore dell’opera in otto volumi The Buddha and his Dhamma, ha dato vita ad un movimento massiccio di conversioni dei cosiddetti "intoccabili" al Neo-buddhismo, una sua personale interpretazione del Buddhismo, ispirantesi al pensiero illuministico europeo e incentrata su rivendicazoni di tipo socio-politico.2
Significativo è il fatto che il Buddhismo si sia propagato nell'Asia Centrale, Orientale e Meridionale, assimilando gradualmente le tradizioni preesistenti. La sua enorme diffusione è spiegabile con lo spirito missionario che lo ha sempre animato, manifesto soprattutto nel Mahayana in cui l'ideale del Bodhisattva viene considerato superiore a quello dell'Arhat dello Hinayana.3 G. Lanczkowski, nel Dizionario delle religioni non cristiane (Mi, 1991), osserva: «Le intenzioni missionarie, recentemente perseguite dal Buddhismo, hanno come obbiettivo a breve termine la riconquista dell’India e una diffusione del Buddhismo in Europa e in America». Tali mire espansionistiche sono pienamente confermate dallo scrittore Jack Kerouac che, in una lettera a Gary Snyder, nota: «Il Buddhismo sta arrivando. Continua a spostarsi verso est... finirà in Russia tra i folli santi ortodossi... il leader sovietico abbraccerà i buddhisti della Mongolia. Il presidente degli Stati Uniti mediterà nella Sala della Meditazione. E noi Hsuen Tsang e Nagarjuna e Asvhaghosha sorrideremo in eterno».4
I fondamenti dottrinali avvaloranti la tesi sopra citata sono chiaramente rilevabili dalle critiche che numerosi rappresentanti dei darshana ortodossi dell'India mossero nei confronti degli insegnamenti buddhisti. Persino Nagarjuna, grande esponente della scuola buddhista Madhyamika, apre le Madhyamaka-karika, Le stanze del cammino di mezzo, con una confutazione dell'abhidharma, ritenendolo paradossalmente un errore utile, e avverte esplicitamente del grave pericolo insito nella dottrina del Vuoto: «La vacuità, male intesa, manda in rovina l'uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata».5
Leggendo le correnti enunciazioni delle dottrine buddhiste, sorge continuamente e spontaneamente la domanda "chi?": chi aspira ad estinguersi? chi rinuncia al nirvana per aiutare il ribollire di combinazioni del tutto fortuite dei cinque aggregati, detti "io" ottenebrati? La risposta è che, non essendovi un pensatore dietro il pensiero, è la comprensione (panna) stessa che comprende.6 Tale risposta risulta del tutto inaccettabile e inintellegibile: se la comprensione sta all'interno dei cinque aggregati come può comprendere qualcosa che non sia da questi condizionato?7 E ancora, se il comprendere non ha già in sé in nuce il nirvana come può ad esso condurre?8 Essa è per di più contraddetta da quanto si tramanda abbia asserito il Buddha nell'Udana: «Bhikkhu, esiste il non nato, il non divenuto, l'incondizionato, il non composto. Se non ci fosse il non nato, il non divenuto, l'incondizionato, il non composto, non ci sarebbe una via di fuga dal nato, da ciò che diviene, da ciò che è condizionato e da ciò che è composto. Poiché c'è il non nato, il non divenuto, l'incondizionato, il non composto, c'è (una possibilità) di emancipazione per il nato, il divenuto, il condizionato e il composto».9
Si può dare o non dare un nome al «Non-nato», ma fondamentale è sapere che Esso È e, soprattutto, che Esso è dentro l'uomo quale sostanza immutabile, Atman, rivestito dall'involucro (kosha) della buddhi: l'intelligenza noetica che funge da ponte tra il Manifesto e l'Immanifesto, tra samsara e nirvana. È la buddhi, riflesso dell'Atman, a porre la domanda "chi?"; domanda che, se seguita sino in fondo, non può che condurre, passando attraverso il silenzio, il "vuoto" o "la notte oscura" derivante dalla sparizione d'ogni "io" empirico, alla Pienezza del Supremo Bene.10   Scrive Ananda K. Coomaraswamy: «Naturalmente, è senz'altro vero che il Buddha negava l'esistenza dell'anima o dell'"io" (in accordo, potremmo dire, con il deneget semetipsum di Mc., 8, 34). Ma non è questo che intendono i suddetti scrittori né ciò che comprendono i loro lettori: essi intendono invece affermare che il Buddha negò l'esistenza del Sé immortale, senza-nascita e supremo delle Upanishad. E questo è un errore madornale. Il Buddha parla infatti sovente di questo Sé o Spirito, e in nessuna parte in modo così esplicito come nella formula ricorrente na me so atta ("questo non è il mio Sé"), dove la negazione riguarda il corpo e gli elementi della coscienza empirica [...] Negare il Sé non si addice al Buddha, bensì a un natthika».11
Sembrano emergere a questo punto due buddhismi, l'uno privo di Sé e l'altro con il Sé: il primo giustamente rigettato dalla Tradizione, il secondo accettato come insegnamento iniziatico, ripropositore del Dharma eterno. «Io ho visto», dice il Buddha, «l'Antica Via, l'Antico Sentiero percorso dai perfetti Risvegliati di un tempo: questa è la mia via».12
Il monaco Theravada Walpola Rahula, divulgatore di un Buddhismo in cui la dottrina dell'Anatman (pali: Anatta) viene intesa come negatrice del Sé-Atman e non dell'atman-anima individuale soggetta alle rinascite, dopo aver ricordato che «La popolazione buddhista nel mondo supera i 500 milioni di persone», sottolinea come «[...] la fede o la credenza così come è compresa dalla maggior parte delle religioni ha poco a che fare con il buddhismo», giacché «L'insegnamento del Buddha viene qualificato come ehipassika, perché invita a "venire a vedere", non venire a credere».13 Ne dobbiamo dedurre che 500 milioni di persone sarebbero buddhiste in virtù del loro aver "visto"? Evidentemente no! Il Buddhismo di cui normalmente si parla non può essere dunque altro, nel migliore dei casi, che un rivestimento exoterico di un insegnamento esoterico.
La testimonianza del Buddha, in quanto riproposizione delle Upanishad, trasmettenti «istruzioni segrete» (guhya adeshah) - il Gough, tanto per fare un esempio, definisce il Buddhismo «the philosophy of the Upan¡shad with Brahman left out» -,14 si rivolge necessariamente ai pochissimi15 capaci di comprendere la difficile e sottilissima via mediana o asparsha (senza sostegni): se non si può insegnare, ipso facto, il cammino apofatico, conducente al grande silenzio, a chi abbia la testa piena di rumore, ma nemmeno normalmente ad un pio padre di famiglia (grihastha), il cui compito (svadharma) consiste nel produrre ricchezza, a maggior ragione appare indiscriminatamente indivulgabile la trascendenza del tetralemma nagarjunano, con la sua duplice aporia: è, non è, è e non è insieme, né è né non è, comprendente sia il procedimento apofatico che quello catafatico. Chandrakirti nel suo commento alle Madhyamaka-karika, dice: «La natura propria della realtà, la "sicceità", può essere intesa solo dai santi».16 La Via diretta (margah arjavat), non essendo altro che l'autoriconoscersi folgorante della Presenza assoluta senza la quale nemmeno la transitorietà sarebbe, è di tutti;17 malgrado ciò, nel Kali-yuga solo pochissimi la possono percorrere. Va costantemente ricordato che l'universalità del Vero non ha nulla a che vedere con la presunta uguaglianza, in senso orizzontale: l'Unità, imperscrutabile alla mente dicotomica, della valle, della vetta e del cielo non annulla le gerarchie, le caste e i diversi karma.
Errato è pensare che una dottrina indicante la realizzazione del Vero, in quanto Supremo Bene, si contrapponga alla struttura sociale tradizionale, ordinata intorno al valore primario del Sacro, negando la differenziazione dei dharma relativi alla casta d'appartenenza: «La realtà assoluta non può essere insegnata senza prima appoggiarsi sull'ordine pratico delle cose».18 Occorre tenere ben presente che il Trascendente e la contingenza fenomenica non sono in opposizione, bensì il primo comprende e sostiene il secondo, pur non essendo da questo condizionato. Nella confusione tra la dimensione exoterica ed esoterica, tra il piano empirico e quello ontologico e tra quello ontologico e metafisico o, per dirla ancora con Nagarjuna, tra «la verità relativa del mondo e la verità assoluta» (op. cit., XXIV, 8), sta dunque, dal punto di vista hindu,19 la ragione dell'eterodossia buddhista, o almeno di quel Buddhismo che ingiustificatamente contesta la ritualità, il Mistero, l'Intelligenza creatrice o manifestatrice, immanente e trascendente ad un tempo, e il sistema castale.20
Benché la Tradizione vedico-brahmanica (alla quale va ascritto il grande merito di aver salvaguardato il valore e l'integrità del linguaggio metafisico), ritenga il Buddhismo - insieme al Jainismo - un darshana eterodosso, rivaluta la figura del Buddha, considerandolo un Avatara e un grande mistagogo: non un fondatore di una nuova religione, ma un'epifania divina, svincolata dal karma, indicante il sentiero della realizzazione spirituale. Sarvepalli Radhakrishnan nota: «Si dice, e non senza una ragione, che il Brahmanesimo abbia ucciso il Buddhismo con un abbraccio fraterno».21
La critica più serrata ed autorevole al Buddhismo la troviamo nel Brahma-sutra di Badarayana o Vyasa. In questo testo, incluso, insieme alle Upanishad e alla Bhagavad-gita, nel prasthana-traya, il triplice canone del Vedanta, si dice esplicitamente che la prospettiva buddhista è totalmente inaccettabile. Shri Shankaracarya, nel suo celebre commento (bhashya), scrive: «Da qualunque punto di vista si esamini la dottrina buddhista, al fine di trovarne delle giustificazioni, essa, apparendo priva di logica, si sfalda come un pozzo scavato nella sabbia.[...] Il Buddha manifestò la sua incoerenza quando insegnò le tre teorie, reciprocamente contradditorie, dell'esistenza degli oggetti esterni, dell'esistenza della coscienza e del nichilismo assoluto; oppure quando, mostrando scarsa benevolenza nei confronti di tutte le creature, agì spinto dall'illusione, credendo che queste avrebbero assimilato le sue idee contradditorie. La visione buddhista deve essere abiurata in ogni modo da coloro che ambiscono al Bene Supremo».22
T.M.P. Mahadevan, filosofo contemporaneo, nell'introduzione al Brahma-sutra-bhashya testé citato, riassume la questione nel modo che segue: «Nel Buddhismo ci sono scuole sia realiste che idealiste. Secondo il Buddhismo, tutte le cose sono aggregati: non v'è alcunché di sostanziale. Per le scuole realistiche, vi sono due tipi di aggregati: interni ed esterni. Ma, in accordo con l'altra dottrina buddhista dell'istantaneità, in che modo tale aggregazione avvenga rimane incomprensibile. Vi è un processo di momenti successivi, ma quale collegamento vi sia tra ciò che precede e ciò che segue e come questi si uniscano tra loro non viene spiegato. Per i Buddhisti idealisti non esiste alcuna realtà extramentale; le idee sono cose; il reale è una serie di idee transitorie. Anche questo punto di vista non è sostenibile; l'apparire delle idee viene spiegato come se fosse determinato dalle impressioni residue; ma come possono formarsi impressioni residue, se non ci sono cose esterne?».23
Lo studioso statunitense Gregory J. Darling,24 dopo aver comparato tra loro i commentari (bhashya) di Shankara, Madhva e Ramanuja alla seconda sezione (adhyaya) del Brahma-sutra, concernente la confutazione al Buddhismo, confronta le specifiche critiche dei tre rappresentanti dell'ortodossia con le posizioni delle scuole buddhiste direttamente tratte dai testi. La tesi risultante dalla sua analisi è che le critiche vedantiche al Buddhismo si basano su assunzioni errate dovute sia all'ignoranza, sia a distorsioni consapevoli. Egli, inoltre, evidenzia la grande similitudine esistente tra alcune scuole vedantiche e altre del Buddhismo Mahayana (in particolare tra Shankara, accusato da Ramanuja e Madhva d'essere un criptobuddhista, e i vijnanavadin) e suggerisce l'idea che le critiche al Buddhismo - considerato un darshana eterodosso -, incluse nelle varie prospettive esegetiche tradizionali sul Brahma-sutra, servissero ai rapprasentanti di tali scuole per discreditarsi tra loro. A noi sembra, invece, che lo studio di Darling confermi la tesi di A.K. Coomarswamy circa l'esistenza di un Buddhismo di tipo upanishadico, deducibile dai testi canonici, e di un Buddhismo "deviato", derivante dalle errate interpretazioni del primo. Sarebbe necessariamente quest'ultimo - data la natura estremamente elevata e selettiva dell'insegnamento del Buddha - ad incontrare i più vasti consensi oggi in Occidente.
Shankara da un lato privò il Buddhismo di ogni originalità, dimostrando la sua sostanziale identità con il Sanatana-dharma - e in tal modo lo riassimilò nella Tradizione con «un abbraccio fraterno» -, dall'altro condannò le distorsioni arbitrarie di un Buddhismo ateo, antitradizionale e missionario. 
Agehananda Bharati vede la questione delle critiche hindu  al Buddhismo nel modo che segue: «In realtà gli induisti scolastici provano un forte rancore dottrinario contro la dottrina buddhista, e soltanto gli induisti occidentalizzati, quelli per cui "tutte le religioni sono fondamentalmente una", affermano che gli insegnamenti buddhisti sono una forma di Induismo o vice versa. Il dialettico buddhista parte dalla negazione di qualunque entità, dall'assioma della istantaneità, e arriva alla nozione di shunya; il dialettico induista possiede una divinità imprescindibile come base della sua speculazione su di sé, su di un'entità statica. All'estraneo, tuttavia, il sottile brahman dei monisti vedantici e lo shunya buddhista possono sembrare simili o "praticamente" identici come costrutti intellettuali. Ma non lo sono. Il Buddhismo non ha ontologia, non ha metafisica; l'Induismo ha una potente ontologia - questa è l'unica differenza insormontabile tra tutte le sue forme e il Buddhismo di qualsiasi scuola».25
Questo Autore sostiene inoltre che «Il buddhista, almeno in teoria, nega qualsiasi sé o super-sé. Tuttavia, in pratica il Vajrayana e fino a un certo punto tutte le dottrine buddhiste Mahayana hanno una sorta di sé surrogato o super-sé, qualcosa che è impossibile definire nei termini dei linguaggi induisti "che ammettono entità", ma che tuttavia ha una qualche sorta di esistenza. Ora, io ritengo che il nocciolo della questione risieda nel fatto [...] che il principio, o la quasi-entità che Mahayana e Vajrayana accettano [...] non è un principio accettato al posto della entità induista, bensì è un principio accettato nonostante il principio induista, a cui si è arrivati attraverso processi speculativi totalmente differenti».26
L'occidentale A. Bharati, asserendo che il Negatore del sé buddhista equivale ad una sorta di «quasi entità» del tutto diversa dal Conoscitore del Sé hinduista, cade nella più macroscopica arbitrarietà e dimostra, benché monaco, di non aver superato lo stadio del manas  dicotomico. Egli spiega la similitudine tra il sistema Vedanta e il Mahayana o il Vajrayana  con la mancanza di educazione dei maestri buddhisti e con la loro semplicità di spirito, aliena ad ogni sottiliezza teologica; questi maestri, cioè, a causa delle loro limitazioni culturali, avrebbero usato lo stesso linguaggio e gli stessi concetti hindu  per esprimere idee del tutto diverse. Ciò contrasta con quanto sostiene la Tradizione circa l'onniscienza del Liberato: la realizzazione spirituale - lo ribadiamo - è ontologicamente superiore alla teologia e a qualsiasi dottrina o tecnica (sadhana) e perciò non si può dire che essa sia hinduista, buddhista o cristiana. I maestri sopracitati o erano Liberati o non lo erano; nel primo caso non potevano che "indicare" l'Assoluto ineffabile.27 Con la precisione che solo un pensiero tradizionalmente orientato può dare, Julius Evola, dopo aver constatato che «Il Buddhismo non è una religione, allo stesso modo che ogni dottrina iniziatica o esoterica non può dirsi "religione"», osserva: «Pertanto il fine ultimo, la Grande Liberazione, qui [nel Buddhismo delle origini] è identico a quello della più pura tradizione metafisica».28    
Giangiorgio Pasqualotto, uno tra i fondatori, a Venezia, dell'Associazione Maitreya, nella sua opera Illuminismo e illuminazione, dopo aver liquidato come trascurabili, «perché intrise di presupposti», le critiche al Buddhismo provenienti dall'area culturale tradizionalista e neo-conservatrice, si getta in un'erudita disquisizione volta a dimostrare che «gli insegnamenti del Buddha» non solo valgono quali espressioni più alte della ragione umana, ma altresì «come fonti di un modo di vivere che scorre, a diversi livelli di profondità, all'interno di ogni dottrina». Questo Autore, nell'opera sopracitata, dedica un intero capitoletto al «problema del non sé (anatta)». Egli sostiene che pure il Sé-Atman, inteso come spirito assoluto coincidente col Brahman, «è concepibile solo in riferimento alle sue infinite manifestazioni, nelle quali necessariamente – per poter estrinsecare la sua infinita potenza – deve determinarsi [...] e pertanto vale la constatazione che nulla può sussistere in sé e per sé»; l'Atman, al pari dell'io-persona-individuo, non è altro che «un nome usato convenzionalmente per designare una realtà complessa rappresentabile come formazione mutevole di cinque aggregati». Nonostante ciò, l'insegnamento del Buddha non è nichilista per le seguenti ragioni: «non nega in modo assoluto ogni sé, ma nega la pretesa di ogni sé di porsi come assoluto; addita la via mediana in cui si evitano gli estremi di asserire che le cose abbiano un essere o, viceversa, che le stesse non abbiano un essere; il suo riconoscere l'"io" in quanto «funzione nominale [...] non significa condurre la coscienza al di qua dell'io» ma «spingerla al di là dell'io, dove essa sia sempre consapevole della propria relatività». In tutta sincerità, trovo le prime due ragioni accettabili unicamente se riferite alla dimensione empirica, e la terza, speciosa e incomprensibile; a mio modesto avviso il nichilismo è assente soltanto laddove la negazione del relativo è strumentale allo svelamento dell'Assoluto. A me sembra che, quantunque gli argomenti di questo Autore siano estremamente ragionati e documentati e talvolta interessanti, egli non pervenga all'interrogativo di fondo: chi sostiene con ferma convinzione che «nulla può sussistere in sé e per sé»? chi proclama di non esistere; chi È? Come conseguenza di tale "trascuratezza", non stupisce che persino le più alte testimonianze spirituali non buddhiste vengano da lui ritenute quali espressioni opinabili di un caparbio attaccamento all'"io". Certe interpretazioni delle dottrine buddhiste, nell'ansia di dimostrare la propria valenza non speculativa e ametafisica, finiscono con l'impigliarsi in forme investigative labirintiche e prive di fondamenta. Asserire «[...] questa infatti è la vera condizione paradisiaca: quella in cui si è liberi anche dall'idea che vi sia una condizione paradisiaca da raggiungere» non equivale forse a dire: «Questo è il vero Sé, quello in cui si è liberi dall'idea che vi sia un sé da raggiungere»? In ogni caso l'esistenza di un Assoluto ineffabile, incondizionato ed indescrivibile coincide con l'assoluta evidenza; se non si fosse l'Essere non si potrebbe parlare od essere e nemmeno lo si potrebbe negare. E infine, a proposito dell'insegnamento buddhista che invita a rigettare auctoritates et idola, l'esperienza stessa insegna che la verità realizzata interiormente coincide con quella trasmessa da una catena ininterrotta di Liberati o Risvegliati. 29
Alain Daniélou, nel suo Siva e Dioniso - La religione della Natura e dell'Eros, pone il Buddhismo tra le religioni dell'«Età dei Conflitti», della quale scrive: «C'è voluta la strana e malefica perversione dei valori nelle civiltà e nelle religioni moderne che caratterizzano il Kali-yuga, l'Età dei Conflitti in cui ci troviamo, perché l'uomo rinunciasse al proprio ruolo nell'ordine cosmico che comprende ogni forma d'essere o di vita, per interessarsi solo a se stesso e divenire il distruttore dell'armonia del creato, lo strumento cieco, vanitoso e brutale del proprio declino».30 Nella stessa opera egli sostiene altresì che l'accentuazione dell'aspetto etico e morale, assai visibile in religioni quali il Jainismo e il Buddhismo, è sintomatica di un allontanamento dalla Religione primordiale. Tale asserzione, soltanto apparentemente assurda, ricorda la «grande ipocrisia» di cui scrisse Lao-tzu 2.500 anni fa: «Quando il gran Tao fu messo in disparte / ci fu l'umanità e la giustizia / quando apparve accortezza e scaltrezza / allor ci fu la grande ipocrisia / quando tra i sei congiunti non ci fu più concordia / allor ci fu pietà filiale e amore / quando il regno piombò nell'anarchia / allora venne fuori il buon ministro. [...] Taglia via la santità gitta via la prudenza / e il vantaggio del popolo sarà centuplicato / taglia via l'amor degli uomini gitta via la giustizia / e il popolo tornerà pietoso ed amoroso».31
Pio Filippani Ronconi, in Magia, religioni e miti dell'India, accenna ad una proprietà dissolutrice del Buddhismo: «[...] il Buddha, predicando il disprezzo delle leggi di casta, misconoscendo il Veda ed i metodi di salvezza ortodossi, accelera la decadenza del genere umano, affrettando l'Apocalisse, che segna l'avvento del decimo avatara, che è: Kalkin ...».32 Anche nella storia della Cina il Buddhismo è valso spesso quale elemento disgregatore e strumento di ribellione politica ed economica nei confronti della Tradizione confuciana che, insieme al Taoismo, rappresenta ab origine l’anima della religiosità cinese.
Julius Evola, nella Dottrina del Risveglio (ed. Mediterranee, Roma 1996), asserisce che il Buddhismo primitivo non fu una via antitradizionale né "nuova", contrapposta al Brahmanesimo, ma piuttosto un insegnamento di tipo ascetico-eroico-iniziatico facente leva soprattutto sulla possibilità, presente nell'uomo, di autoliberarsi. Riguardo a quest'ultimo punto riemerge la delicata e contorta questione di "chi" ambisca alla liberazione da dukkha e "chi" soffra. L'Evola, diversamente dal Rahula, ammette esplicitamente che panna o bodhi sia «un elemento extrasamsarico» e cioè la manifestazione di un Principio sovrindividuale il cui destarsi nella coscienza samsarica ha del «prodigioso». Non si capisce, tuttavia, almeno restando in ambito manasico orizzontale, in che modo un tale assunto possa conciliarsi con il suo ritenere la dottrina buddhista «"una via largamente autonoma", basata essenzialmente sulla sola "azione dell'individuo qualificato che si volge verso l'incondizionato"».33 Forse la risposta sta nell'aggettivo «qualificato», da intendersi quale consapevole sussistere dell'Incondizionato nel condizionato. Se a «extrasamsarico» o «incondizionato» sostituiamo il termine "Divino" si comprende meglio come all'uomo, in quanto impermanente pancakhanda, sia impossibile autoliberasi senza l'influsso di un quid sovrumano. In alcune scuole Vedanta, per esempio nel Shuddhadvaita (non dualismo puro), è il Supremo non-duale (non condizionato neppure dalla contraddizione), che in un qualche modo "gioca" a liberare se stesso;34 a questo punto apparirà evidente la ragione per la quale la Tradizione hindu  abbia collocato il Buddha tra i dieci Avatara di Vishnu e anche perché consideri la via-non via dello Jnana - Conoscenza per identità - superiore ad ogni altra. In India i Liberati in vita vengono ancor oggi chiamati Bhagavan; ciò ci sembra assai appropriato: che altro potrebbe essere un uomo, in cui l'Assoluto, trascendendo l'identificazione col limite, prende coscienza di Sé, se non una sublime teofania?
Evola afferma inoltre - e, secondo chi scrive, assai giustamente - che l'ascesi buddhista, nonostante le sue apparenze democratiche, sia in realtà riservata ad una ristrettisma élite arya in cui fiammeggi, in virtù di un imperscrutabile "destino", l'intuizione dell'Assoluto privo di qualificazioni (nirguna). Il termine arya, però, se si vuol tener conto degli ultimi sviluppi della ricerca archeologica e storica,  va depurato dalla convinzione che con esso ci si riferisca esclusivamente alla razza bianca del nord. Gli studi di Colin Renfrew, David Frawley35 ed altri stanno infatti minando alle radici la teoria della discesa degli Ariani nella valle dell'Indo; teoria che, peraltro, non è nemmeno unanimamente accettata dalla Tradizione hindu, la quale al termine in questione tende ad attribuire un significato castale o di nobiltà spirituale.36
Sebbene lontanissimo da ogni sia pur minima affinità con la visione evoliana, pure il già citato Bhimrao Ram Ambedkar sottolinea nella sua interpretazione del Buddhismo, il Neo-buddhismo, gli aspetti dell’autoliberazione e dell’autodeterminazione e pretende che essa sia «interamente ed esclusivamente basata sul Buddhismo originario». In questo caso, però, con "liberazione" non ci si riferisce al superamento dell’identificazione con l’effimero, bensì alla emancipazione dei candala dalla loro condizione di "fuoricasta". Affinchè tale "liberazione" si realizzi, egli addita agli "intoccabili" l’apostasia della Tradizione hindu, in cui la posizione castale o di fuoricasta viene sancita dalla nascita (jati), espressione rigorosa della legge del karma. Ambedkar considera l’Hinduismo una religione ripugnante e dannosa agli esseri umani ed invita a distruggere la credenza nella santità delle Scritture Vediche. Egli si rivolge ai suoi accoliti dicendo: «Se volete l’uguaglianza, cambiate la vostra religione. Se volete il potere, cambiate la vostra religione»; i suoi motti preferiti sono: «Libertà, Uguaglianza, Fraternità» e «Educare, Agitare, Organizzare». Dal punto di vista dottrinale, Ambedkar rifiuta l’interpretazione tradizionale delle «quattro nobili verità», che considera offensive e inaccettabili nei confronti di quelli che patiscono le ingiustizie altrui, e suggerisce che in esse vengano inclusi concetti quali «le diseguaglianze economico-sociali, le tensioni tra le caste, lo sfruttamento e l’oppressione politica, l’uguaglianza, la libertà e la fratellanza orizzontali». Mary Thengavila, autrice dell’unico libro in italiano sinora comparso su questo personaggio, scrive: «[...] è nostra persuasione che la creazione del Neo-buddhismo sia stata dettata non da preoccupazioni religiose, ma esclusivamente da motivi sociali, politici ed economici, con particolare riguardo all’emancipazione delle Classi Depresse».37 Fortunatamente molti Buddhisti tradizionali hanno rigettato senza mezzi termini il Neo-buddhismo e la pretesa che The Buddha and his Dhamma (l’opus magnum di Ambedkar) costituisca una sorta di nuova Bibbia buddhista. Altri, invece, ritengono che esso «sia una riesposizione dello spirito e, in molti punti, della lettera del Buddhismo delle origini adatta ai suoi tempi».38
Sui numeri 63, 64 e 65 di Paramita, Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo, è comparso un interessante saggio di Stephen Batchelor, dedicato a Nanavira Thera (Harold Musson): ufficiale inglese che, dopo aver letto e tradotto La Dottrina del Risveglio di Evola , se ne andò in Shri Lanka dove venne ordinato bhikkhu nel 1949.  Nella terza ed ultima parte del saggio, l'Autore riassume le prospettive dottrinali di Nanavira, il quale riteneva che: «In colui che è entrato nella corrente vengono meno tre precise caratteristiche: 1. sakkhaya-ditthi: l'opinione che esista un sé negli aggregati o separato da essi; 2. vicikkha: i dubbi sulla validità del Buddha, del Dhamma, del Sangha [...]; 3. silabbataparamasa: attaccamento all'efficacia assoluta di regole e rituali». Riguardo al punto 1 non viene però specificato se con "sé" si intenda l'atman-jiva o l'atman-brahman; nel secondo caso si riproporrebbe la domanda: com'è possibile che nell'uomo, in quanto insieme di aggregati effimeri ed inesistenti, emerga l'aspirazione alla Liberazione? Nanavira sosteneva che «il Dhamma fosse "ancora molto lontano dall'essere compreso in Occidente"»; secondo lui, Buddha non insegnò a credere che «l'Universo abbia un significato o uno scopo» e nemmeno insegnò a difendere la vita, giacché «come anche il più piccolo pezzo di escremento ha un odore disgustoso, allo stesso modo anche il più piccolo pezzo di esistenza non deve essere lodato»;39 egli sostenne, inoltre, che i termini "buddhismo" e "buddhisti" «sono soltanto etichette che vengono incollate su un pacco, spesso senza neanche sapere cosa effettivamente il pacco contenga». Troviamo apprezzabile quest'ultima riflessione di Nanavira, ma ci chiediamo: «egli pervenne a conoscere il contenuto del pacco?». Il suo suicidio, per esempio, suscita grosse perplessità e ci induce a ricordare nuovamente l'avvertimento di Nagarjuna sulla pericolosità della Dottrina del Vuoto mal assimilata. Com'è possibile che un monaco, il quale a suo dire entrò «nella corrente», non fosse capace di liberarsi da malattie quali la satyriasis e l'indigestione cronica (amoebiasis)? Soprattutto la prima ci appare una "malattia" tanto quanto può esserlo l'ira. Bhikkhu Bodhi ricorda: «Ma neppure la morte, insegna il Buddha, risolve definitivamente il dukkha, in quanto il processo vitale non termina con la morte».40                  
Ci siamo soffermati, sebbene necessariamente in modo frammentario, sull'aspetto dottrinale ed esegetico per consentire al lettore di intravvedere alcune prospettive sul Buddhismo che oggi si preferiscono per lo più ignorare ed emarginare. So per certo che, persino in ambito universitario, lo studente che osasse proporle - soprattutto quelle che affermano la sostanziale identità tra Sanatana-dharma e Buddhismo, o la derivazione di questo da quello - se le vedrebbe, nella maggior parte dei casi, respingere o, in modo più o meno velato, condannare. Sembra che l'istruzione scolastica ufficiale propenda, con una precisione escludente la casualità, ad eliminare o a deformare il nocciolo tradizionale del sapere, non avallante mostruosità quali il modernismo, il progressismo, il liberalismo, ecc. Ed è evidente che un Buddhismo nichilista, antimetafisico e anarchico non può che prestarsi a nascondere e rafforzare tali devianze. 
Ma torniamo a Landini; questi, coerentemente con la sua tesi, sostiene che René Guénon errò ad indicare nell'Occidente antitradizionale la causa della caduta dell'Oriente e dell'intera umanità, giacché, in realtà, sta accadendo il contrario: l'Oriente sta invadendo e corrompendo l'Occidente.
Innanzitutto, occorre dire che è scorretto proporre come implicitamente equivalenti i termini "Oriente" e "Buddhismo", non rappresentando, quest'ultimo, che un aspetto del pensiero e della religiosità orientali. E inoltre, come si sta tentando di dimostrare, è quantomeno imprudente parlare di un Buddhismo tout court.
A.K. Coomaraswamy, nella pregevole opera di raffronto tra Hinduismo e Buddhismo, che nel presente scritto spesso viene citata, scrive: «Un noto scrittore ha osservato che il "buddhismo primitivo ignorava l'esistenza di Dio; negava l'esitenza dell'anima; era più un sistema etico che una religione". Questo giudizio ci pare dettato, da un lato, dal razionalismo e, dall'altro, dal sentimentalismo.  Senonché, le suddette tre affermazioni sono false, almeno nel senso in cui sono comunemente intese. È ad un altro buddhismo che vanno la nostra simpatia e la nostra adesione intellettuale: quello che risulta dai testi così come essi sono».
Dire "Buddhismo" senza alcun'altra specificazione significa dunque dire poco o nulla: con questo termine ci si può riferire a dottrine diverse o addirittura opposte tra loro. Guénon sottolineò in esso la corrente deviante rispetto alla Tradizione upanishadica e ritenne che presentasse caratteri simili al "relativismo" e al pánta rhei  eracliteo, combattuti dagli Eleati, «una delle sue tesi essenziali essendo quella della "dissolubilità di tutte le cose"».41
Landini, scrivendo, a proposito de La crisi del mondo moderno, or ora citata, che trattasi di «un'operina in cui Zenone d'Elea ed Eraclito fanno la figura di due scolaretti a fronte dei grandi iniziati al buddhismo»,  dimostra di non averla letta attentamente. In essa, invero, non solo non si parla menomamente di «grandi iniziati» buddhisti, ma, addirittura, a piè della pagina in cui i due filosofi greci vengono citati, una nota dice: «Poco dopo le sue origini, il Buddhismo si associò ad una delle principali manifestazioni della rivolta dei kshatriya contro l'autorità dei brahmana. [...] E si potrebbe constatare che la comparsa delle dottrine "naturaliste" o antimetafisiche avviene sempre nel punto in cui l'elemento che rappresenta il potere temporale prende, in una civiltà, il sopravvento su quello che rappresenta l'autorità spirituale».42
A mio avviso, la tesi di Guénon è tutto sommato giusta, giacché l'Oriente che sta "invadendo" l'Occidente non è l'Oriente tradizionale, bensì quello occidentalizzato e addomesticato, frutto della colonizzazione, e quello eterodosso che dall'incontro con questa ha tratto nuova linfa.43 Nulla è più estraneo all'animo  orientale, conforme alla Norma, dello spirito missionario.44 Sulla Rivista Italiana di Teososfia - anno LIV n. 7, luglio '98 - è comparso un interessante studio di Edoardo Bratina significativamente intitolato Il ruolo della teosofia nella diffusione del buddhismo in occidente. In esso si legge che il Catechismo Buddhista, scritto dal Colonello H.S. Olcott e approvato dalle autorità buddhiste Hinayana, venne «tradotto in venti lingue diverse ottenendo oltre quaranta edizioni. Le traduzioni del Catechismo Buddhista promosse dalla Società Teosofica anche in lingue europee fecero conoscere il buddismo in occidente».45
Del resto, sempre nel medesimo numero di Studi cattolici, nelle pagine dedicate alla filosofia, Alberto Valenti nota che segno precipuo della nostra epoca è il trionfo mondiale del capitalismo; e tale sistema economico-sociale non si può certo dire che sia nato in Oriente.46
Personalmente, sono stato costretto a rivolgermi, ancor giovane, alla Terra dei Bharata (Bharatavarsha), poiché la mia "fame" metafisica non riusciva a trovare nutrimento né nell'insegnamento scolastico né in quello religioso. Con ciò, mi guardo bene dall'asserire che la nostra Tradizione religiosa - le cui radici per altro sono orientali - non abbia una sua valida metafisica, ma semplicemente che questa viene spesso negletta e distorta - quando non addirittura negata - dagli stessi che la dovrebbero trasmettere.
Significativamente Meister Eckhart, rara figura di sublime metafisico, venne condannato come eretico, e a tutt'oggi molti Cristiani guardano con sospetto a Scoto Eriugena, Silesius o Nicola Da Cusa, tacciandoli, quasi fosse un'infamia, di panteismo neoplatonico. Anche certi mistici con venature metafisiche hanno avuto vita difficile all'interno del Cattolicesimo; basti l'esempio del teologo spagnolo quietista Miguel Molinos - propugnatore di una contemplazione fondata sul non fare, non giudicare, non pensare, o, in altre parole, di una restituzione senza limiti a Dio - che, nella Roma del XVII secolo, si vide accusato di eresia e condannato a trascorrere nel carcere del S.Uffizio gli ultimi nove anni della sua vita.
Son certo di non essere l'unico a nutrire la convinzione che la Tradizione occidentale, cattolica o classico-romana che sia,47 se vuole sopravvivere all'acefalo (meglio, senza Cuore-Hridaya) dilagare del capitalismo, debba riscoprire e soprattutto assimilare e comprendere quella metafisica pura sulla cui essenza si fonda.
Vano, anzi, nocivo è auspicare dialoghi interreligiosi strizzanti l'occhio al peggior sincretismo o velatamente predatori.
Forse la ragione del successo che certo Buddhismo sta riscuotendo in Occidente va ricercata nella facilità con la quale i suoi insegnamenti possono essere piegati alle solipsistiche esigenze dell'uomo-burattino moderno.48 Un'altra ragione potrebbe risiedere nel suo rifiuto di ogni gerarchia sociale, fondata sul Sacro, e persino di una Verità in sé che, tuttavia, proprio perché in sé, si afferma anche quando la si nega («La Verità non si confuta mai», Platone insegna).49 Ai fini di una migliore comprensione del fenomeno, può essere utile riportare un’efficace considerazione di E. Conze: «[...] le affinità dottrinali tra il Buddhismo mahayanico e il materialismo dialettico sono sorprendenti». M. Thengavila, nel suo studio su Ambedkar, cita anche lo scrittore Gianni De Martino e l’on. Enzo Trappoli; il primo dichiara: «Si sono convertiti soprattutto i reduci della nuova sinistra»; il secondo, spiegando le motivazioni che lo hanno condotto alla conversione, dice: «[...] non c’è bisogno di seguire particolari discipline, fare voti di castità o altro. Basta solo pregare due volte al giorno, mattina e sera. E si può mangiare qualsiasi cibo [...]».50
L'insegnamento silenzioso del Buddha,51 il Mauna per eccellenza, se trasformato in religione, non può che venire ridotto52 o tradito, ricalcando gli stilemi caratterizzanti ogni exoterismo legittimo - la zattera - o illegittimo: una zattera dipinta su carta, della quale si potrebbe dire, usando le parole di C. Humphreys: «che non ha nessun fondamento nei testi e nel buon senso» (v. nota 6). Si tratta pertanto di capire se il Buddhismo o, meglio, i buddhismi che si stanno diffondendo in Europa ed America appartengano al primo o al secondo tipo. Non si esclude comunque la possibilità che esso, se dall'asceta occidentale penetrato nel suo significato originario od esoterico, valga quale valido strumento di realizzazione spirituale.
La mia opinione è che Oriente ed Occidente, per dialogare costruttivamente tra loro, dovrebbero, una volta precisate le proprie identità tradizionali, allearsi contro il comune nemico: il capitalismo ametafisico, mondialista, evoluzionista e democratico (vero lupo travestito da agnello, operante anche in quello che oggi viene definito "neo-spiritualismo contemporaneo"), badando bene ad abolire ogni istanza di reciproca invadenza o supremazia.53
Sarebbe, infine, opportuno che gli esponenti e gli studiosi delle varie tradizioni ravvivassero costantemente la consapevolezza della strumentalità o relatività di ogni sapere umano, giacché, come scrive Raniero Gnoli nella sua bella introduzione alle Madhyamaka karika: «Tutto quello che esiste, che vediamo intorno a noi alla luce del nostro pensiero è vuoto, vale a dire non è fine a se stesso, non possiede una realtà o natura sua propria ma una sussistenza soltanto strumentale, nel senso che intanto non possiamo fare a meno di appoggiarci su esso per arrivare alla vera Realtà [la maiuscola è nostra] che solo i santi possono sperimentare, nel silenzio del cuore».54

 

 

Note

1) «Il Buddhismo, nato nella casta regale degli Kshatriya, permise agli imperatori indiani di liberarsi dalla dominazione della classe sacerdotale ed è stato un prodigioso strumento d'espansione coloniale. Il massacro delle popolazioni shivaite dell'Orissa perpetrato da Ashoka, ha lasciato traccia sino ai nostri giorni. Gli imperatori Maurya, Ashoka e i suoi successori, imposero in India il Buddhismo». Alain Daniélou, Siva e Dioniso, Ubaldini, Roma 1980, pp. 218, 219.
2) Cfr. in proposito lo studio di Mary Thengavila, Ambedkar e il Neobuddhismo, Ediz. Mediterranee, Roma 1998. L’opera è un’apologia di Ambedkar, con alcuni sprazzi di obiettività e una ignoranza pressoché totale della prospettiva tradizionale. Questo personaggio, morto nel 1956, è stato riconosciuto «padre della Costituzione indiana e nuovo Manù» dai politici che attualmente governano l’India. Di questi ultimi, A. Daniélou, in I quattro sensi della vita (Neri Pozza, Vc 1998), scrive: «I dirigenti dell’India attuale, che sono tutti di formazione straniera [...] non possono in alcun caso essere considerati degli indù [...] Quasi tutta la società europeizzata di Nuova-Delhi che governa oggi l’India è in effetti dal punto di vista indù una società di paria». E riguardo all’"intoccabilità": «In realtà il problema dell’intoccabilità è stato generalmente presentato in modo sbagliato. È il brahmano che, in ragione delle sue funzioni sacre e dei suoi obblighi di purezza, non deve toccare nessuno». Il preambolo della Costituzione indiana, promulgata il 26 gennaio 1950, asserisce: «Il popolo dell’India si è costituito in Repubblica Democratica Sovrana per assicurare a tutti i suoi cittadini giustizia, libertà ed uguaglianza e per promuovere la fraternità». A  distanza di cinquant’anni, però, il sistema castale continua a restare la struttura portante dell’organizzazione sociale dell’India. Non può dunque essere stato il popolo a redarre la Costituzione indiana. Persino i fuoricasta convertitisi al Neo-buddhismo o al Cristianesimo continuano ad utilizzare il sistema tradizionale.
3) «Tutte le mie incarnazioni future, tutti i miei beni, tutto il mio merito passato, presente e futuro, io l'abbandono con indifferenza, per il vantaggio di tutti gli esseri» (Shantideva, Bodhicharyavatara, III, 10-11). Cit. da Raniero Gnoli nell'Introduzione a Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamaka karika)  di Nagarjuna, Boringhieri, To 1968. È inevitabile chiedersi come possa ciò che non esiste prendere decisioni.
4) Jack Kerouac, Il sogno vuoto dell'universo – Saggi sul Buddhismo, Oscar Modadori, Mi 1996, p. 114.
5) Ibid., XXIV, 11. Alle Madhyamaka karika (op. cit.) sono aggiunte quattro laudi: Laude del Trascendente il Mondo, Laude del Senza Uguale, Laude dell'Inconcepibile, Laude della Suprema Realtà. Queste laudi ci appaiono, a tutti gli effetti, come canti filosofico-devozionali, riconoscenti implicitamente l'esistenza del Sé non-duale, assoluto, nirguna (privo di attributi) e quindi, dal punto di vista relativo, definibile solo negativamente. R. Gnoli, nell'Introduzione, osserva che le laudi di Nagarjuna «sembrano echeggiare» nell'Inno a Dio  di Proclo. 
6) «Si deve qui ripetere che secondo la filosofia buddhista non c'è uno spirito permanente, immutabile da dover essere considerato come "Sé" o "Anima", o "Ego", opposto alla materia» (p. 25). E più avanti: «C'è un'altra domanda che frequentemente viene posta: Se non c'è un Sé, un atman, chi realizza il Nirvana? prima di proseguire sul Nirvana, poniamoci la domanda: Chi pensa in questo momento, se non c'è un Sé? Abbiamo visto in precedenza che è il pensiero che pensa, che non esiste un pensatore dietro un pensiero. Allo stesso modo, è la comprensione (panna), la sapienza, che comprende. Non c'è un altro Sé dietro la realizzazione». Walpola Rahula, L'insegnamento del Buddha, ediz. Paramita, Roma 1994, p. 49.
7) Pandit Lakshminatha Jha dice: «Se la radice dell'esistenza fenomenica fosse manifesta all'intuizione, allora qual'è il fondamento dell'esitenza fenomenica di cui essa è una manifestazione, dal momento che ogni cosa è shunya? Pertanto la dottrina secondo cui ogni cosa è shunya si trova in conflitto con tutto, e poiché essa nega un fondamento per qualsiasi cosa va rifiutata» (cit. da Agehananda Bharati in La tradizione tantrica, Ubaldini, Roma 1977, p. 21).
8)  «Per fare l'oro bisogna già averne», recita un adagio alchemico; esso equivale al latino: nemo dat quod non habet. «Questo ricorda il detto ermetico di Enrico Cornelio Agrippa [...] La chiave non si trasmette con gli scritti ma "sed spiritui per spiritum infunditur" ovvero "si infonde nello spirito per mezzo dello spirito"». Citaz. di Alberto Fava comparsa nel suo saggio Appunti per lo studio della Tradizione, Viàtor, anno I, n° 1, G.E.R, Tn. 
9) Cit. da W.Rahula, op. cit. p. 44.
10) Sandro Consolato, in Julius Evola e il Buddhismo (SeaR ediz., Borzano R.E. 1995), cita il maestro Zen Dogen: «Studiare il buddhismo, significa studiare l'ego, e studiare l'ego equivale ad abbandonare l'ego». Il tenore di tale riflessione sembra consentire la seguente variazione: «Studiare l'ego, significa studiare il Buddhismo in quanto nivritti-marga, e studiare il Buddhismo equivale ad abbandonarlo».  Anche in questo caso non ci si può non chiedere "chi" abbandoni l'ego. Xu-yun disse: «Dobbiamo scoprire da dove proviene questo "chi?" e che cos'è. Rivolgere verso l'interno l'investigazione è chiamato anche "rivolgere all'interno l'udito per udire la natura originaria"» (Nuvola Vuota - Autobiografia di un Maestro Chan, Ubaldini, Roma 1990, p. 155). Queste parole del grande maestro Ch'an  ricordano molto da vicino la dottrina dell'Atma-vicara, l'investigazione sul Sé, riproposta dall'advaitin Shri Ramana Maharshi, il quale sosteneva l'inesistenza sostanziale del jiva o io empirico: «Perciò quando il mondo appare come reale il Sé è nascosto; e quando il Sé splende il mondo non appare. Se si indaga con insistenza sulla natura della mente, essa svanisce lasciando il Sé. Ciò che si intende per "Sé" è l'Atman. La mente esiste sempre solo in dipendenza di oggetti di percezione, essa non può sussistere da sola. È la mente che viene chiamata corpo sottile o anima (jiva)» (Chi sono io?, Il Cerchio iniziative editoriali, Rimini 1995, pp. 22, 23). Chiamare il Supremo Bene Atman, Natura originaria o Shunyata si riduce in fondo ad una mera questione terminologica.
11) Induismo e Buddhismo, Rusconi, Mi 1973, p. 102. Assai vicina alla posizione di Coomaraswamy è quella di Christmas Humphreys: «L'insegnamento del Buddha sull'"io" è chiaro, tuttavia vari buddisti occidentali e Theravadini ignorano questa chiara tradizione, preferendole una loro dottrina. L'Atman delle Upanishad è l'IO assoluto che non appartiene a nessun mortale. Ma questo concetto già ai tempi del Buddha era degenerato nel concetto di un'"entità" immortale insita nello spirito di ogni "entità" di cui era possibile perfino determinare l'estensione. Contro tale interpretazione dell'Atman il Buddha concepì la dottrina del non-Atman (nel codice Pali: Anatta), in cui egli analizzò quella cosa chiamata uomo e dimostrò che non conteneva neppure un fattore permanente, né alcunché di simile ad un'"anima" immutabile e immortale. Tale asserzione, tuttavia, è stata ridotta da successivi buddisti (con interpretazione riduttiva) ad una dottrina negante l'esitenza dell'anima, dottrina che non ha nessun fondamento nei testi e nel buon senso» (Il Buddismo, Ubaldini, Roma 1964, p. 23). In modo se possibile ancor più chiaro, D.T. Suzuki, in Misticismo cristiano e buddhista (Ubaldini, Roma 1971), sostiene: «La negazione dell'Atman riaffermata dagli antichi buddhisti si riferisce all'Atman come io relativo, non come io assoluto».
12) In Induismo e Buddhismo, op. cit., Samyutta, II, 106, p. 96. Fung Yu-lan, in Storia della filosofia cinese, Mondadori 1975, p. 192, cita la teoria, sviluppatasi nel II sec. d.C., secondo la quale il Buddha «non fosse altro che un discepolo di Lao-tse. Questa teoria fu ispirata da un'affermazione contenuta nella biografia di Lao-tse nel Shi Chi o Documenti storici (cap. 63), dove si dice che Lao-tse sul finire della sua vita scomparve e nessuno seppe dove andò a finire. Elaborando quest'affermazione, alcuni ardenti taoisti crearono la leggenda che quando Lao-tse andò in Occidente finì col raggiungere l'India, dove insegnò al Buddha e a molti Indiani ed ebbe in tutto 29 discepoli. Ne conseguiva che la dottrina dei Sutra buddhisti (testi sacri) non era che una variante straniera del Tao-Te-King, cioè del Lao-tse». Cfr. anche, in Storia delle religioni a c. di H. Ch. Puech, Il buddhismo cinese di Paul Demiéville: «[...] nel 166, vediamo l'imperatore stesso offrire nel suo palazzo sacrifici a Huang-Lao e al Buddha.  Questi primi testi ci mostrano il buddhismo penetrato nell'aristocrazia più elevata e fin nella corte imperiale dei Han Orientali in forma di culto, e di un culto associato a quello di una divinità taoista con cui il Buddha era destinato più o meno a confondersi, come un accolito esotico. Ne è prova il fatto che, in un memoriale [...] il Buddha non sarebbe stato che una trasfigurazione di Lao-tzu, partito per recarsi a visitare i barbari». La "leggenda" ci pare significativa di come l'insegnamento silenzioso del Buddha, nella sua essenza, non possa che attingere a quel Dharma eterno ed universale sul quale si fondano le varie Tradizioni. Repetita iuvant !
13) Walpola Rahula, op. cit., pp. 5 e 10.
14) Cit. in Buddismo  di Paolo E. Pavolini, Hoepli, Mi 1977. La frase citata, pur confermando la tesi che il Buddha non abbia fatto altro che riproporre l'insegnamento delle Upanishad, interpreta la dottrina dell'Anatman come sostenitrice dell'inesitenza del Sé-Atman-Brahman, invece che dell'anima-atman-jiva. Angelo Moretta, abbracciando la tesi di Coomaraswamy circa il radicamento del Buddhismo nei Veda, scrive: «A chi poi giudica l'intero Vedismo-Brahmanesimo come "pre-buddhistico", si potrebbe rispondere che l'intero Buddhismo può essere sintetizzato in un semplice passo della Katha Upanishad, in cui si dice: "Il saggio, avendo compreso la diversa natura dei sensi e quello ch'è il sorgere e il tramontare di essi, si affranca dal dolore" (VI. 6)» (da I veggenti dell'India, Ecig, Ge 1990, p. 307). Mircea Eliade, in La concezione della libertà nel pensiero indiano - Heliodromos  n° 10 -, nota: «La vita è dolore, ripete l'India dalle Upanishad in qua: sarvam duhkmam sarvam anityam ». Marco Pucciarini, nel saggio Il Buddhismo e la "questione" delle caste, pubblicato in Vie della Tradizione  n° 58, scrive: «I segni, le tracce, di questa ricerca [...] si trovano già nelle Upanishad ed il Buddhismo non fa che allinearsi lungo questa prospettiva di Liberazione e di eterno commento alla Verità dell'esperienza interiore».
15) R. Lacquaniti, in Autoconoscenza, ediz. Asram Vidya, Roma 1973, p. 8, riferendosi al Buddhismo e al Cristianesimo, dice: «Sono due strade che si integrano: l'una che è per i pochi, conduce alla totale trascendenza del fenomeno Io-desiderio, conquistando il Nirvana, coscienza assoluta. L'altra, che è per i molti, conduce alla compartecipazione amorevole di ogni espressione umana». Ho citato la frase perché vi si sottolinea che il Buddhismo, in quanto insegnamento realizzativo, è per pochi. Sembra però che, in quest'era buia, nemmeno l'Amore onnicomprensivo additato dal Cristianesimo sia accessibile alle moltitudini. Purtroppo, nella seconda edizione riveduta ed ampliata dell'op. cit. (1993) compare un'appendice - Dinamica di un'evoluzione planetaria - in cui l'ONU viene rappresentato quale apice della coscienza planetaria. Ciò, pur senza togliere nulla al valore intrinseco dell'opera, pone la stessa in una luce ambigua dal punto di vista tradizionale.
16) Cit. da R. Gnoli in op. cit., p. 113.
17) Cfr. Bhagavan Ramana Maharshi, L'Essenza dell'Insegnamento - Upadesha Sarah, a c. di Skanda Bhakta (C.Rossi, Kanvashrama Trust, Tiruvannamalai 1988, p.17): «Se uno ricerca (senza interruzione) cosa è la mente, troverà che non esiste mente per niente. Questa è, grazie alla sua dirittezza, la Via (per tutti)». A. Daniélou, in Miti e Dei dell'India (red ediz., Como '96, p. 235), scrive: «Siccome i metodi dello yoga, che in questo differiscono dai riti, sono aperti a tutti coloro che ne seguono le discipline, Shiva, lo Yogi, è accusato nei libri sacri degli ariani di essere il maestro degli umili, degli impuri, di essere la divinità che rivela i segreti della più elevata verità a chi non ha nemmeno le qualifiche per la pratica dei riti». Marco Pucciarini, nel già citato saggio Il Buddhismo e la "questione" delle caste, nota: «Il Compiuto si rivolgeva a chiunque, senza tener conto della casta d'appartenenza. [...] A chi lo rimproverava di accogliere presso di sé persone poco raccomandabili, egli rispondeva "la mia Dottrina è Grazia per tutti. E com'è di Grazia per tutti? Perché con essa anche dei miserabili pezzenti possono divenire asceti"». Ciò indica chiaramente la natura metafisica ed esoterica dell'Insegnamento del Risvegliato: soltanto la Verità assoluta è "cattolica" e non conosce distinzioni di ordine religioso, etnico o castale. Sempre nel medesimo saggio, Pucciarini aggiunge: «Nel Buddhismo antico non v'è nulla che possa essere descritto come una "rivoluzione sociale" contro il sistema delle caste. [...] Compito del Buddha non fu quello di predicare una riforma della Società che gli era contemporanea, ma fu quello di predicare una riforma dell'uomo, di indicare una "via di salute" agli uomini, di restaurare l'Antico Ordine, il Sanatana-dharma». Interpretare in senso democratico-orizzontale un insegnamento spirituale, quale fu quello del Buddha, costituisce un ottenebramento oggi assai diffuso: l'uomo moderno, totalmente identificato nel divenire samsarico, crede di poter misurare col proprio metro anche l'Immisurabile.  
18) Nagarjuna, op. cit., XXIV, 10. L'aforisma citato non va certo interpretato nel senso che l'«ordine pratico delle cose» venga prima della «realtà assoluta». Cesare Rizzi, in Chandrakirti, EMI, Bologna 1983, a p. 45 scrive: «[...] Nagarjuna presenta, con una chiarezza e una semplicità mirabili, la concezione delle due verità o dei diversi piani della realtà: la "verità di avvolgimento" (samvritisatya), che copre e nasconde la vera natura delle cose,[...] e la "verità ultima, assoluta", (paramarthasatya) che a essa si contrappone e che si identifica con la vacuità (shunyata)». Anche Shankara distingue tra verità empirica (vyavahara) e Verità assoluta (Paramartha).
19) Si usano i termini "Hindu" o "Hinduismo" per comodità d'esposizione. Il Jagadguru Shri Chandrasekharendra Sarasvati, in Dharma Indù (Vidya, novembre 1996, ediz. Asram Vidya, Roma), nota: «[...] se chiedete ad un giovane indiano quale religione professi egli, se ha ricevuto anche una minima educazione di tipo inglese, risponderà immediatamente che appartiene alla religione Indù. D'altra parte, se chiediamo ai nostri contadini come si chiama la nostra religione, essi non saprebbero darle un unico nome. Se facciamo la stessa domanda a coloro che vivono nel sud dell'India, essi si descriverebbero appartenenti al culto Shaiva o Vaishnava. [...] Se "Induismo" fosse veramente il nome della nostra religione, esso avrebbe dovuto essere conosciuto e descritto come tale anche ai tempi dei nostri remoti antenati. Ma per i nostri avi, anche di pochi secoli fa, il nome ‘Induismo’ sarebbe stato un termine strano e senza significato, e ciò perché la nostra è una religione senza nome. [...] La vera grandezza della nostra fede consiste nel fatto di non avere un nome. La necessità di un nome per un qualunque dato sorge solo quando esistono molti esemplari dello stesso genere così da poterli in qualche modo distinguere. Ma se il dato in questione è uno e uno solo, che necessità c'è di un nome? [...] Si era fatto notare all'inizio del testo che le altre religioni prendono il loro nome da quello dei rispettivi fondatori. Quindi, tali religioni non esistevano prima dell'avvento di queste grandi personalità. [...] Da ciò segue logicamente che la religione degli Indù doveva esistere prima di tutte queste altre fedi. Essa doveva così essere la sola religione esistente al mondo, provvedendo alle necessità spirituali dell'intera umanità». Riguardo all'ortografia del termine "Hinduismo", cfr. Per un approfondimento della nozione di "Hinduismo" di Mario Piantelli, comparso in Sri Vidya, anno IV n° 2-3, SV. In questo studio, Piantelli scrive: «[...] per inciso, sarebbe meglio adottare anche in Italia la grafia con l'aspirazione iniziale: in sanscrito il termine "Indu" denota il disco lunare e/o la divinità che gli corrisponde, sicché "induisti" sarebbero, a rigore, degli "adoratori della Luna"».
20) A.K. Coomaraswamy scrive: «Quanto all'opinione secondo cui il Buddha sarebbe venuto per distruggere un'antica Legge, abbiamo più volte dimostrato l'ininterrotta continuità esistente tra le dottrine brahmaniche e quelle buddhiste. La dottrina buddhista è indubbiamente originale (yoniso manasikaro), ma non è di certo nuova. Il Buddha non fu un riformatore delle istituzioni sociali, bensì di stati d'animo. È l'oblio della Legge eterna che produce le lotta di classe e i conflitti familiari. Le "quattro caste" sono naturalmente "protette" mediante la conservazione dei caratteri ereditari, e si vede screditare la dottrina delle caste solo quando gli uomini sono dominati dalla cupidigia (Sutta Nipata, 314, 315)» (Op. cit., pp. 96, 97). Hans W. Schumann, nel suo Il Buddha storico (Salerno ed. Roma '86, IV, 4), sostiene che se il Buddha «contestava ai bramini e all'intero sistema delle caste l'origine divina, era però convinto che tale sistema fosse insito nel meccanismo del mondo.[...] Buddha non si opponeva al sistema delle caste in sé, ma all'errato atteggiamento mentale verso appartenenti ad altre caste», e sottolinea come questi ritenesse che  «le differenze sociali tra gli uomini non corrispondevano a differenze di sostanza». È possibile che il fraintendimento dell'insegnamento del Tathagata, volto a riproporre il concetto di casta o razza dello spirito,  abbia portato ad un irrigidimento formale del sistema delle caste. La cosa, in pieno Kali-yuga, non deve affatto stupire e invita ad interrogarsi circa l'ammissibilità della divulgazione delle dottrine riguardanti la realizzazione ultima; dottrine che, lo ribadiamo, sono universali dal punto di vista metafisico ma per pochi dal punto di vista relativo.
21) E poco più avanti aggiunge: «Un persistente errore d'interpretazione della