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Una pagina al giorno: mistero della vita e della morte*, di Giuseppe Tucci

di Francesco Lamendola - 04/12/2008

 

«La marcia a Bharang Bharung è disastrosa. Ogni giorno di più ci stiamo accorgendo che viaggiare nel Nepal non è una cosa facile: i mezzi meccanici qui nell'interno dio solo sa quando ci verranno; per adesso le automobili non escono da Kathmandu o poco raggio intorno e fanno miracoli d'equilibrio, saltando sul selciato delle viuzze strette e tortuose; vi arrivano in aereo o a spalla d'uomo dopo parecchi giorni di cammino ed in poco tempo, per l'imperizia di chi le guida e a causa delle strade ciottolose, ansimano ed inciampano  e si rifiutano di muoversi come vecchia arnesi fuori uso. Ma pure il cavallo è raro, così raro che finora non ne abbiamo visto neppure uno.
Certo, viaggiare non è facile neppure in altre regioni dell'Asia; nel Tibet, per fare un esempio, l'altezza dei luoghi, gli sbalzi di temperatura fra il giorno e la notte, i passi, che quasi ogni giorno sbarrano il cammino, richiedono uno sforzo fisico non comune. Ma nel Nepal le strade non ci sono; i ponti sono pochi e questi pochi bisogna far testamento prima di metterci il piede. È un continuo salire e scendere: dal fuoco della valle alla cima, dalla cima alla valle per due o tre volte al giorno.
La stagione delle piogge che qui giunge in ritardo è al colmo: l'acqua in questi giorno casca dal cielo, rigurgita dalla terra, trasuda dagli alberi, scaturisce dalle rocce, inghiotte i sentieri. Ora guazziamo nelle risaie così fastidiose che ancora mi resta nel naso quell'odore di acqua putrida e nelle orecchie lo spiaccichìo dei piedi sulle lubriche distese melmose.  Si ha l'impressione di camminare in un lago, non più sulla terra: persuadono a questa illusione i pescatori che spuntano in mezzo ai campi nudi e si staccano per il colore scuro delle membra lustre sul verde delle risaie; si proteggono dal sole con un largo cappello di paglia grande come un ombrello e rialzato nel centro come quelli usati dai contadini cinesi; fissano immobili l'amo senza neppure volgersi al nostro passare.
In siffatte condizioni marce non si possono fare; comunque si può facilmente mantenere una media di venticinque o trenta chilometri al giorno computati con quella misura approssimativa che chiamano cosh. Teoricamente un cosh dovrebbe corrispondere a due miglia, ma di fatto direi che non può essere inferiore a cinque chilometri, forse più che meno. È tuttavia calcolo approssimativo, perché hanno così scarso il senso della distanza e del tempo che sarebbe errore fare affidamento sulle informazioni locali. L'esperienza mi consiglia, per non avere delusioni, di non domandare mai quanto c'è da camminare.  Le risposte sono le più inattese: non vi diranno mai due o tre miglia,  ma "cinque sigarette", cioè quanto tempo ce ne vuole per fumare cinque sigarette; altrove, dove si fuma meno, come nell'Assam, ma si mastica la canna da zucchero, saranno uno, tre o tre canne da zucchero biascicate fra tappa e tappa. Ma è un po' dappertutto così, anche in India. Percorrendo in automobile una strada mangiata dalla pioggia fra Ajmer e Chitor e impensierito dal prossimo salire delle notte domandai ad alcuni villici quanto ci fosse ancora per il prossimo paese. Mi risposero che il biglietto in ferrovia costava undici anna (cento lire).
Costeggiando la Gauri la guadiamo, anneghiamo ancora nelle risaie: risaie dappertutto, dietro a noi, davanti a noi, sopra a noi. Il grande coltivatore in questi luoghi è la pioggia; rabberciati alla meno peggio gli argini dei campi che salgono  a terrazze fin sulle cime dei monti e fatta la semina, tutto è nelle mani di Dio. L'uomo lascia fare quanto più è possibile alla natura, non l'aiuta e non se ne difende: vive come una qualunque altra creatura, pianta od animale che la Vita con capriccioso arbitrio getti nel fiume del tempo, accetta questa sua condizione mortale, si piega senza ribellarsi cal destino che il proprio carma ha foggiato in quella particolare maniera, dando una precisa forma ala sua spinta; la vita individuale non è un dono di Dio, è caso, un accadimento nel divenire dell'universo che mosso da necessario inevitabile impulso s'affatica e muta all'infinito. Nessun argomento potrà mai giustificare la tremenda contraddizione della morte, la caducità della persona caduta nel tempo, la vana illimitatezza della mente inutilmente sovrana del passato e del futuro, del prossimo e del remoto, rinchiuda nella labilità del corpo che già nascendo porta in sé i segni del disfacimento e della morte. Non esce da questa tremenda contraddizione chi non trascenda, come fanno i maestri dell'Oriente, la persona umana e rinunci alla disperata speranza della personale sopravvivenza e consideri la vita individuale come onda breve suscitata dal gioco del vento sulla superficie del mare.
Appena l'attaccamento all'io ci lascia, la vita non è più l'effimera spanna di tempo che corre, per me soltanto, fra la culla e la bara, ma la vita cosmica di tutte le creature e le cose e i mondi che furono e saranno e mai si arresta; perde allora il suo terrore la morte ed appare nel suo vero significato, come necessario momento di una dialettica, traverso la quale si svolge e si attua l'indefinita mutazione delle cose.
Non ci sarà più morte quando alla nostra morte avremo sostituito con coraggioso sacrificio della pietosa illusione  la vita dell'universo, questo tremendo gioco che per durare crea e distrugge. Racconta Chuang tze
"Un giorno Tze-u cadde malato. Tze-se andò a fargli visita ed egli così lo accolse: "Veramente grande è l'energia creatrice la quale mi ha piegato in questa maniera. Il mio dorso è insieme curvo e prominente, i miei visceri sono in posizione inversa, il mento è nascosto dall'ombilico, le spalle sono più alte del cranio, le vertebre si levano verso il cielo, lo yin e lo yang sono confusi in me, ma il mio spirito non se ne occupa." Si mosse faticosamente, si trascinò ad un pozzo per guardare la propria immagine riflessa nello specchio (dell'acqua), ed esclamò: "Ahimé, come l'energia creatrice mi ha contorto!". "Te me dispiaci?", gli domandò Tze-se. "Perché dovrei dispiacermene? Se essa vorrà che in una prossima metamorfosi la mia spalla sinistra diventi un gallo, io, secondo questo mio nuovo stato,  all'alba saluterò (lo spuntar del) sole; se della mia spalla destra farà una saetta abbatterò la cacciagione; se le mie natiche vorrà diventino  un carro e i miei spiriti vitali dei cavalli, io trascinerò un cocchio a corsa veloce. Ciascun essere riceve la sua vita a suo tempo e la perde in obbedienza a una legge fatale. Chi resta nel tempo che gli è assegnato è immune da sentimenti  di gioia e di tristezza. La successione della vita e della morte gli antichi la chiamavano legare e sciogliere. Ed è legge comune a tutti gli esseri che una volta legati non possano sciogliersi da sé, perché c'è chi li lega.  Perché dunque io dovrei dispiacermi della mia sorte?".
Saliti sullo spartiacque a Samri,  siamo salutati poer la prima volta da un alito di vento gagliardo  e musicale: ma è breve ristoro, il sentiero cade al fondo fino al ponte sospeso a Bharang Bharung; il giorno già langue nel cielo malato. Guttuso soffre ancora con la gamba; ma resiste con mirabile rassegnazione.
Varchiamo il fiume  sul pone sospeso e subito ricominciamo a salire  sotto un cielo triste. Le nubi si stringono  grigie e taciturne, il monsone ci insegue, l'aria gronda; le sanguisughe spuntano da ognii parte,  si inarcano veloci e puntano avide e sicure sulla preda: te le trovi dappertutto. I miei compagni sono infastiditi e schifano le bestioline immonde: insegno loro come si fa a liberarsene.. , basta un po' di sale sulla ventosa e immediatamente si staccano.  Però la terra ne brulica, entrano dappertutto, anche nella tenda. Quando mi sveglio mi trovo il petto imbrattato di sangue; una, più delle altre accorta, si era satollata al caldo.  Il male di Guttuso non accenna a scomparire: se seguita dovremo fermarci; egli soffre soprattutto nella discesa e deve camminare  balzelloni poggiando sulla gamba sana.
Mentre caliamo verso l'Ankhu (Campavati) incontriamo per la strada uno stregone: si ferma, chiede che cosa abbia il nostro compagno e offre il soccorso della propria arte. Io ho grande fiducia nella scienza, ma sono anche persuaso che molte più forze giocano nel nostro organismo  che quella non sospetti. È difficile indurre un medico a farsi curare da uno stregone: comunque, siccome le nostre , siccome le nostre medicine sembrava avessero fallito, non c'era nulla di male nel tentare l'esperimento, tanto più che migliore occasione non poteva darsi per osservare  come operino cotesti guaritori. Il sistema di cura è quello dei mantra, la recitazione di formule che evocano la presenza di un dio e con il di lui intervento allontanano la perniciosa insidia di qualche demonio; la cura insomma è trasportata in un piano psicologico: al posto della malattia e delle medicine sono due forze antagoniste: demoni e dei in lotta fra di loro. Anche in India il vaiolo è curato da Sitala, da Mariamma il colera: si tratta di individuare il demone  e di trovare le formule che contro di lui abbiano potere; il segreto poi sta tutto nel modo di pronunciarle di maniera che i suoni e suscitino e infervorino e stimolino le forze sanatrici. Ad intervalli regolari lo stregone sospende la recitazione e soffia per tre volte sulla gamba di Guttuso, poi cava di tasca uno di quei ferri a mezzaluna che si inchiodano alle scarpe e con grande apprensione del paziente che teme chi sa quale improvvisato intervento chirurgico, raschia delicatamente la pelle della parte malata e poi con un altro soffio  ed altra formula getta via il ferro sulla strada. E male incoglierebbe all'incauto che lo raccattasse. Sostiamo  presso il ponte sulla Camparati  a Chisapani. Al mattino troviamo Guttuso  perfettamente guarito. Piove: una pioggia accidiosa,  petulante, implacabile. Tutte le cose sembrano trasformarsi in acqua; le foreste che attraversiamo si fanno più cupe, grigie, maleodoranti: è tutto uno sgocciolare, uno stillare, uno straripare. I portatori divengono anche più taciturni e scontrosi:  alcuni hanno rovistato nelle casse del cuoco e si riparano dall'acqua coprendosi la testa  con le nostre casseruole adoperate a modo di cappello: si fermano in ogni villaggio e in ogni luogo di ristoro. Lungo i sentieri  si contano ora di frequente quelle che potremmo chiamare osterie: sono capanne con larga veranda sul davanti per dare asilo  ai viandanti; tè e late sono tenuto sempre in caldo, per terra sono in mostra sigarette e banane, qualche volta i limoni; il raksi non manca mai.  È un modo semplice di campare la vita, senza molto lavoro.  In uno di codesti luoghi di ristoro sul valico un uomo febbricitante, avvolto in una coperta, giaceva al sole sbattendo i denti vicino alla propria mere, qualche scatola di fiammiferi .qualche scatola di sigarette, un mucchietto di noce moscata, alcune stecche di cannella, abbandonato, senza resistenza, al destino che può essere il compratore o la morte.
Arriviamo ad Arughat nel tardo pomeriggio. È difficile trovare un luogo dove accampare: tutto è pieno d'acqua, le tende sno fradice. Dappertutto gozzuti:  gozzi di tutte le forme e di tutte le dimensioni., penduli, doppi; i malati affluiscono con la consueta frequenza ed insistenza. Guttuso osserva, appunta, cura.. Neppure un ambulatorio, l'uomo è solo in questa natura capricciosa e contraddittoria che nell'umidore moltiplica ed esaspera i propri impulsi  e fervori, prorompe in una creazione disordinata  che dispensa indifferente la vita e la morte.  Eppure molti di cotesti uomini semplici e rassegnati, che come segno della propria natura guerriera ed aggressiva portano infilato  alla cintura l'immancabile kukkri, una specie di roncola affilatissima con la quale si può temperare la matita e recidere d'un colpo netto la testa ad un bufalo, sono stati in India e in Europa: non pochi anche in Italia e ci rivolgono la parola in italiano. Uno di loro ci venne a trovare  a Pokhara quasi tutto nudo ma dignitosamente infagottato in un cappottone verde e con facilità parlava la nostra lingua.  Non nascondo che questi incontri mi hanno addolorato: ero triste per loro, che hanno aperto gli occhi su un mondo così diverso dal proprio, per poco tempo è vero, ma tanto quanto basta per fare un confronto  e spegnere in essi la gioia dell'ignoranza. Ora sono ricaduti in queste selve: mentre vanno animando sotto il peso ed il caldo, per le salite, penseranno alle vicende della guerra, alle cose meravigliose vedute, a qualche facile amore  offertosi nell'esaltazione della pace. Un sogno che non torna più.  Ma ero triste anche per me, umiliato per appartenere ad un mondo che non ha saputo insegnare a questi uomini altro che il mestiere della guerra e li ha portati in altre terre per farsi ammazzare ed ammazzare, e non ha sentito l'ignominia di questa tratta di schiavi, soprattutto non ha inteso la vergogna dei suoi ben architettati mendaci che disegnano facciate sgargianti di belle parole  per nascondervi dietro la protervia della politica e gli interessi e gli interessi del proprio dominio. Così illudendo, ha strappato alla ingenua vita anime semplici, le ha gettate ignare nel turbine di odi che esse non sentivano e, dopo il rapido trascorrere delle vivende, le ha di nuovo abbandonate  fra la malaria ed il kalazar delle valli sub imalayane.  Questo è tutto quanto l'Occidente ha saputo insegnare  a un popolo che aveva così discusso sulla guerra:
"Quando molte persone si raccolgono con la intenzione di uccidere, sia per la guerra, sia per la caccia o il brigantaggio,  se una di esse uccide, le altre sono colpevoli di assassinio?  Sì, tutti sono colpevoli come quello che uccide, perché tutti perseguono un fine comune: tutti si incitano  all'assassinio se non con la voce, per lo meno per il fatto che sono riuniti con l'intenzione di uccidere. Ma chi è stato costretto per forza ad arruolarsi  è anche lui colpevole? Certo,  a meno che abbia fatto il voto: 'anche allo scopo di salvare la mia vita, io non ucciderò mai un essere vivente'." (Vasubandhu nell'Abhidharmakosa). 

Da questo brano del libro  Giuseppe Tucci «Tra giungle e pagode», uscito in prima edizione per la Libreria dello Stato di Roma, nel 1953, emergono le caratteristiche che ne fanno un vero e proprio classico del genere: da sotto l'andamento oggettivo e quasi documentaristico del diario di viaggio, traspaiono la profonda umanità dell'Autore, la sua vasta cultura e la sua sottile intelligenza.
È vero, egli non giudica persone e situazioni; troppo a lungo ha vissuto in Oriente e troppo si è abbeverato alle fonti della sapienza asiatica, per non avere imparato a dominare l'istintiva tendenza occidentale a voler giudicare, sentenziare, pontificare, criticando popoli e culture "diversi", ora per l'apparente indolenza, ora per la sporcizia o il livello di vita "primitivo", ora per quelli che - a torto - appaiono come rassegnazione o, addirittura, come fatalismo.
Certo, è un diario di viaggio: il diario di un viaggio di studio tra giungle e pagode, nelle foreste e attraverso le valli ai piedi dell'Himalaya, sulle orme di una civiltà antichissima, millenaria, rispetto alla quale - così come davanti alle gigantesche montagne che s'innalzano sullo sfondo - l'uomo europeo non può non sentirsi piccolo e, sotto molti punti di vista, inadeguato.
Ci sono, pertanto, le indicazioni delle tappe percorse, del tempo impiegato, delle località attraversate; ci sono i problemi di acclimatazione nel caldo-umido delle bassure e nel freddo improvviso delle notti pre-himalaiane; ci sono gli incidenti, grandi e piccoli, lungo il percorso: l'amico che stenta a trascinarsi avanti a causa di una gamba sofferente, la piccola folla degli indigeni che viene a chiedere medicine o a farsi visitare, perfino la pioggia di sanguisughe che si lasciano cadere dagli alberi, si attaccano dappertutto, s'infilano sotto la tenda, dentro i sacchi a pelo, in mezzo ai vestiti.
Ma è un diario di viaggio di uno studioso che, se ha imparato a rispettare profondamente la mentalità dei "primitivi", è imbevuto di cultura filosofica orientale e che cita con disinvoltura un brano di Chuang-tze in principio, e un altro di Vasubandhu alla fine.
Quello che colpisce particolarmente Tucci è la dignità di quei semplici uomini di montagna, che conducono una vita così disagiata e difficile, così isolata dal resto del mondo, senza mai lamentarsi o imprecare alla sorte, ma sempre consapevoli di essere una fibra della forza cosmica che tutto muove e tutto pervade; e che, pertanto, invece di ribellarsi vanamente al proprio karma, aspirano stoicamente alla gran pace della riunificazione con la vita cosmica, liberandosi - una volta per sempre - da «quella spanna di tempo che separa la culla dalla bara».
E proprio perché li rispetta e li ammira, Tucci soffre di vedere che anche lì, fra quelle valli inaccessibili, è arrivata la malizia dell'uomo bianco, è arrivata la perfidia dell'imperialismo britannico, che ha trasformato dei nobili montanari in mercenari - i famosi gurkha - da scagliare sui fronti di guerra più lontani, per uccidere ed essere uccisi; il tutto dietro lo schermo risibile di parole menzognere, con le quali l'uomo che si crede civile inganna e manipola gli uomini che egli crede infantili e sempliciotti.
Tucci scriveva pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale; ma che avrebbe detto se avesse saputo che ancora nel 1982, in occasione della guerra delle Falkland/Malvine, il governo della signora Thatcher ha impiegato questi magnifici soldati, gettandoli allo sbaraglio sulle soglie del continente antartico, e facendone degli assassini prezzolati, in un vortice di odio che non li riguardava affatto?
Ma la riflessione di Tucci non è politica in senso stretto; la Gran Bretagna, del resto, non è neppure nominata.
Piuttosto, egli prova vergogna di se stesso, in quanto occidentale, per essere il figlio di una civiltà che, a quei popoli nobilissimi, ha saputo portare solo l'insegnamento delle armi e della cieca violenza della guerra; per poi rimandarli a casa, quanto non ne ha più avuto bisogno, proprio come si fa con la carne da cannone a un tanto il chilo.
Perché mostrare a quei fieri nepalesi le meraviglie materiali dell'Occidente, per poi risospingerli nelle loro foreste fradice di pioggia e nelle loro valli sperdute in capo al mondo, lasciandoli vivere di ricordi brucianti e amareggiandoli con un confronto insensato fra il benessere che hanno intravisto e la miseria in cui sono ripiombato; e che forse ora, per la prima volta, essi riconoscono come tale, proprio a causa dei quello sciagurato confronto?
Non è - si badi - una riproposizione, sotto mutate spoglie, del vecchio mito illuministico - o piuttosto preromantico - del «buon selvaggio».
Tucci non idealizza i "suoi" primitivi, pur sapendoli figli - e sia pure alla lontana - di una veneranda civiltà; e non si addossa, come europeo, più colpe di quante non sia giusto riconoscerne. Egli non è l'europeo che fugge dal disagio del «benessere» alla ricerca di una felice regressione verso impossibili Paradisi perduti; è, semplicemente, l'intellettuale onesto, che guarda senza pregiudizi e senza complessi una realtà profondamente diversa dalla propria, la rispetta e si sforza di comprenderla.

Giuseppe Tucci, nato a Macerata nel 1894 e morto a Roma nel 1984, è stato professore di religioni e filosofia dell'India e dell'Estremo Oriente all'Università di Roma.
Dopo esseri interessato, da giovane, di filologia classica - ottenendo importanti riconoscimenti -, si è volto poi allo studio delle lingue e delle civiltà asiatiche, divenendo un notevole esperto soprattutto della filosofia buddhista.
Insegnante nelle università dell'India fin dal 1925 (partendo da quella di Santiniketan, fondata dal poeta Rabindranath Tagore) e Accademico d'Italia dal 1929, nel 1933 ha fondato, insieme al filosofo Giovanni Gentile, l'Istituto Italiano per il Medio e l'Estremo Oriente (IS. M. E. O.).  Nel 1938, sempre con Gentile, ha firmato il Manifesto della Razza.
Nel 1995 l'IS.M.E.O. si è fuso con l'Istituto Italo-Africamo, dando vita all'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IS.L.A.O.).
Giuseppe Tucci a partire dal 1955 ha organizzato importanti campagne di scavi archeologici e  di restauri monumentali in Pakistan, Afghanistan e Iran.
Per riconoscimento unanime, si può dire che egli è stato uno dei più grandi orientalisti a livello mondiale, conducendo personalmente più di dieci avventurose spedizioni in India, Tibet e Nepal e scoprendo importanti documenti, che hanno aperto nuove prospettive agli studi asiatici.
Tra i molti riconoscimenti, ha ottenuto nel 1978 il Premio Jahwarlal Nehru, di cui era particolarmente orgoglioso.
Impossibile fare un elenco delle sue pubblicazioni, che sono circa 360.
Tra le sue opere principali a livello divulagtivo, oltre a una «Storia della filosofia indiana» in due volumi (Laterza),  ricordiamo: «Tibet ignoto», «La via dello Swat», «A Lhasa e oltre», «Nepal: alla scoperta del regno dei Malla» (tutti pubblicati dalla Newton Compton).

*Dal quinto capitolo del libro di Giuseppe Tucci «Tra giungle e pagode» (Roma, Newton Compton, 1996, pp. 55-61), intitolato «Da Kathmandu a Gorkha»