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Il libro della settimana: Stefano Borselli (a cura), Ex comunisti. Addio a lotta continua

di Carlo Gambescia - 20/11/2008

Il libro della settimana: Stefano Borselli (a cura), Ex comunisti. Addio a lotta continua, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 74, euro 12,00 - www.rubbettino.it

Esistono due tipi di memorialistica politica sul Sessantotto e dintorni. Quella che si può definire ex post, nel senso di una graduale, seria e postuma presa di coscienza degli errori ideologici commessi in passato, e quella ex ante, per la quale nulla sembra aver influito sulle previsioni ideologiche “di partenza”, alle quali magari oggi si è fatto indossare un abitino postmoderno.
Il notevole libro curato da Stefano Borselli, Ex comunisti. Addio a lotta continua (Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 74, euro 12,00 ) appartiene alla prima tipologia. Alla seconda, ad esempio, vanno invece ascritti i libri alla Mario Capanna imbevuti di postgandhismo e postmarxismo à la carte.
Tre i piani di lettura di un libro sostanzialmente scritto a più mani da Stefano Borselli, Leonardo Tirabassi, Roberto Silvi, Rino Melotti, Giuliano di Tanna, Riccardo de Benedetti.
Il primo è quello legato storia di Lotta Continua. Sorta di movimento secolare su basi carismatiche, dedito alla ricerca e affermazione della propria verità, come tutti i movimenti terreni di salvezza politica. Di qui gli alti e bassi, mediati dal detentore del carisma, Adriano Sofri. Fino al definitivo scioglimento di un movimento sociale trasformatosi in setta, e quindi condannato allo scisma.
Il secondo piano è quello connesso all’omicidio Calabresi. Attraverso il quale si scopre come la logica salvifica del movimento, non potesse non evitare la rituale indicazione del capro espiatorio, da parte del capo mitico. Designazione per alcuni solo morale, per altri reale. Di qui il fin troppo scontato passaggio dalle armi della critica alla critica armi. O se si preferisce: dell’eliminazione fisica dell’avversario.
Il terzo piano è quello sociologicamente più ricco. Perché ci permette di approfondire i meandri antropologici della giustificazione rivoluzionario-salvifica della violenza. Un aspetto colto da Roberto Silvi. E ripreso anche da Leonardo Tirabassi:
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“Il punto di partenza è sempre quello della doppia moralità ben messa in risalto da Roberto Silvi: ‘Una delle contraddizioni di ogni ‘rivoluzionario di professione’ come li chiama Camus nell’Uomo in rivolta [è] quella di essere o credersi sostanzialmente un pacifista perché il suo uso della violenza, anche se compie delle azioni atroci, è giustificato dal fatto che lo fa perché costretto e solo per liberare il mondo dalle guerre volute dalla borghesia per difendere i suoi interessi’. Parole non distanti dalle considerazioni del giovane Lukács sulla necessità tragica, perché inevitabile destino, che i giusti, i rivoluzionari, debbano prendersi carico della necessità storica della violenza. Moloch a cui sacrificare la vita altrui e propria. ‘Solo l’azione omicida dell’uomo, il quale sa con assoluta certezza e senza dubbio alcuno che in nessuna circostanza l’omicidio deve essere approvato, può avere, tragicamente, una natura morale (György Lukács, Scritti politici giovanili 1912-1928, Laterza 1972, p. 14). L’omicidio non è permesso ma deve essere compiuto!”.
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Non c’è, insomma, in chiunque offra se stesso al culto della rivoluzione, l’accettazione della violenza quale componente naturale dei processi sociali; una violenza da addomesticare vista l’impossibilità di sopprimerla. C’è invece nel rivoluzionario la sopravvalutazione della soppressione fisica dell’avversario, quale componente di un processo catartico, che porterà alla liberazione definitiva da ogni forma di violenza. Senza però indicare quando, come e dove essa si arresterà. Come questo ottimo libro ci ricorda. E meglio di tanti presuntuosi trattati contemporanei di sociologia politica.