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Migrazioni

di Eduardo Zarelli - 01/12/2008

 

Il fenomeno migratorio ha caratterizzato fortemente il dibattito politico e culturale degli ultimi due decenni, nel nostro Paese. Connaturato alle dinamiche della globalizzazione e delle conseguenti forme sociali assunte, in Italia manifesta toni specifici, ma con una eco occidentale, che vede sia le sinistre sia le destre riferirsi – con sensibilità differenti – al paradigma dell’integrazione. L’ideologia dell’unico, dell’uniforme, dell’unilaterale delle filosofie universaliste - laiche o religiose - tende irreversibilmente a convertire l’umanità a un modello omogeneo, a ridurre la diversità sradicando le identità collettive e personali, a sopprimere le culture popolari e gli stili di vita differenziati. Tale ideologia è la mercificazione planetaria quale coerente affermazione della logica capitalista: l’utilitarismo economico.
L’immigrazione – fenomenologicamente – è uno sradicamento forzato di persone, popoli e culture ed è iscritta nell’evoluzione storica dell’espansione capitalistica occidentale. La critica, quindi, risulta coerente solo se imputa il modello di sviluppo dominante come causa di un eradicamento, che ha come effetto gli immigrati, di cui è gratuito e ottuso – quindi intollerabile - farne dei capri espiatori. I valori dell’appartenenza e dell’identità sono universali, valgono quindi pluralisticamente di contro ad atteggiamenti xenofobi, i quali li evocano come pretesto per considerarsi superiori, mimetizzando il gretto opportunismo dei privilegiati, che vorrebbero i “benefici” della cosmopoli consumista senza pagare il prezzo sociale dello sradicamento procurato dal mercato globale. Il sentimento identitario ha legittimità nel momento in cui vale per tutti; se non riconosce l’identità altrui, ricade nell’ideologia dell’unico, dell’universalismo, in ultima analisi, del totalitarismo della modernità. L’omogeneizzazione occidentale minaccia l’identità di tutti e si espande sradicando socialmente l’appartenenza comunitaria, che consente una economia equa, la sostenibilità ecologica, la partecipazione democratica di contro alla deriva oligarchica e tecnocratica delle società liberal-democratiche.
Si accennava al totalitarismo della modernità; ebbene, il tema dell’immigrazione si iscrive a pieno titolo tra le tautologie deterministiche della globalizzazione: che l’economia possa consistere in uno sviluppo illimitato di risorse limitate è irrealistico per la fisica, più che per l’opinione di emarginati oppositori, così come è falsa l’affermazione inerente alla “naturalità” del mercato, geniale quanto pervicace artificio con cui David Ricardo e Adam Smith hanno legittimato la volontà di potenza industriale della borghesia. Analogamente, il modello dell’integrazione multietnica attiene più al repertorio dell’artificio ideologico liberista che al realismo culturale, sociale ed economico.
I progressisti si compiacciono di sottrarsi alla responsabilità sociale, disegnando un filantropico divenire di diritti individuali senza luogo e appartenenza culturale, ovviamente garantiti nella libertà di mercato, per quanto temperata dal funzionalismo dell’intervento pubblico. Le componenti più radicali di questo utopismo umanitario si sperticano addirittura nell’elogio di affluenti “moltitudini” che, seguendo il loro “bios” emancipatorio - grazie all’irresistibile attrazione nel consumismo - sono in procinto di sconfiggere, grazie alla globalizzazione, la necessità stessa del potere. Ora, il fatto che la società dei consumi si alimenti tramite una irrisolta voracità capitalistica che espande i propri profitti grazie all’espansione dei mercati e al deprezzamento del costo della mano d’opera, dovrebbe consigliare ben altre proposizioni ai tardi e pindarici epigoni del socialismo scientifico, ma la matrice individualistica si dimostra, in ultima analisi, il vero retaggio dei collettivismi e l’angusto orizzonte materialista della globalizzazione, anche per i suoi presunti contestatori. In nome della banalizzazione della pace, privata della inscindibile giustizia, viene alimentata in realtà – intra moenia - la guerra sociale di tutti contro tutti e - extra moenia – la “poliziesca” guerra internazionale contro chi non si piega agli interessi occidentali, propagandati come “ingerenza umanitaria”.
I conservatori non sono da meno, nel distorcere la realtà a profitto della globalizzazione. Qui l’integrazione diventa omologazione di fatto alla “supremazia” antropologica liberale occidentale. Salariati o criminali, sfruttati o esornati dai media in improbabili fiction, comunque gli immigrati sono degli abbacinati dal benessere economico disposti ad abiurare radici, usi e costumi a dimostrazione della bontà assiologia della civilizzazione consumista. In nome dell’ordine (poliziesco) e di una perbenistica sicurezza (privata), al netto dell’appartenenza culturale e religiosa - naturaliter “terroristica” - la massa dei nuovi “ultimi” può ingrossare la “fiumana del progresso” e la manovalanza del precariato universale nelle società “fluide” e smaterializzate tardo-industriali. Ecco allora che il “migliore dei mondi possibili” - casomai “delocalizzato”, nel quale è pur sempre conveniente produrre e profittare - moltiplica l’emarginazione nelle anonime metastasi metropolitane, in cui dei disperati raccattano squalificanti mansioni rifiutate dagli autoctoni oppure si dedicano alla sopraffazione delinquenziale. Esercizi commerciali a basso costo e improbabile orario, alimentano il puerile sogno esotico del patologico provincialismo nostrano - così come dei coscienti manipolatori intellettuali della cosmopoli nichilistica - che si imputridisce nella passerella carnascialesca e depravata dei viali di circonvallazione. Si porta avanti la finanziarizzazione dell’economia, intanto la società – quella, sì, reale - si disintegra in un individualismo acefalo, dalla solitudine disperante affogata nel cinismo e nella corruzione, insensibile al bene comune.
Alcune immagini di recenti eventi risultano più esplicative di argomentate dissertazioni. Frammenti danteschi, quelli provenienti dal Parco Stura di Torino. Lì, dei reietti si approssimano alla dissolvenza, iniettandosi terriccio spruzzato di eroina, morendo in grande numero, subendo la ritorsione per interposta persona da parte del racket, che rapidamente sostituisce i pusher indagati con una infornata di centro-africani, a loro volta inseguiti da assortite ronde di “pubblica sicurezza”, con una concitazione immortalata dalle fotocamere televisive del circo mediatico, a spettacolarizzare un guado dell’Acheronte, in cui quelle decine di accalcati fuori parallelo, con sguardi febbrili da braccati inscaltriti dall’espediente, mostrano un concitato drammatico contrappasso per l’intero Occidente. Frammenti reali, che neanche l’esacerbata creatività dell’allora cineasta Gualtiero Jacopetti - già autore, anni addietro, di emblematici film, come Africa addio o Mondo cane – sarebbe riuscita a immaginare nell’indagare il devastante rapporto tra tradizione e globalizzazione.
Non meno inquietante – con diversa intensità - risultano i “non luoghi” dell’integrazione nella nuova residenzialità realizzata da filantropiche amministrazioni locali. Sono l’altra faccia della stessa medaglia. Scendendo dagli ancora sorprendenti Appennini - dove la distrazione del profitto economico spesso mantiene involontariamente i territori in un saggio equilibrio tra cultura e natura - si incontra la “bassa”, che tra Reggio Emilia, Modena e poi Bologna (dove abitiamo) offriva un tempo atmosfere strapaesane e odori intensi. Oggi vi è una indistinta colata cementizia in una mancata soluzione di continuità di industrie, empori commerciali, residenzialità sconfinata senza centro, che ha assassinato la campagna. Sulla via Emilia, fino a qualche decennio fa arteria di mille capillari culturali di incommensurabile varietà a distanze di pochi chilometri, si percepisce, di fatto, per quanto in scala regionale, il destino ultimo della megalopoli che fobicamente supporta la civilizzazione mondiale. Ernst Jünger, con la forza evocativa dell’alta letteratura, parlò di “imbiancamento”, quasi a evocare un processo di aspersione a calce viva, che tutto uniforma, sterilizza, serializza. Ebbene, proprio qui, dove tra meccanica, metalmeccanica, monocolture agricole e mattonellifici c’è vera competitività economica sui mercati internazionali, le amministrazioni progressiste si sforzano di offrire diritti di cittadinanza non meno disgreganti l’identità culturale e il retaggio sociale. I rustici agricoli, i villaggi, i paesi, le città e le loro economie locali perdono statuto e diventano una omogenea distesa asfaltata in cui il frutteto inamidato con gli anticrittogamici si affianca al magazzino serializzato di import/export, mentre gli abitanti – declassati a residenti – si nascondono in anonimi condomini sormontanti portici desolati impreziositi da artistici graffiti e da ecumenici fast food che propalano junk food transgenico irrintracciabile, commestibile per ogni palato devitalizzato. L’architettura commerciale del funzionalismo razionale  - c’è più socialità in un piccolo mercato informale africano, che in tutti i supermercati dell’Occidente - segna il palcoscenico di un’umanità tecnomorfa, “replicante”, alienata nel proprio ruolo ingranato nel macchinismo della necessità, in un interclassismo edonistico mimetizzato dalla carta di credito, che riduce la cultura a merce e intrattenimento lubrico. Lo sforzo compromissorio di assicurare amministrativamente la redistribuzione dei lauti profitti in forma individualistica (liberalismo di massa) erode ancor più irrimediabilmente le fondamenta sociali della partecipazione e dell’appartenenza comunitaria. Ipercoop e ipermercati privati sono sovrapponibili, intercambiabili, unitari nel distruggere filiera e scala economica locale. Non vi è piazza - centro di vita associativa - ma desolazione da termitaio, in cui ognuno persegue il suo scopo immediato in assenza di relazione di prossimità e vicinato. La diffidenza reciproca scava trincee di sordo risentimento, alimentato dalla solitudine e dalla difficoltà economica (costo della vita) per colmare i servizi alla persona (ipossia fiscale), che hanno sostituito ed eliminato il dono di sé e la solidarietà organica, empatica. La patologia, finanche psicocriminale, alberga incombente sul pianerottolo di casa e in qualsiasi abbandonato giardinetto dell’isolato. È una desolazione palpabile in quei centri storici sfigurati - in balia dei gruppi bancari che ne espellono il piccolo commercio e l’artigianato, i fanciulli e gli assembramenti adolescenziali - nell’alternarsi sincopato della frenetica nevrosi lavorativa con il lugubre coprifuoco post pomeridiano del degrado. Furono metafisici i presagi artistici delle “città del silenzio” con mille piazze vocianti pregne di passioni e sfide esistenziali, oggi si sono trasformate in labirinti di solitudine satellitare e in rassegnate vie di fuga per palliativi week end.
In questa “terra desolata”, orfana della categoria del “bello”, come in un indefinito scalo aeroportuale o in una stazione ferroviaria, giovani maghrebini indossano jeans sformati, berretti e magliette con le scritte più amene. Sorseggiano bottiglie di birra - dallo scontato destino “a perdere” sull’incolpevole marciapiede – per sconfiggere le proprie inadeguatezze adolescenziali, ignorando qualsivoglia retaggio religioso. Analogamente ai loro coetanei italiani, che si tengono a distanza di portafoglio, più che di comportamento, nell’impercettibile differenza di logo. Ancora, impenetrabili cinesi, infaticabili negozianti pakistani, acculturate badanti slave, appartate domestiche filippine, erculei muratori albanesi, moldavi, ucraini, chi più, chi meno impegnato a sopravvivere con una improbabile koinè linguistica ed esistenziale, priva di dignità e stile, ridotta al pragmatismo di rimesse economiche, per alimentare l’inestinguibile nostalgia per una patria ingrata.
Sembrerebbe un pacifico luogo di convivenza libera e volontaria, un “arcobaleno” solidale di culture nel rispetto delle diverse tradizioni. In realtà è un vortice, in cui tutti i colori scompaiono nella dissolvenza, nella neutralità mercenaria dell’ingannevole luce della costrizione e del bisogno, che spinge alla coabitazione forzata e obbliga a ricostruire la propria vita ad altre longitudini, generando quei flussi migratori in cui speranza e sradicamento, aspettative di miglioramento e paura, fuga e nostalgia si confondono, finendo per immergersi nell’unico tempo concesso, senza profondità, della banalizzazione dell’eccezionale e dell’esaltazione del banale: prigionieri della necessità, a tutti imposta, dai meccanismi del sistema occidentale che imprigiona e che diffonde ovunque la sua legge e il suo pensiero, riducendo culture e tradizioni, le loro diversità, a brand commerciali, destinati a ridursi nella insulsa uniformità esposta in un ameno outlet sulla via Emilia.
Esiste un “punto d’appoggio”, per sollevare il sistema-mondo capitalista? Per evitare ogni velleitarismo, limitiamoci alle “leve” del pensiero, idee-forza che si pongano realisticamente in attrito con utopie e non luoghi della globalizzazione; il resto sarà iscritto nelle contraddizioni insite nel processo in atto. Questo impegno anticonformista, come ogni destino contrapposto allo spirito dei tempi, passa per l’esortazione, a tutti i popoli, alle culture e alle intelligenze critiche, a lottare contro il loro nemico comune: l’ideologia totalitaria dell’uniforme, dell’unico.
Lo spazio politico della differenza si esplica nella sintesi tra il grande spazio continentale e l’autonomia di un federalismo integrale: la complementarietà e la sussidiarietà sono le ascisse e le ordinate di una sovranità legittimata dalla partecipazione popolare, nella concretezza di comunità autosufficienti e contemporaneamente simbiotiche con le altre. L’omeostasi della singola cellula supporta la vitalità dell’intero organismo. Olisticamente, la totalità è superiore alla somma delle sue singole parti. La dimensione simbolica e spirituale del fattore unitario supera contemporaneamente centralismo statuale e indipendentismo separatista. Per cerchi concentrici, si rivitalizza la reciprocità comunitaria, improntata a intimità, a riconoscenza, e a condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, memoria ed esperienze comuni. I vincoli di parentela (famiglia), di luogo (vicinato) e di spirito (amicizia) costituiscono delle totalità relazionali, in cui gli uomini si sentono uniti in modo permanente da fattori che li rendono simili gli uni agli altri e al cui interno le disuguaglianze sociali possono svilupparsi solo entro certi limiti, oltre i quali i rapporti diventano così rari e insignificanti da far scomparire gli elementi di comunanza e condivisione. All’interno della comunità, infatti, i rapporti non sono segmentati in termini di ruoli specializzati, ma comportano che i membri siano presenti con la totalità del loro essere e del loro animo per il perseguimento del bene comune, in un giusto e consapevole rapporto tra libertà individuale e dovere pubblico.
La realtà comunitaria sul territorio, ponendo per sua sussistenza in diretta relazione il consumo umano delle risorse naturali con la capacità di rigenerarle, è naturalmente protesa alla virtuosità ecologica e alla biodiversità, nella ricomposizione dello iato industriale tra cultura e natura. La consapevolezza e la sobrietà di stili di vita ispirati alla semplicità e al senso del limite si pongono in controtendenza al disincanto della mentalità economicista dominante, secondo la quale è meglio avere di più, che cercare di essere di più. È quindi, questo contesto, il più adatto per convertire economicamente il modello di sviluppo illimitato che caratterizza l’utilitarismo contemporaneo e crea le sperequazioni mondiali. In ambito internazionale, pertanto, il respiro pluralistico deve essere accompagnato a una strategia multilaterale contrapposta all’unilateralismo, così come di ogni espansionismo. In tale prospettiva, il fenomeno migratorio è affrontato su scala intercontinentale nelle sue cause profonde e, contemporaneamente, ricomposto a livello locale con una sensibilità identitaria, personalistica e comunitaria, in grado di garantire ad ogni cultura il valore sostanziale dell’irripetibilità.