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L’assedio di Gaza: è anche colpa nostra

di Akram Awad - 30/11/2008

 

 


Come comunità internazionale, noi tutti abbiamo la nostra parte di responsabilità per il brutale assedio di Gaza in atto, e potremo sperare in una rapida fine dell’assedio non prima di aver utilizzato ogni possibile mezzo di resistenza pacifica e nonviolenta.   

Non c’è molto da dire sull’Olocausto del popolo di Gaza—supponendo che il lettore abbia almeno seguito le cronache dei media su ciò che sta accadendo nella tormentata Striscia. Non è sorprendente apprendere che degli abitanti di Gaza abbiano ricorso all’eutanasia per metter fine alle vite di migliaia di pulcini appena nati, poiché perfino gli uccelli di Gaza preferirebbero morire con onore piuttosto che essere vittime della fame. Non c’è niente di anormale nel fatto che degli abitanti di Gaza tengano in vita i loro bambini nutrendoli con alimenti per animali poiché perfino coloro che sanno poco di Gaza sono consapevoli del fatto che questo è l’unico modo usato dalla sua gente per salvare l’intera regione da una definitiva esplosione. L’unico aspetto scioccante dell’attuale quadro generale è che, per quanto gli abitanti di Gaza stiano provando a convincere i loro figli che questa vita ha almeno qualche aspetto positivo a cui vale la pena aggrapparsi con tutte le forze, allo stesso modo il mondo si adopera per confutare simili convinzioni e per instillare nelle menti di quei bambini che questa vita e questo mondo non meritano nient’altro che la disgrazia di Gaza.

Per evitare che il lettore pensi che il suddetto mondo appartenga ad un altro pianeta, devo chiarire che il mondo a cui mi riferisco è in realtà quello del “noi”: me e voi. Per noi è facile dolersi per la gente di Gaza ed è facile implorare che essi siano pazienti e tenaci, inoltre, è facile condannare il massacro israeliano di un milione e mezzo di persone. Ciò che sembra impossibile, tuttavia, è ammettere di essere quelli che stanno mettendo sotto assedio Gaza e ammettere che tutti i nostri scritti e le nostre denunce, proteste, suppliche non sono altro—a meno che non siano seguiti da azioni concrete—che un timido riflesso della nostra indifferenza verso il massacro in atto contro i Palestinesi di Gaza e della mancanza di qualsiasi volontà da parte nostra di prendere provvedimenti seri e concreti per rompere l’assedio nella Striscia.

Il lettore potrebbe chiedersi: “provvedimenti seri e concreti? Io?”. La sua meraviglia si dissolverebbe non appena si arriva a comprendere che la resistenza pacifica e nonviolenta alle ingiustizie è stata, nel corso della storia, tanto efficace quanto la resistenza armata—quando non superiore, in molti casi. Ricordiamoci e ricordiamolo all’Egitto—corresponsabile insieme ad Israele del bagno di sangue a Gaza—che l’Egitto stesso non avrebbe ottenuto la sua indipendenza dal dominio coloniale nel 1923 senza la rivoluzione del 1919—che sotto gran parte dei punti di vista fu pacifica—e la disubbidienza civile che seguì l’arresto del leader del partito WAFD, Saad Zaghloul. Alla fine fu quella rivoluzione a costringere i colonizzatori ad arrendersi alla volontà degli egiziani e a portare l’indipendenza. Ricordiamoci anche che furono sia il movimento della pacifica non-collaborazione guidato da Mahatma Gandhi in India tra il 1920 e il 1922 che la famosa Marcia del Sale del 1930 a tenere impegnato il colonialismo inglese e a costringerlo a riconoscere l’indipendenza dell’India nel 1947. La determinazione di un uomo da poco settantenne a percorrere una distanza di 390 km per raggiungere il Mare Arabico e a rompere le leggi sul sale del Raj Britannico, che impedivano l’estrazione del sale, può essere vista da molti come un atto di follia, ma quando questo vecchio signore viene seguito da più di 60 mila indiani nel suo cammino verso il villaggio di Dundee e incoraggia milioni di persone alla disubbidienza civile, mettere in dubbio l’utilità della marcia per il sale diventa null’altro che una specie di sofisticheria.

La storia è piena di esempi di metodi di resistenza pacifica e nonviolenta dai quali i novant’anni di lotta palestinese—dalla Dichiarazione Balfour—potrebbero trarre lezione. Allora com’è che i Palestinesi non sono ancora riusciti a perseguire ciò che altri hanno ottenuto in uno stesso, o perfino più breve, lasso di tempo? Non è molto lontano dalla verità attribuire il successo delle lotte delle altre nazioni alla loro unità d’intenti e alla loro dedizione a realizzarli. Se i Palestinesi analizzassero attentamente il loro fallimento nel perseguire la libertà, allora ne farebbero probabilmente risalire le cause alla mancanza di quelle stesse peculiarità. Sono quasi sicuro che i Palestinesi non si sono mai messi d’accordo su un unico, centrale obbiettivo; se chiedete ai Palestinesi le loro opinioni sui metodi migliori per ottenere la libertà, sono convinto che potreste ricavarne abbastanza materiale per riempire parecchi volumi con a malapena qualche concordanza di vedute sui metodi. Per restare nel tema dell’articolo dico questo: il consenso popolare e la partecipazione di tutti i settori della popolazione sono condizioni necessarie per il successo di qualunque iniziativa di resistenza nonviolenta che possa essere considerata alla pari—o anche come sostituto—della resistenza armata.

Siamo partiti con l’assedio di Gaza e ora stiamo parlando di resistenza nonviolenta, allora qual è il punto? Ciò che sto provando a dire è che la resistenza pacifica e nonviolenta trae vantaggio da un valore aggiunto rispetto a quella armata; ovverosia che non è limitata ad un segmento preciso della nazione e tiene conto del contributo e del coinvolgimento di tutti i popoli del mondo—oltre che della stessa nazione perseguitata. Gli abitanti di Gaza ci hanno indotto a lanciare una resistenza nonviolenta contro il blocco navale quando si sono ribellati contro l’assedio e hanno demolito il muro di separazione al confine con l’Egitto per respirare il profumo di libertà per qualche giorno, prima che l’Egitto li costringesse a ritornare nella loro enorme prigione e a soffocare nelle loro gabbie. Solo alcuni a quel tempo hanno compreso il messaggio palestinese e hanno cominciato a sviluppare l’Idea, e così è nato il movimento di “Gaza Libera” (www.freegaza.org) e la sua brillante idea di condurre delle barche per rompere l’assedio di Gaza via mare. A dispetto delle loro limitate possibilità finanziarie e materiali, il gruppetto è riuscito a fornire la praticabilità della loro idea ripetendo l’iniziativa per tre volte, l’ultima delle quali su una barca con a bordo parlamentari che hanno ricorso a questa geniale idea dopo che era stato loro impedito dal regime egiziano di entrare a Gaza via terra.

Il movimento di “Gaza Libera” ha abbastanza di cui andare orgoglioso per il fatto di aver inventato l’idea delle “barche della libertà” e di averla messa in pratica. Il segno che viene lasciato è la parte più importante, l’azione collettiva, fatta da me e da voi, dalle nostre famiglie, i vicini, gli amici, i colleghi e tutti coloro che credono nella giustezza della battaglia palestinese, e il fatto che tutte queste persone abbiano anch’esse la loro parte di responsabilità nel raggiungimento della libertà per la Palestina. Le barche della libertà possono passare dall’essere solo una simpatica trovata ad un’arma concreta di resistenza nonviolenta solo quando i viaggi mensili diventeranno una rotta navale continuamente attiva e regolare, e quando una flotta di navi sostituiranno le piccole barche, e quando gli organizzatori dell’iniziativa saranno costretti a rinviare il viaggio di qualche passeggero a causa dell’affollamento nelle prenotazioni richieste da volontari provenienti da ogni parte del globo, e quando ognuno di noi svolgerà la sua parte nel realizzare l’idea contribuendo al finanziamento dei viaggi o coprendo le spese dei volontari; solo allora potremo sperare in un prossimo collasso dell’assedio israeliano di Gaza, un collasso che otterremo col nostro sangue, le nostre lacrime e la nostra fatica piuttosto che implorando vanamente compassione da parte dei politici e delle istituzioni internazionali.

La decisione di far continuare o di metter fine all’assedio di Gaza non è né israeliana né egiziana né internazionale; è una decisione nostra o soltanto nostra. Se dobbiamo accettare la realtà sul terreno, allora non ci sarebbe alcun valido motivo di pretendere né un po’ di compassione da parte dell’occupante israeliano né di commuovere il regime egiziano. D’altra parte, mettendo in gioco nuove realtà attraverso la resistenza nonviolenta, gli israeliani non avranno altra possibilità se non quella di accettare la fine della loro brutalità, cosicché il cammino verso la libertà della Palestina possa cominciare definitivamente, e agli egiziani verranno ancora una volta ricordate le parole del  loro leader Saad Zaghloul: “Diritto e nazione sono superiori a potere e governo”.


Originale: The Siege of Gaza: We Share the Blame

Articolo originale pubblicato il 24/11/2008

L’autore

Diego Traversa e Mary Rizzo sono membri di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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Tradotto da  Diego Traversa, revisionato da Mary Rizzo