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La santità di Papa Pacelli e l'opposizione ebraica

di Sergio Romano - 20/11/2008

 

Diversi porporati, dignitari e notabili del Vaticano, hanno espresso dure critiche nei confronti del ministro israeliano Herzog, nonché di esponenti dell’ebraismo italiano, per le critiche espresse circa la possibile imminente santificazione di Pio XII. Questione interna del cattolicesimo sostengono, e ogni interferenza esterna è fuori luogo e sgradita. Non passa giorno che dal Vaticano non giungano critiche per questioni le più diverse a esponenti politici e giudiziari nostrani, nonché esteri: Eluana, Barack Obama gli esempi più noti e recenti. Fermo restando il diritto di ciascuno ad esercitare il proprio magistero in completa autonomia, ritengo che il diritto di critica sia un diritto «universale» quando esercitato con onestà intellettuale ed educazione.
Convenzioni «ad excludendum», soprattutto su temi etico spirituali mal si sposano con il supposto universalismo di cui la Chiesa si ritiene portatrice.
Libera la Chiesa di santificare per esempio San Giustino martire, San Gregorio di Nassa, San Giovanni Crisostomo, San Girolamo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, conosciuti per il loro antisemitismo (oggi molti preferiscono usare il termine antigiudaismo), ma liberi gli ebrei di criticare tutti costoro per le loro dichiarazioni, e di pensare e dichiarare che riteniamo Pio XII, al pari dei precedenti Santi citati, un chiaro esempio di antitesi alla santità.
Giacomo Zippel,
zippels@libero.it

In occasione dell’anniversario di questo Papa, desidero da un lato dare una informazione.
Ricordo da bambino mio padre in un campo di concentramento a Königsberg (oggi Kaliningrad), per anni senza notizie. L’unico organismo che si interessava dei prigionieri di guerra era una delegazione del Vaticano che seguiva direttamente Papa Pacelli. Per questo noi ringraziamo ancora.
Bruno Nunziati,

Cari lettori,
ciò che il padre di Bruno Nunziati disse al ritorno dalla prigionia fu detto in altre circostanze per parecchi anni da molti ebrei, dalle più importanti associazioni ebraiche e dai maggiori leader dello Stato israeliano.
Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha recentemente pubblicato presso Laterza un libro («L’inverno più lungo.
1943-1944: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma») in cui ha ricostruito l’opera di aiuto e assistenza con cui il Vaticano salvò molti ebrei dalla deportazione e dalla morte. Paradossalmente questo libro sarebbe stato allora molto interessante ma politicamente superfluo.
Ciò che Riccardi racconta era già noto, sia pure per grandi linee, agli ebrei romani e italiani, a tutti i cittadini di Roma e all’opinione pubblica internazionale. Il problema che maggiormente interesserà gli storici, quindi, non è il diritto di criticare Pacelli e di fare campagna contro la sua canonizzazione (una questione su cui è possibile avere opinioni diverse), ma la ragione per cui una parte del mondo ebraico e dello Stato israeliano, verso la metà degli anni Sessanta, abbia imboccato una strada così radicalmente diversa da quella degli anni precedenti. Credo che le ragioni siano almeno tre.
La prima è il processo contro Adolf Eichmann a Tel Aviv nel 1960 e l’esecuzione della sua condanna a morte nel 1962. Sino a quel momento gli elementi costitutivi dell’identità israeliana erano stati l’epopea sionista, i faticosi progressi della presenza ebraica in Palestina, la lotta per la vita, la vittoriosa guerra contro gli Stati arabi dopo la proclamazione dell’indipendenza: un insieme di virtù civili e guerriere di cui i cittadini del nuovo Stato andavano giustamente orgogliosi.
Il caso Eichmann mutò il quadro e contribuì a fare del genocidio ebraico la pietra di fondazione di Israele. Allo Stato dei pionieri e dei contadini- soldati subentrò così, nell’autorappresentazione collettiva, lo Stato delle vittime e dei loro eredi: un mutamento che ebbe per effetto la ricerca dei responsabili e la richiesta d’indennizzi.
La seconda ragione fu l’apparizione nel 1963 dell’opera teatrale di Rolf Hochuth («Il vicario») in cui l’autore denuncia i peccati di omissione e i silenzi della Chiesa cattolica e del suo capo. Nato in ambiente tedesco, quando era ancora vivo il ricordo dei processi di Norimberga, il libro fu per molti aspetti una «chiamata di correo», il tentativo di allargare oltre la Germania l’area delle responsabilità.
Per l’ebraismo religioso più radicale e intransigente fu invece l’occasione per riaprire un vecchio contenzioso con la Chiesa cattolica.
La terza ragione, infine, fu la Guerra dei Sei giorni nel 1967. La conquiste territoriali a danno dell’Egitto, della Giordania e della Siria crearono in una parte della società politica israeliana la convinzione che i territori occupati fossero necessari allo Stato d’Israele e che occorresse annetterli con un graduale processo di colonizzazione. In questa prospettiva la rievocazione del genocidio e la ricerca dei responsabili potevano essere un efficace argomento contro coloro che pretendevano il ritorno ai confini del 1967. Ho l’impressione che il processo a Pacelli sia diventato, per questa strategia, controproducente.
Credo che la Chiesa, soprattutto dopo le grandi aperture di Giovanni Paolo II e la sua storica visita nella sinagoga di Roma, si aspettasse un atteggiamento diverso e che il contenzioso, d’ora in poi, possa soltanto inasprirsi.