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La “guerra tra le procure”. Per andare oltre i luoghi comuni…

di Carlo Gambescia - 05/12/2008


Nei riguardi della “guerra tra procure” ( http://www.repubblica.it/2008/12/sezioni/cronaca/de-magistris/mancino-csm/mancino-csm.html ) si possono assumere due posizioni.
La prima è quella di schierarsi con una delle due fazioni e “fare il “tifo” cercando di giustificare e nobilitare l’una o l’altra. Questo tipo di approccio non ci interessa. Troppo superficiale, settario e legato ai luoghi comuni della politica italiana.
La seconda posizione è quella di andare oltre le polemiche, cercando di capire “il funzionamento” dal punto di vista sociologico, della divisione dei poteri, e in particolare della magistratura. Invitando il lettore a riflettere su questioni più profonde che i cosiddetti giochi di potere del teatrino politico-giudiziario-mediatico.
Ovviamente un approccio del genere non può fornire risposte immediate. Ma aiuta a capire le ragioni profonde di una crisi che va ben al di là delle questioni contingenti. Ma veniamo al punto.
La divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) è presentata dagli storici moderni, soprattutto di ispirazione liberale come una conquista.Il fatto, che la giustizia sia indipendente, dagli altri due poteri - si declama - consente che nei tribunali regni l’assoluta neutralità dei giudici, per così favorire l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, come impongono i moderni diritti dell’uomo. Tuttavia basta entrare in un’ aula giudiziari, o sfogliare le cronache giudiziarie, per capire che la giustizia spesso non viene amministrata in modo indipendente. All’enunciazione dei grandi principi, che risale ad alcuni secoli fa, ancora non ha fatto seguito alcun progresso decisivo. Perché?In primo luogo, bisogna sempre distinguere tra gli aspetti normativi e descrittivi di un fenomeno. Asserire che la giustizia debba essere amministrata in modo neutrale rispetto ai diversi poteri sociali ha un valore programmatico, nel senso che indica la realtà come “dovrebbe essere” Osservare, invece che almeno due secoli di fatti storici confermano il contrario ha un valore descrittivo, nel senso che indica la realtà "così com’è".
Che cosa intendiamo dire? Che, ad esempio, per coloro che sono in basso nella scala sociale o in cattiva sintonia ideologica con la società politicamente e “giudizialmente” dominante, è spesso difficile se non impossibile ottenere giustizia.In secondo luogo, la giustizia non può essere amministrata in modo assolutamente indipendente, perché è di fatto gestita da un preciso gruppo sociale: i giudici. Che come ogni gruppo sociale tende a egemonizzare altri gruppi sociali. Oppure soprattutto, dove non riesce ad avere la meglio, a stabilire alleanze, temporanee o durature. Inoltre - e questo è un fatto importantissimo - come ogni gruppo sociale, anche quello dei giudici, ha necessità di risorse ideologiche, simboliche e materiali. Risorse che nel moderno sistema di economia pubblica e privata, basate comunque sul mercato, provengono dallo Stato ma anche da gruppi economici privati. Senza dimenticare che l’ideologia della “neutralità dei poteri”, prima che giuridica è politica, dal momento che si è storicamente affermata attraverso rivoluzioni politiche, che hanno rafforzato il “potere” (sempre relativo, certo) dello Stato. Il quale, a sua volta, non è qualcosa di neutrale, ma si compone di gruppi sociali in conflitto per l’egemonia politica, e spesso dipendenti dai gruppi economici. Pertanto il quadro dei tre poteri idealizzato, in termini normativi, dal pensiero giuridico e politico moderno, in realtà ignora una lotta - sociologicamente normale - tra gruppi sociali differenti per ideologia e interessi, che va perciò ben oltre la divisione formale dei poteri.
Una lotta, spesso all'ultimo sangue, segnata da battaglie, imboscate, armistizi, alleanze, più o meno sincere, eccetera. E dove l’ideologia della neutralità della giustizia diventa un puro strumento di lotta. Una “derivazione” per dirla con Pareto: un’arma da usare contro gli avversari e per nobilitare se stessi e gli alleati del momento.In terzo luogo, la cosiddetta neutralità della giustizia può perciò essere esclusivo esito di equilibri sociali, parziali e sempre precari, sulla base ad esempio di alleanze ideologiche e/o di interessi materiali tra gruppi temporaneamente affini: gruppi che tuttavia finiscono sempre per reinterpretare ideologicamente l’idea normativa di giustizia, in proprio favore.
Ripetiamo perciò che la neutralità viene sempre perseguita in misura parziale, perché riflette l’egemonia di un’alleanza ideologica, anche occasionale, che premia alcuni e penalizza altri.Inoltre, e in quarto luogo, la “macchina” della giustizia, risente dei cosiddetti problemi legati alla burocratizzazione: fenomeno tipico delle istituzioni moderne. Di qui i problemi legati al reclutamento, alla formazione e alla gestione della giustizia. Problemi sui quali influisce inevitabilmente la cosiddetta “routinizzazione” delle funzioni: un fenomeno che colpisce tutte le grandi organizzazioni moderne. E che si ripercuote, con intensità diversa a seconda delle differenze di tradizioni nazionali e amministrative, sulla “piccola giustizia” di tutti i giorni, quella che non riguarda i processi famosi o importanti. In conclusione, e per passare dalla teoria alla pratica, lo “scontro tra procure” è l’ennesimo episodio di una lotta tra due sub-gruppi, interni al gruppo sociale-magistrati. Alimentata - pro o contro - a livello mediatico, da altri gruppi, probabilmente politici ed economici, legati all’informazione e vincolati ideologicamente a fazioni contrapposte. E tutti difendono la neutralità della giustizia, ovviamente sempre dal proprio punto di vista. E così cittadino "neutrale", che magari vuole farsi un'idea, finisce per non capirci nulla. Perché le "regole del gioco" vengono interpretate, a seconda della convenienza, se non della contingenza.
Purtroppo, ripetiamo, bisogna accettare un fatto sociologico: all’interno delle società liberali e di mercato, basate sul pluralismo dei gruppi sociali ed economici, la cosiddetta ideologia dell’indipendenza della magistratura, è una pura e semplice risorsa (scarsa come le altre) nella lotta per l’egemonia sociale e politica tra i vari gruppi, incluso quello dei magistrati. E tutto sommato, il nostro “sistema” è “relativamente” migliore di quello in uso nelle società totalitarie, prive di pluralismo, dove la giustizia è assoggettata a un unico gruppo politico, e i magistrati reclutati esclusivamente sulla base della fedeltà ideologica al "partito unico", in nome del quale devono esercitare la giustizia, invocando le feroci ragioni della razza o del proletariato.
Perciò, concludendo, alla “procura unica” degli stati totalitari è sempre preferibile la “guerra tra procure”…