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La risposta sbagliata al senso di colpa è anche la più facile: perseverare sulla via del male

di Francesco Lamendola - 20/11/2008


Mi sono chiesto molte volte, Sabina, quale sia la forza malvagia che spinge le persone a perseverare nei propri errori, nei propri comportamenti sbagliati a danno del prossimo, pur rendendosi conto benissimo di agire male.
Questo, per me, è rimasto a lungo un enigma. Pensavo, come insegna Socrate, che gli esseri umani non si rendono conto di fare il male; perché, se lo capissero, smetterebbero di farlo. Poi ho capito che non è così; che sarebbe troppo bello e troppo semplice, se così fosse.
No: molte volte gli esseri umani sanno bene quello che stanno facendo; sanno quale sia la differenza tra il bene e il male: e, ciononostante, imboccano volontariamente la via del male.
Ho detto di aver capito che l'etica di Socrate si regge su una premessa erronea; devo correggermi: non l'ho capoto, l'ho visto. E, precisamente, ho visto come si comportano i bambini, e più ancora gli adolescenti, quando commettono una cattiva azione ai danni di un compagno.
Cosa c'entrano i bambini? C'entrano, eccome: perché essi incominciano appena a intuire la differenza tra il bene e il male e, pertanto, osservarli significa osservare il comportamento umano anteriormente all'origine dell'etica.
Capisci, Sabina? L'essere umano in sé e per sé, così come esso è realmente, prima che l'educazione, l'ambiente e tutto il resto comincino a modellarlo e dargli una struttura morale che, poi, lo accompagnerà per il resto della sua vita (anche se, crescendo, magari deciderà di infrangerla). Insomma, quell'uomo «primitivo» che tanto cercavano i philosophes illuministi e pre-romamtici, Rousseau in testa a tutti gli altri.
Ricordi? Te ne ho già parlato, narrandoti la storia del 'ragazzo selvaggio' dell'Aveyron, sul quale il regista Truffaut ha costruito uno dei suoi film più belli [cfr. il nostro precedente articolo: «Il conflitto tra "natura" e "cultura" nel caso del ragazzo selvaggio dell'Aveyron», consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice].
Quanto all'adolescenza, è un discorso un po' diverso. Non è che l'adolescente sia pre-morale o a-morale, come lo è l'infanzia: l'adolescente sa distinguere perfettamente il bene dal male; però la tempesta ormonale che lo afferra e lo squassa e il tramonto delle sue certezze infantili e dei relativi punti di riferimento ne fanno una specie di «analfabeta di ritorno» sul piano etico.
È per questo che l'adolescente, così spesso, mostra di non saper valutare la portata e le conseguenze delle proprie azioni: non perché non conosca la differenza tra bene e male, ma perché è talmente assorbito dai suoi problemi esistenziali, che la vista gli si offusca e la prospettiva gli si deforma, letteralmente; e i contorni del giusto e dell'ingiusto tendono a sfumare, a divenire ambigui e perfino inconsistenti, come un paesaggio ben noto ma che, per effetto del posarsi di un denso banco di nebbia, diviene all'improvviso sconosciuto e inquietante.
Orbene: osservando i bambini e gli adolescenti, ho potuto constatare come si comportano allorché agiscono male nei confronti di un coetaneo, e l'adulto interviene, con tatto e delicatezza, per farlo notare loro.
Il bambino prova vergogna per il male commesso e, se guidato, arriva a comprenderlo e a porgere le sue scuse o a tentare di rappacificarsi con la sua vittima. L'adolescente prova anch'egli vergogna, ma non è altrettanto pronto a riconoscersi in torto e a offrire una riparazione; può accadere che si incattivisca ulteriormente e che perseveri nei comportamenti precedenti.
Questo mi ha fatto capire quanto sia ingenuo e semplicistico pensare che basti mostrare agli esseri umani la via del bene, perché essi la percorrano e volgano le spalle a quella del male. Tra capire il male che si sta facendo e cambiare strada c'è un abisso: l'abisso che consiste nell'accettare di guardarsi dentro e di riconoscere le proprie viltà, cattiverie e debolezze. Ed è un abisso che tende ad allargarsi, allorché ci si sente addosso gli sguardi altrui e si teme, più di ogni altra cosa, di essere giudicati.
E allora diventa più semplice e più facile fare finta di niente, negare ogni addebito e perseverare sulla via del male, magari accentuando la propria cattiveria. In ogni caso, quel che importa è liberarsi dal peso del senso di colpa: senso di colpa che non nasce da un giudizio negativo degli altri, ma che la propria coscienza già avverte, più o meno oscuramente, nel momento stesso in cui    l'ingiustizia viene commessa a danno di qualcuno.
In questo, sì, Socrate aveva ragione: quando affermava (o, per dir meglio, lo affermava Platone per bocca di Socrate, ad esempio nel «Gorgia») che è più infelice chi commette ingiustizia di chi non la commette, anche se il primo viene premiato dal successo e il secondo, al contrario, deve soffrire per la sua condotta improntata a giustizia.
Perché è vero che il bene è premio a se stesso, e che il bene fatto per ottenere riconoscimenti non paga; mentre commettere il male, al contrario, spesso consente di ottenere onori, denaro e potere. Però, se è vero che la persona onesta e virtuosa gode già il premio del suo bene operare, che consiste nella pace dell'anima con se stessa (altro discorso, ovviamente, è quello riguardante la pace dell'anima con la realtà esterna), da ciò non discende affatto che la persona che agisce in modo ingiusto sia pronta a ravvedersi, non appena abbia la possibilità di comprendere che la sua azione è cattiva e che gli ruberà la pace dell'anima.
Al contrario: per moltissime persone risulta più facile (o, se preferisci, meno difficile) convivere con l'inferno nella propria anima, piuttosto che accettare di mettersi in conflitto con il proprio «piccolo io», quello che vuole imperiosamente soddisfare tutte le proprie brame ed i propri capricci, con qualunque mezzo; e tanto più, se desistere dal male significa esporsi anche al giudizio degli altri.
La maggior parte delle persone, infatti, teme più l'umiliazione di dover fare ammenda del male commesso, che il disagio di essere giudicata negativamente sotto il profilo morale. In altre parole, non teme tanto di apparire ingiusta e cattiva, quanto di apparire debole e sconfitta.
Ciò accade perché la maggior parte delle persone ha un «piccolo io» ipertrofico e, per contro, un Sé appena embrionale; e un Sé poco sviluppato implica anche un basso livello di autostima. Ora, avere poca stima di sé è precisamente ciò che rende così difficile ammettere i propri sbagli, riconoscere le proprie colpe, chiedere perdono a coloro che abbiamo offeso. Tutte queste cose richiedono una personalità forte e un animo coraggioso: sono un sintomo di forza, non di debolezza; ma le persone dominate dal «piccolo io» non lo sanno e credono tutto il contrario.
Per esse, riconoscere le proprie colpe e cercare di porvi rimedio è un sintomo di debolezza: e non sono disposte ad apparire deboli, né davanti agli altri, né davanti a se stesse, proprio perché, in qualche luogo profondo e nascosto del loro Sé, sanno invece, perfettamente, di essere, appunto, deboli e vili.
Ecco dunque, a grandi linee, il labirinto tortuoso e perverso del male, con le sue spirali che si autoalimentano incessantemente e che si nutrono, come le sanguisughe, di quelle stesse forze vive,  dalle quali potrebbe scaturire la salvezza, se le persone in questione avessero il coraggio di afferrare le schifose bestiacce e di strapparle via dalla propria pelle, risparmiando a sé stesse, con un attimo di acuta sofferenza, lunghi e interminabili tormenti senza speranza di redenzione.
Perché è questo, Sabina, il castigo peggiore riservato a coloro i quali non hanno abbastanza coraggio, abbastanza lealtà e onestà con se stessi, per riconoscere il male commesso e per cercare di uscirne, nonché - fin dove possibile - di porvi rimedio: il fatto di precipitare nell'inferno della disperazione, della oscura consapevolezza che nessuna redenzione sarà possibile.
Nessun male compiuto è, forse, del tutto irrimediabile, finché sopravvive una coscienza desiderosa di tornare alla luce del bene, assumendosi la responsabilità di espiare volontariamente le proprie cattive azioni; ma, se tutte le nostre forze sono assorbite nello sforzo di mascherare il grido della coscienza anche a noi stessi - il grido, dico, della coscienza che urla di dolore non per il male subito, ma per il male commesso - allora tutto è perduto, e quell'anima non uscirà mai più dal proprio inferno.
In questo senso, Sabina, anche se a livello istintivo possiamo provare avversione e ripulsa per tutti coloro i quali, consapevolmente, si macchiano di ingiustizia nei confronti dei propri simili e perseverano nel male, senza mostrare alcun segno di ravvedimento, da un altro punto di vista dovremmo provare per essi una profonda pietà.
Con il loro rifiuto di ammettere le proprie colpe e di espiare, si sono preclusi con le proprie mani l'unica via di salvezza, quella della redenzione; e si sono condannati a convivere per sempre con il senso di colpa represso o rimosso.
Davvero, essi sarebbero meritevoli più di commiserazione che di odio o disprezzo: si stanno già infliggendo la peggiore delle punizioni, quella che non avrà mai fine: vivere nella menzogna, nel tradimento permanente del proprio vero Sé.
Non vorremmo, per nulla al mondo, essere nei loro panni.
Essere nei panni di una madre che ha ucciso il proprio figlio e che lo nega ostinatamente, gettando accuse di ogni tipo sui vicini di casa, su misteriosi personaggi venuti da fuori, sui giudici che, per pigrizia, hanno voluto incastrarla, invece di indagare seriamente.
Essere nei panni di una coppia che ha massacrato un'intera famiglia di vicini di casa e che poi, dopo aver reso una piena confessione, ritratta ogni cosa e si proclama innocente, dicendo di essersi solo immedesimata nel ruolo degli assassini.
E così via, di menzogna in menzogna, di viltà in viltà: qualunque cosa, qualunque assurda inverosimiglianza, pur di rifiutare le proprie responsabilità, di negare il male commesso.
Anche di questo, Sabina, ricordo di averti già parlato [cfr. l'articolo «La rimozione della colpa, malattia mortale della modernità», sempre sul sito di Arianna Editrice]; perciò non mi soffermo oltre su questo aspetto.
Tu forse penserai che sto esagerando, che sono troppo pessimista.
Bene; ti chiedo allora di ripensare alla tua esperienza diretta, quotidiana, delle persone che stanno intorno a te.
Avrai certamente notato come si originano certe piccole insofferenze, certe forme di malcelata insofferenza. Il tale, un certo giorno, ha commesso uno sgarbo, o una piccola scorrettezza nei tuoi confronti; e se ne è accorto immediatamente. Ebbene, che cosa ha fatto a quel punto? Ti ha tolto il saluto.
Ogni volta che t'incontra, si rabbuia. Un poco alla volta, è divenuto un tuo nemico segreto e implacabile: quando ti incontra, vede rosso. Ce l'ha con te; ti vorrebbe incenerire, se potesse. E tutto questo, perché? Perché si sente in colpa nei tuoi confronti; ma, non avendo la forza e l'onestà di riconoscere il suo torto, ha preferito autoconvincersi che sei stata tu a commettere chi sa quale grave torto nei suoi confronti. Un po' alla volta, ha finito per vedere se stesso come la vittima, e tu come il suo persecutore.
All'inizio, ogni volta che ti incontrava, era solo la vergogna del ricordo della sua cattiva azione; poi, gradualmente, insensibilmente, la ragione originaria di quel disagio è stata dimenticata, cancellata nella sua memoria: non ci crederai, ma quella persona, a suo modo in buona fede, non se la ricorda più. In compenso, sa che tu lo perseguiti, che la tua sola presenza vale a togliergli la pace, la pace sacrosanta cui ogni essere umano ha diritto: e perciò ti odia. Ti odia al punto che, se ne avesse l'occasione, ti farebbe tutto il male possibile, e questa volta in piena consapevolezza.
Per intanto, si vendica della tua esistenza, dell'affronto intollerabile che la tua esistenza costituisce per lui, sparlando di te a più non posso con tutto e con tutti, seminando parole velenose a destra e a manca, calunniandoti con quanto fiato ha in gola. Ma, se gli sarà possibile, non dubitare che passerà anche ai fatti: danneggiandoti nel lavoro, o economicamente, o in qualunque altra maniera gli si presenti.
Ebbene, se questo accade con le persone che ti hanno fatto del male in maniera leggera e casuale, almeno all'inizio, figurati cosa succede con coloro che te ne hanno fatto tanto, e in modo assolutamente intenzionale.
Davvero puoi immaginarti che costoro riconosceranno la propria colpa, e sia pure non per un atto doveroso di giustizia e di riparazione, ma anche solo per liberare la propria anima dall'inferno dei sensi di colpa?
Giammai; tutto il contrario.
Inutile dire che, agendo a quel modo, le persone che commettono il male non fanno altro che alimentare incessantemente i propri sensi di colpa; ma, invece di mettersi sulla via maestra della liberazione, imboccano i sentieri tortuosi della ulteriore degradazione.
Sono i peggiori nemici di se stessi e, in qualche parte della loro anima, lo sanno. Non solo: in qualche angolo remoto della loro coscienza, essi si odiano e si disprezzano. Ma ciò non basta affatto per farli rinsavire; non basta per rimetterli sulla buona strada: quella del riconoscimento del male fatto e della necessità di espiarlo.
Soffrono; ma soffocano i sintomi del male e cercano di curarli sprofondando sempre più nella via senza ritorno dell'ingiustizia e della cattiveria.
Sono anime perse.
Per questo ti dico, Sabina: cerca di tendere loro una mano, se puoi; e se no, abbi compassione di loro, e dirigi lontano i tuoi passi.
Niente e nessuno li potrà salvare: sono in balìa del male.
Per quanto possano aver raggiunto, in apparenza, le mete più desiderabili - onori, successo, potere - sono in verità dei miserabili, straziati a sangue dalle Furie del rimorso.
Fingono di non provare rimorsi, anzi, di non riconoscersi colpevoli di nulla; ma non possono mentire a se stessi fino in fondo. Agli altri sì, forse; perfino alle mogli, ai mariti, ai figli, all'intera società.
Ma alla propria anima, no.
Ed è quella la loro condanna.
Una condanna terribile, Sabina: abbi pietà di loro, e passa oltre.