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La guerra nel Comitato d’affari

di a cura di Giovanni Petrosillo - 08/12/2008

La guerra nel Comitato d’affari: ovvero, come gli ex comunisti hanno costruito la loro rete di potere per imprigionare l’Italia

Questa è la storia vera di un nugolo di arrivisti ed arrampicatori social-politici con una intelligenza mediocre (molto al di sotto della media degli uomini politici del tempo), i quali, per circostanze storiche fortuite e del tutto eccezionali, si sono ritrovati, grazie ad un colpo di stato giudiziario-parlamentare, alla testa della classe dirigente italiana. In un momento  di grandi cambiamenti epocali, con i muri che crollavano e i vecchi equilibri che si sgretolavano, le seconde file del Partito Comunista italiano riuscirono (e non per merito loro) a farsi avanti e a riciclarsi nella nuova situazione, spalleggiati dagli “umori” internazionali e dalla necessità di ricalibrare i rapporti di forza mondiali dopo la dissoluzione del regime sovietico. Le connivenze plurime, e non ancora del tutto svelate, tra questa nefasta classe politica post-picìista - inizialmente tenuta in disparte, o mantenuta in occupazioni minori dai “Grand Commis” del partito di Berlinguer (se non erro, quest’ultimo si “liberò” tanto di Occhetto che di D’Alema, “esiliando” il primo in Sicilia e mandando il secondo “a farsi le ossa” in Puglia) - la magistratura politicizzata (ma non nel senso che intende Berlusconi, il quale parla molto impropriamente di toghe rosse) e i poteri forti d’oltreatlantico, hanno permesso di cancellare, con un secco colpo di spugna, il precedente assetto istituzionale e partitico, al fine di dar vita ad un nuovo sistema politico più confacente alla strategia americana dopo la vittoria sull’Urss.

E questi ex-peones con l’istinto della rivalsa ad ogni costo, disposti a pagare qualsiasi prezzo (o meglio, a farlo pagare al paese) hanno saputo interpretare “all’americana” il loro ruolo. Essi, senza farsi scrupolo alcuno e sfruttando la falsa moralità con la quale il loro ex segretario aveva tentato di ridare una spruzzatina di presentabilità al partito (che, già all’epoca, aveva trovato la sua dimensione nella stagione del consociativismo e nella raccolta “indifferenziata” di micro-potere a livello regionalistico e locale, essendo quello nazionale ufficialmente semi-sbarrato a causa della conventio ad excludendum contro il comunismo) hanno dato l’assalto al cielo. Nel 1981, il segretario comunista Enrico Berlinguer aveva affermato che i partiti si erano ridotti a “macchine di potere e di clientela”, organizzate, per la loro funesta riproduzione a danno del Paese, in “ federazioni di correnti, camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sottoboss’ ” per perpetuare ogni tipo di malversazione a danno dello Stato, delle istituzioni e del popolo italiano. Detto in altri termini, i partiti erano carcinomi metastatizzati che corrodevano l’unità e il corpo della nazione, il quale, per essere salvato dalla voracità del male, necessitava dell’attivazione di una terapia “chemioterapica” a base di morale.

Con queste parole E. Berlinguer inaugurava la primavera della “diversità” comunista, tentando di impiantare degli steccati di moralità tra sé e il resto della partitocrazia italiana. Ma questa diga morale (in verità una forma accentuata di moralismo gesuitico tutt’altro che sincero) era piena di falle e non corrispondente ai reali interessi che il suo partito curava a tutti i livelli istituzionali. Come conciliare questo slancio etico con la logica spartitoria del potere alla quale il PCI non si era mai sottratto? E, soprattutto, che dire di quel “sistema nel sistema” di istituzioni regionali e locali, sindacati, cooperative, giudici e funzionari, che, contrariamente a quanto dice Baget Bozzo, non costituiva affatto un’unità di scontro contro il sistema occidentale del nostro Paese, bensì un mero tentativo di garantirsi la sopravvivenza e la riproduzione negli interstizi della società italiana, dove il potere DC non aveva ancora saturato tutto lo spazio a disposizione, servendosi della stessa logica di abuso di quest’ultima? Con la fine dell’epoca dello scontro ideologico puro anche le ultime remore morali dovevano cadere. Il risultato è, da un quindicennio abbondante, sotto i nostri occhi. Per questo oggi vi propongo una serie di articoli, alcuni sono mera cronaca dei fatti, altri commentano la natura dello scontro, di questi ultimi giorni, tra le due principali correnti del Pd, quella veltroniana e quella dalemiana. In particolare, vi segnalo il pezzo di Caldarola (uomo interno, fino a  qualche tempo fa, a tali dispute e, pertanto, gran conoscitore delle guerre fratricide tra affini democratici) e quello di Baget Bozzo, molto espliciti sulle ragioni che sono alla base della guerra banditesca scatenatasi tra i due caporioni ex comunisti. Il dossier si chiude con l’articolo di Geronimo. Costui richiama la stagione di tangentopoli e la convergenza di interessi, tra poteri nazionali e internazionali, che portò al colpo di stato giudiziario del ’93, quello con il quale la classe politica democristiana fu definitivamente spazzata via. Questa resa dei conti tra D’Alema e Veltroni non sarà definitiva ma possiamo star certi che il colpo di stato interno è già in esecuzione. Altrimenti perché ricorrere nuovamente alla magistratura, vecchia arma impropria, già sperimentata in illo tempore? Forse così si spiega meglio anche l’indissolubile alleanza tra dipietrini e veltroniani? Fatevi pure un’idea…

 

È scoppiata la Tangentopoli del Pd


di Peppino Caldarola

Da Foggia a Trento, da Napoli a Firenze le giunte rette dai democratici finiscono sotto inchiesta. La questione morale scuote il partito. Il piano di Veltroni? Usarla per far fuori l’eterno nemico D’Alema. Tutti gli scandali caso per caso: Abruzzo, Crotone, Firenze, Foggia, Genova, Napoli, Trento

Roma - Il gen. Veltroni dispiega le sue truppe sul fronte del Sud. È cominciato il nuovo Wargame democratico. Il portavoce dell’esercito confederato, il tenente colonnello Giorgio Tonini, ha lanciato l’ultimatum. Il diktat è secco ed è rivolto ai dalemiani. «Ritiratevi - ha proclamato Tonini sull’Espresso - o vi stermineremo tutti». Il gen. D’Alema, tornato dal paese di Pancho Villa, pseudonimo di Doroteo Arango Arambula, col proposito di fare piazza pulita delle truppe veltroniane, ha chiesto la tregua e riconosce la leadership dell’ex sindaco di Roma. Fuori di metafora sta per iniziare la più drammatica battaglia finale fra i due dioscuri del Pd. L’esito non è scontato. Il modello di Wargame elaborato dagli strateghi veltroniani ricorda la battaglia finale contro Craxi condotta negli anni in cui regnava Occhetto e Mani Pulite liquidava l’anomalia socialista.

Non c’è realtà del Mezzogiorno, con punte che arrivano fino a Firenze, in cui la «questione morale» non stia devastando il potere locale del Pd. Il caso limite è a Napoli dove un’intera stagione, contrassegnata dal super potere di Antonio Bassolino e dall’annichilimento di tutta la classe politica avversaria, sta volgendo al termine. Un’inchiesta via l’altra sembrano scandire gli ultimi giorni dell’impero di don Antonio. La Calabria è un altro dei nervi scoperti del potere Pd e più in generale del vecchio centro-sinistra. La Basilicata è entrata nell’occhio del ciclone. Si attendono notizie dalla Puglia.

Il Pd meridionale è quasi interamente dalemiano. Non c’è dappertutto una gestione diretta del líder Maximo, ma tutti i protagonisti della vita politica, e spesso delle inchieste, hanno fatto riferimento all’ex premier. Veltroni, appena incoronato capo del partito avverso a Berlusconi, si era segnato in agenda la resa dei conti nel Sud. Per un lungo periodo aveva rifiutato l’idea di un coordinamento del Pd del Nord per evitare che il coordinamento del Pd del Sud finisse nelle mani di Nicola Latorre, splendido luogotenente di Massimo D’Alema. In questa parte del Paese il tentativo di inserimento del nuovo leader si era bloccato di fronte alle resistenze dei dalemiani. Una classe dirigente ex comunista e democristiana, che aveva cercato nel potere locale quella forza che perdeva nel radicamento sociale, si era rivolta a D’Alema come al suo principale protettore. E D’Alema aveva accettato l’investitura persino nel feudo di Antonio Bassolino che, dopo aver tentato di fare della Campania la roccaforte antidalemiana, si era dovuto arrendere alla proposta di protezione dell'ex premier. D’Alema impelagato nel Sud, Veltroni re indiscusso e spodestato del regno di Roma. Di qui la tentazione della battaglia finale.

Non si capisce l’alleanza con Di Pietro se non si coglie l’incombere della «questione morale» nel Pd. D’Alema, come Bettino Craxi, ha sviluppato le sue qualità di leader coprendo e facendosi forza di un sistema di potere nel partito che ha badato alla sostanza. Dovunque c’erano voto e consensi lì il sistema di potere si metteva all’ombra del grande capo. Negli anni questo reticolo di rapporti è diventato un dominio pressoché incontrastato su tutto il partito del Sud che aveva avuto accesso al governo locale. La parentesi di Fassino era trascorsa senza modificare i rapporti di forza. Il segretario sabaudo non aveva neppure tentato di mettere naso nelle faccende del Sud. Veltroni ha questa ambizione. Ma soprattutto pensa di far pagare a D’Alema il prezzo della copertura di tutti i cacicchi del Sud. Quasi vent’anni dopo Mani Pulite, l’erede di Occhetto pensa di costruire la propria fortuna e di liquidare il suo amico-nemico di sinistra con la definitiva battaglia per la «questione morale».

Vent’anni fa il partito di Occhetto ottenne la liquidazione del Psi di Craxi. Oggi il Pd di Veltroni, adottando contro D’Alema la strategia che liquidò Craxi, è sul punto di esplodere. È un buffo contrappasso della storia quello per cui chi sopravvisse alla «questione morale» rischia di pagarne le conseguenze pochi decenni dopo. Il Wargame è appena agli inizi. Walter ha disposto le truppe dei propagandisti, interi gruppi editoriali sono stati messi in allarme. Ma D’Alema è un osso duro.

 

 

Gianluca Di Feo per "L'espresso" (fonte Dagospia)

Quel parco "mi fa cagare da sempre". Quando il sindaco di Firenze vuole cancellare 80 ettari di alberi, unico polmone previsto tra fiumi di cemento ligrestiano, per inserire lo stadio di un imprenditore amico e per farlo è pronto a "smitizzare il parco e dire che questo è tutto contro una certa sinistra", allora è il segno che non si tratta solo di una questione morale.

Da Firenze a Napoli, da Genova a Perugia, da Crotone a Trento, dall'Aquila a Foggia le inchieste giudiziarie che continuano ad abbattersi sulle giunte rosse aprono una questione più profonda: mettono in discussione la capacità di costruire il futuro delle città italiane. Più delle dimensioni degli illeciti, spesso poche migliaia di euro, sorprendono i loro effetti: le opere inutili e i cantieri eterni figli di questa malapolitica che ama il cavillo come strumento di potere. Più che le guerre intestine tra correnti del Pd, stupisce la capacità di impastare ogni genere di interesse privato in danno del bene pubblico: trasversalità e consociativismo sono mode condivise con la destra e con speculatori d'ogni risma.

Le giunte traballano sotto il peso di intercettazioni che svelano intrallazzi più che tangenti: i pm contestano contributi elettorali, come le cene dei Ds pagate con i 250 mila euro che sarebbero stati estorti ai broker dal presidente del Porto di Napoli; sponsorizzazioni, come quella del gruppo Ligresti all'opuscolo sulla crociata anti-lavavetri dell'assessore fiorentino Graziano Cioni; oppure incarichi professionali smistati a figli, amici e compari.

È una Via Crucis di piccoli episodi, spesso di dubbia rilevanza processuale, e di grandi favori intrecciati in consorterie dove la politica giustifica il disprezzo di qualunque regola, etica o penale, arrivando a negare il buonsenso. Le parole di Leonardo Domenici, presidente di tutti i sindaci italiani, sul parco da cancellare e "smitizzare" testimoniano un male che va oltre la corruzione addebitata ai due assessori di Palazzo Vecchio in rapporti troppo intimi con Salvatore Ligresti.

Inutile invocare la questione morale. Finora c'è stata a malapena una questione legale. Si muove solo la magistratura, che arresta o manda avvisi di garanzia. La segreteria nazionale non interviene e i vertici locali si barricano dietro la presunzione di innocenza: rinviano qualunque valutazione alla sentenza definitiva e così proseguono sulla stessa strada con le stesse persone.

Persino le dimissioni arrivano solo se inevitabili. E la valanga che rischia di sommergere la sinistra toscana ha smascherato figure molto differenti. Ci sono i piccoli Machiavelli di Palazzo Vecchio, maestri dell'intrigo e dell'intesa sottobanco, circondati da una corte di professionisti. Il provvedimento del giudice è spietato nelle imputazioni: l'assessore Gianni Biagi costringe la Provincia a entrare nel progetto Castello e costruire la nuova sede sui terreni di Ligresti.

Lo fa - scrivono - con ogni mezzo, arrivando a sfruttare la suo carica per intimidire ogni immobiliarista e impedire soluzioni alternative. I magistrati lo accusano di avere amputato pezzi di parco per consentire altre colate di cemento, di avere fatto passare in secondo piano le opere di urbanizzazione, ossia gli impianti per migliorare la vita dei cittadini. In compenso, infila architetti suoi amici, con parcelle da mezzo milione di euro per progetti che i tecnici di Ligresti predicono come inutili ("Finirà che vi paghiamo e li buttiamo"). Il risultato finale è un mostro, il progetto urbanistico che determina lo sviluppo di Firenze assomiglia "a una discarica", affollata di uffici e abitazioni, dove i palazzi di Provincia e Regione fanno strage di alberi e poi si inserisce anche lo stadio voluto da Diego Della Valle con rischi di ingorghi epocali.

Se Biagi si è dimesso, lo 'sceriffo' Cioni invece promette battaglia. È l'altra faccia dello scandalo: il barone rosso, arrogante, populista, con un feudo che garantisce voti. "Chi ha la puzza sotto il naso, cambi mestiere. Io sto con chi combatte", lo difende pubblicamente uno dei suoi consiglieri. Ma Cioni è anche la storia del Pci fiorentino: da 35 anni passa da una poltrona all'altra, dalla Provincia al Comune, poi Montecitorio, il Senato e di nuovo al Comune dove puntava adesso alla fascia di sindaco. Ha conquistato la platea nazionale lanciando il celebre regolamento contro mendicanti e lavavetri.

Poi lo hanno intercettato mentre rassicurava gli uomini di Ligresti: "Sto lavorando per voi". In cambio lo 'sceriffo' chiede e ottiene in un paio di minuti da Fondiaria un contributo di 30 mila euro per i 200 mila opuscoli che pubblicizzano la sua tolleranza zero. Chiede un premio, ottenuto, e una promozione, in valutazione, per il figlio che lavora proprio per Fondiaria.

Chiede e ottiene al prezzo politico di 600 euro mensili una casa di oltre sette vani "di pregio e in centro" per una sua amica. Alza il telefono per tutto. C'è da mettere la parabola di Sky nell'appartamento della sua amica? Chiama direttamente il braccio destro di Ligresti, Fausto Rapisarda. Il capoufficio sgrida suo figlio e lo rimprovera per i ritardi? Il papà assessore mobilita Rapisarda, la voce del padrone, che bacchetta il capoufficio e poi blandisce il rampollo: "Mi telefoni per qualunque cosa".

Per Cioni non c'è il partito né il Comune, ma uno schieramento che chiama "la famiglia". Né lui né gli altri indagati temevano la legge, sembravano sentirsi protetti. L'inchiesta del nuovo procuratore capo Giuseppe Quattrocchi e le registrazioni del Ros li hanno spiazzati. È uno choc, che rischia di abbattere il mito dello sviluppo sostenibile toscano, di uno stile di vita capace di coniugare progresso e tradizione costruito dal Pci in mezzo secolo di governo. Gli eredi di questa tradizione sembrano avere smarrito il contatto con la realtà della città.

Progettano opere discusse e discutibili come la linea tramviaria. Infilano nei contratti pubblici società personali, come quella del capogruppo Alberto Formigli: il consiglio comunale che ha respinto le sue dimissioni si è trasformato in una rissa. E l'inchiesta è solo agli inizi. Ogni giorno il Ros va in altri uffici a setacciare capitolati: ci sono accertamenti su decine di progetti di Comune, Regione e Provincia con migliaia di telefonate scottanti da analizzare. Insomma, in Toscana si prepara un inverno di passione.

A Napoli il dramma si è già materializzato nella scelta estrema di Gianni Nugnes, l'ex assessore che si è ucciso dopo l'arresto per i disordini contro una discarica. Un politico che restava ancorato alla sua Pianura, il quartiere con il record di edifici clandestini. Dicono che si sia sentito isolato, chiuso in un angolo per le scelte di suoi ex colleghi.

Come Enrico Cardillo, potente assessore al Bilancio, che con le sue dimissioni pare cercare riparo per sé e per il sindaco Rosa Russo Iervolino dal prossimo tsunami giudiziario. In due anni la giunta Iervolino ha già perso sette assessori, tutti azzoppati dalla magistratura e finora sostituiti con personaggi di alto livello.

Le anticipazioni del 'Mattino' prefigurano un nuovo terremoto in quei palazzi infausti per la sinistra, dove solo dieci mesi fa naufragò il governo Prodi. Questa volta l'epicentro dovrebbe essere in municipio, tra le poltrone della Margherita. Al centro delle indagini c'è il potere di Alfredo Romeo, un superstite della vecchia Tangentopoli partenopea diventato il monopolista nella gestione di immobili pubblici e considerato vicino all'area di Francesco Rutelli.

Il gruppo Romeo ha una rete di relazioni che arriva ovunque: cura persino la manutenzione del Quirinale, del Senato e del ministero dell'Economia. Gli hanno affidato centinaia di migliaia di case popolari e gran parte delle cartolarizzazioni: nel 2001 è stato pure incaricato di vendere lo stadio Olimpico. Gli atti giudiziari lo accusano di aver osato l'impossibile: fa lavori abusivi nella sua splendida villa di Posillipo e quando la procura mette i sigilli al cantiere, lui va avanti. E quando la magistratura lo denuncia, secondo un'inchiesta appena chiusa, un importante giudice si sarebbe mosso per convincere i colleghi ad archiviare la pratica.

Ma la questione Romeo potrebbe non essere solo campana. Le sue aziende arrivarono sul Campidoglio negli anni di Rutelli. Poi dalla giunta Veltroni hanno ottenuto il mega-appalto da 650 milioni per la manutenzione stradale, sospeso a fine agosto da Gianni Alemanno con il risultato di lasciare le strade costellate di buche e cantieri che hanno inghiottito fiumi di denaro. Sono disastri che mostrano come il problema non è solo etico: la malapolitica produce arretratezza, servizi inefficienti, sprechi.

Se nel Lazio ci fosse un sistema moderno di smaltimento dei rifiuti, la convivialità alla vaccinara tra l'assessore Mario Di Carlo, già numero uno della Margherita, e il monopolista delle discariche forse avrebbe suscitato meno clamore. Invece di emergenza in emergenza la spazzatura dei romani continua a marcire nell'orrido di Malagrotta. O lo spettacolo finale del centrosinistra abruzzese, dove alla vigilia del voto la maggioranza colata a picco dall'arresto di Ottaviano Del Turco corre ad assumere in pianta stabile schiere di portaborse.

Non ci sono pregiudiziali etiche: le porte restano sempre aperte per presunti corrotti o tangentisti. Quando al sindaco Pd di Perugia Renato Locchi i magistrati hanno chiesto se aveva incontrato un costruttore, finanziatore della sua campagna, poi arrestato per mazzette e scarcerato, lui risponde: "Il fatto che sia stato 50 giorni in cella non significa che non possa continuare a svolgere il suo lavoro". Anche a Trento la presunzione di innocenza ha un sapore beffardo. Prima delle elezioni un'inchiesta ha coinvolto i vertici dell'Autostrada A22, ipotizzando reati bipartisan: c'era un uomo di Forza Italia ma anche il presidente Silvano Grisenti, legatissimo al governatore Pd della Provincia, Lorenzo Dellai.

Grisenti viene accusato di corruzione, turbativa d'asta, tentata concussione per sponsorizzazioni e contratti da assegnare a società di suoi familiari: è l'uomo della 'magnadora', la mangiatoia. Una grana a poche settimane dalle elezioni? Dellai l'ha trasformata in un punto di forza, costringendo l'indagato a dimettersi senza se e senza ma. La condanna politica ha trasmesso negli elettori un'immagine di pulizia, contribuendo alla vittoria del centrosinistra.

Ma lunedì 1 dicembre, tre settimane dopo il voto e 70 giorni dopo le dimissioni, si scopre che Grisenti ha ottenuto un incarico nell'ente presieduto da Dellai: un ufficio creato su misura per coordinare i programmi di cooperazione internazionale. "Ha il pieno diritto di tornare al lavoro", ha spiegato Dellai, citando la Costituzione. Sintetico il commento dell'interessato: "Ho una famiglia numerosa".

'Tengo famiglia' è un argomento che funziona meglio dell'indulto: fa perdonare tutto. Così come si chiude un occhio per cavalleria sulle frequentazioni femminili. A Foggia, per esempio, il sindaco è sotto processo per i favori concessi alla sua "segretaria particolare". L'ha assunta nello staff, con stipendio di 3.500 euro al mese, l'ha poi nominata nel consiglio d'amministrazione di una municipalizzata, ma la signora avrebbe continuato a usare beni del Comune senza titolo: solo di telefonino 6 mila euro di bolletta. Per difenderla il sindaco, sempre secondo i magistrati, avrebbe anche falsificato documenti. Peccati veniali? Orazio Ciliberti è sotto processo per questa storiaccia e per un'altra vicenda, ma rimane primo cittadino, membro della Costituente del Pd e vicepresidente nazionale dell'Anci.

Restano relegati in periferia anche i peccati d'omissione, veri o presunti. A Crotone la procura ha preso di mira Europaradiso, il faraonico insediamento turistico dove si sarebbero concentrati gli interessi della nuova mafia calabrese. I pentiti hanno parlato di summit tra emissari delle cosche e i dirigenti locali del Partito democratico: il capogruppo Giuseppe Mercurio si è dimesso dopo un avviso per concorso esterno in associazione mafiosa.

Il problema è che questo scenario era stato denunciato un anno fa da Marilina Intrieri, all'epoca parlamentare Pd, per cercare di bloccare l'ingresso nelle liste dei nomi vicini ai clan. Si rivolse a Marco Minniti, all'epoca sottosegretario agli Interni e oggi ministro ombra, e a Marina Sereni, vicepresidente dei deputati Pd. Spiega Marina Sereni: "Vista la gravità di quanto sosteneva, le dissi di rivolgersi alla magistratura". Il Pd non c'entra: l'etica non riguarda il partito, ma è compito esclusivo delle procure. E allora a cosa si riduce la politica?

Perché tutta la mappa dell'Italia rossa è costellata di inchieste che rischiano di esplodere o che hanno sfiorato il sistema di potere passato dal vecchio Pci al Pd. Prendete l'Umbria. Il sindaco di Perugia nello stesso verbale in cui difendeva la presunzione di innocenza del costruttore inquisito, parla delle sue frequentazioni con Carlo Carini, il re dell'asfalto. Nello scorso maggio Carini è finito in manette assieme ad altri 30 tra impresari e funzionari di Regione, Provincia e di alcuni comuni. Tre assessori provinciali hanno presentato le dimissioni, subito respinte. Le intercettazioni hanno fatto emergere una cupola che dominava i lavori stradali e che si compiaceva di usare il lessico mafioso: "Sì, sono il capo dei capi". Nessuno ha collaborato, l'istruttoria non è arrivata ai piani alti: è rimasta una storia di geometri. Almeno per ora.

Genova invece si è appena ripresa dallo choc per la retata che a maggio fece traballare il sindaco Marta Vincenzi e le tolse letteralmente il sonno: "Quei cattivi guaglioni mi hanno pugnalato a tradimento". Gli investigatori sono partiti dal municipio e adesso scavano nelle attività di altri enti. Il peggio è passato? I magistrati potrebbero regalare un brutto Natale al centrosinistra ligure: è in arrivo la chiusura delle indagini, che toglierà il segreto su molti dossier.

La storia è nota. Un industriale della ristorazione cerca di mettere le mani nel piatto delle mense cittadine, 26 mila pasti al giorno, e vuole "oliare il meccanismo". Sono finiti in carcere il portavoce della Vincenzi e due consiglieri comunali mentre due assessori indagati si sono dimessi. Solo pochi giorni fa è stato pubblicato il verbale di Massimo Casagrande, l'ex consigliere arrestato, che ricostruisce l'inizio della trama: "Era ancora in corso la campagna elettorale della Vincenzi. Roberto Alessio si dichiarò disponibile a dare un contributo. Ventimila euro. Nel frattempo chiese un nostro interessamento...".

Rispetto a questi scandali, la crisi sarda è storia diversa: è la sfida finale tra due modi di fare politica e costruire il consenso. La pancia del Pd si è mossa contro Renato Soru per logiche di partito più che affaristiche: l'entroterra non interessa ai palazzinari da spiaggia. Ma l'abitudine di trasformare i capanni agricoli in casette è diffusa nell'isola tra tutti i ceti urbani e rurali.

Un mondo che Antonello Cabras, l'antagonista di Soru, conosce bene: è stato segretario del Psi negli anni Ottanta, poi presidente della Regione e parlamentare ds. Soru invece vola alto e vuole chiudere il suo impegno di tutela ambientale: le dimissioni dimostrano che è pronto a tutto, anche a proseguire senza il Pd. E il maltempo furioso di questi giorni, con alluvioni e frane, concretizza gli effetti disastrosi del 'mattone ovunque e comunque', diventando una sorta di spot per Soru. 'Piove, governatore virtuoso', ironizzano i suoi fan: forse l'unica eccezione alla slavina morale del centrosinistra.

 

Un Castello di affari e veleni: il caso che sconvolge Firenze
di Stefano Filippi (fonte il Giornale)

Nel mirino della Procura il progetto miliardario sull’area periferica Tra gli indagati anche due assessori della giunta di centrosinistra

Lascia la politica, il sindaco Leonardo Domenici. È schifato da compagni di partito, giornali, giudici. Dice di essere «sotto attacco concentrico di destra e sinistra», timorose che «l'eccezionale risultato delle politiche» (48,5 per cento al Partito democratico) si replichi alle amministrative e la città sia retta da un monocolore. Domenici butta in politica l'inchiesta sull'area di Castello che ha terremotato la sua giunta e aperto la questione morale nel Pd. Ma la magistratura ha altre carte in mano.
Lo scandalo scoppia il 18 novembre: il nuovo procuratore, Giuseppe Quattrocchi, è nel capoluogo toscano da un mese. Partono sette avvisi di garanzia per corruzione, i carabinieri del Ros mettono sotto sequestro preventivo un'area di 168 ettari, sospese opere per un miliardo di euro. L'inchiesta sospetta un fitto intreccio di favori personali e interessi privati in cambio di lavori pubblici, licenze, concessioni. Le indagini si intrecciano con la guerra interna al Pd di Firenze, dilaniato dalla corsa alle primarie per la successione a Domenici, e ora indebolito da una raffica di dimissioni eccellenti.
Tutto ruota attorno al futuro della zona di Castello, enorme superficie alla periferia nord-ovest di Firenze tra l'aeroporto di Peretola, la ferrovia, l'autostrada e il luogo dove dovrebbe sorgere il nuovo inceneritore. Il terreno appartiene a Fondiaria-Sai, del gruppo Ligresti. Dopo anni di discussioni, nel 2005 viene siglata una convenzione tra il comune e l'impresa: metà abbondante dell'area sarà destinata a edilizia privata e pubblica (case, negozi, uffici, un albergo, le nuove sedi di provincia e regione) per 1,4 milioni di metri cubi, il resto (80 ettari) diventerà un parco a compensazione della colata di cemento. L'operazione vale un miliardo di euro.
Si doveva partire con la realizzazione del verde pubblico, ma tutto resta fermo fino a qualche mese fa, quando si viene a sapere che i lavori cominceranno con la parte privata. Il 19 settembre, poi, l'industriale Diego Della Valle presenta il suo progetto di «cittadella viola» con nuovo stadio, centro commerciale, palestre: un'idea che si dovrebbe sviluppare su 70-90 ettari, dice il patron della Fiorentina. Guarda caso: al Castello ce ne sono 80, unica area libera in città. E il sindaco, desideroso di lasciare un segno duraturo al termine del suo decennio, propone una variante al piano strutturale con lo stadio a scapito del parco. Che peraltro «mi fa cagare da sempre», come ha confessato all'assessore all'urbanistica Gianni Biagi, suo fedelissimo, in una telefonata intercettata.
Secondo la magistratura, dietro le quinte si muove un comitato d'affari. Gli avvisi di garanzia raggiungono, tra gli altri, l'assessore Biagi; il suo collega-sceriffo Graziano Cioni, famoso per le campagne contro accattoni e lavavetri, candidato alle primarie del Pd; Salvatore Ligresti e il suo braccio destro Fausto Rapisarda, già coinvolto in Tangentopoli nell'inchiesta Eni-Sai.
Dalle intercettazioni riportate nelle 144 pagine dell'ordinanza emergono i rapporti tra gli uomini di Ligresti e quelli di Domenici. Biagi tratta direttamente con Rapisarda («sto lavorando per voi»), indica i progettisti di fiducia, si adopera per spianare i problemi burocratici, sembra più preoccupato del progetto edilizio che degli interessi del Comune. Cioni invece parla con Rapisarda del figlio, dipendente Fondiaria premiato e promosso, e di un alloggio per una cara amica, sette vani «di pregio» in centro a 600 euro mensili. L'assessore aveva anche ottenuto una sponsorizzazione di 30mila euro per stampare 200mila opuscoli sulla tolleranza zero.
Biagi si dimette il 27 novembre, difendendo la correttezza del suo operato; la delega all'urbanistica va al sindaco. Lascia anche il direttore della Nazione, Francesco Carrassi, intercettato in colloqui con Rapisarda. Per un'altra inchiesta si dimettono il capogruppo del Pd, Alberto Formigli, socio di una società di progettazione, assieme a un dirigente dell'ufficio urbanistica di Palazzo Vecchio. E l'altro giorno ha sbattuto la porta un altro assessore, Paolo Coggiola (lavori pubblici): non è indagato, ma segue la decisione del suo partito, il Pdci, di uscire dalla maggioranza. Domenici, su sua richiesta, è stato sentito per quattro ore in procura e ha negato di aver favorito Ligresti.
Cioni invece tira dritto e annuncia battaglia: lo sceriffo ritiene scarsi gli elementi a suo carico, ma soprattutto non vuole mollare le primarie democratiche. I suoi concorrenti sono l'eurodeputato Lapo Pistelli, il cui primo sostenitore è il dimissionario Formigli; il presidente della provincia Matteo Renzi, rutelliano, anch'egli ascoltato dai pm; l'assessore alla pubblica istruzione Daniela Lastri. Veltroni ha convocato due volte a Roma i vertici del partito fiorentino nel tentativo di calmare le polemiche; «sembra di essere a Tirana», ha commentato Massimo D'Alema

IL VECCHIO VIZIO DELLA SINISTRA


di Mario Giordano

Leonardo Domenici parte dalla sua Firenze travolta dallo scandalo e va a incatenarsi sotto Repubblica. Chi l’avrebbe detto? Un leader della sinistra contro il giornale di riferimento della sinistra; e per strada, con lucchetti e striscioni, manco fosse la rivolta dei vuccumprà. La Tangentopoli del Pd è appena esplosa e già ci riserva scene indimenticabili. Poi dicono che la satira dei compagni non tira più in Tv. Per forza: fanno più ridere quando sono seri.

Il colpo di genio di Leonardo (quando si dice il destino nel nome) ci insegna innanzitutto una cosa: i giornali si possono criticare. Meno male. L’altro giorno tutti si sono indignati per una battuta (infelice) del Presidente del Consiglio. Ora qui c’è il presidente dell’Anci, cioè il rappresentante degli 8mila comuni italiani, che va addirittura ad incatenarsi sotto un giornale. Ebbene: tutti esprimono solidarietà a lui, nessuno a Ezio Mauro. Ma vi pare? Ci ribelliamo: Stampa e Corriere devono essere liberi di scrivere e far vignette, Repubblica pure.

La seconda cosa da mettere agli atti è che, con oggi, anche l’ultimo illuso avrà capito che la superiorità morale della sinistra è una balla spaziale. Avete presente? Da Berlinguer ad Occhetto, fino al Veltroni del Circo Massimo («Siamo l'Italia migliore...») ci hanno frantumato i panettoni con la pretesa diversità. Diversi da che? Stanno affogando in mezzo a tanto fango che ci si potrebbero far le cure termali. Magari riuscirebbero a fare pulizia. Della pelle, se non altro.

Epperò c’è una terza cosa che non deve sfuggire in questa nuova Tangentopoli. Ed è l’antico vizio di usare la giustizia per regolare questioni politiche. Che le giunte del Pd abbiano commesso malefatte appare ormai evidente: su questo bisogna andare a fondo ed essere impietosi. Ma che qualcuno, nel partito, voglia usare queste malefatte per risolvere partite che non riesce a vincere sul piano della politica, è grave. Perché ripete antichi schemi. Perché dimostra che da certi mali non si guarisce.

Per mesi siamo andati avanti a chiederci per quale motivo Veltroni avesse siglato l’alleanza (mortale) con Di Pietro e i giustizialisti. Ci avete fatto caso? Non l’ha mai mollato. Ad esso ha sacrificato tutto: il dialogo, il buon senso, la faccia. Perché? Difficile saperlo. Ma se, come molti nel Pd stanno dicendo, Walter avesse davvero scelto la via giustizialista per liquidare definitivamente l’eterno nemico D’Alema, ebbene, dovremmo cambiare rapidamente giudizio su di lui: non è solo maldestro e incapace. È pure assai pericoloso.

Da Berlinguer a Veltroni quella «superiorità morale» che ora fa arrossire il Pd


fonte il giornale

Gli eredi del Pci hanno sempre rivendicato un primato etico sugli altri. Ma dal caso Unipol allo scandalo di Napoli, la tesi ormai è insostenibile

Se tu sostieni di essere migliore di me, siccome nessuno te l’ha chiesto, hai l’onere della prova: devi dimostrarlo. Se non ci riesci, frani nella stessa voragine retorica che hai scavato con le tue stesse mani. È questo il senso della lunga storia della «diversità morale» della sinistra politica italiana, idealmente cominciata con l’intervista concessa da Enrico Berlinguer Eugenio Scalfari su Repubblica ventisette anni fa, il 28 luglio 1981, e idealmente conclusa ieri, con l’incatenamento sotto le finestre del medesimo quotidiano del sindaco ex Pci-Pds-Ds ora Pd di Firenze, Leonardo Domenici, per rivendicare di avere «le mani pulite».
Toccherà dare ragione alla Jena: a quest’ora, il fantasmino di Bettino Craxi si starà spanzando dalle risate, osservando i suoi antichi accusatori gettati nella polvere del sospetto d’aver degenerato l’etica pubblica in grammatica del malaffare. Perché, se il severo proclama berlingueriano di guerra contro la degenerazione della partitocrazia era il tentativo di vestire con un rigoroso abito calvinista la svolta quasi-socialdemocratica del Pci che usciva a fatica dalla tutela sovietica, la storia del popolo della sinistra più onesto, più etico, più solidale, più civico più mejo dei lanzichenecchi che, sotto l’egida berlusconiana, hanno occupato per via televisiva le istituzioni e l’immaginario italiano, è stato il tonico – o, a seconda delle occasioni, l’antidepressivo – con cui la sinistra postcomunista italiana ha provato a sopravvivere al crollo delle ideologie e della via rivoluzionaria al potere, svicolando da una resa dei conti con la modernità politica e il richiamo sanguinario del giacobinismo.
Se non c’è più la politica come progetto di mutamento radicale della società, attingi senso alla morale «accettando consapevolmente i rischi del moralismo», ha chiosato Edmondo Berselli in Sinistrati (Mondadori). È questa convinzione che animava i giovanotti rosso-verdi che durante Mani pulite canticchiavano canzoncine tipo «Ma Bobo Bobo non lo sa/che Mario Chiesa ruba in tutta la città/Ruba di qui/ruba di là/e porta tutto al suo papà!». È questa certezza che ha animato via via i girotondi, le liste civiche, il giustizialismo, la difesa senza se e senza ma della magistratura, la mitografia della società civile o chi, per ammazzare in culla il dibattito sull’uso politico della giustizia ribatteva, come il Claudio Rinaldi del 1995, che «dietro lo spettacolare revival del garantismo, c’è anche e soprattutto la posizione processuale di un uomo chiamato Berlusconi». È questa sicurezza che ha armato il racconto della sinistra come gruppo di persone moralmente pulitissime «con cui pensavamo di arrivare prima o poi a una riforma politica e morale», come scrive un Giorgio Bocca inferocito contro la prima vittoria berlusconiana, nel 1994.
È tutto questo che ha prodotto la santificazione dei vari Pietro Ricca, e la canonizzazione giornalistica del travaglismo come racconto unofficial della mentalità conflittuale e palingenetica dell’elettore medio della sinistra. Fino all’alleanza col poliziottesco Di Pietro, che non è una controfigura di Maurizio Merli ma, ormai, il principale esponente dello schieramento opposto al governo.
Riprendiamo, ne vale la pena, qualche stralcio della famosissima intervista berlingueriana. Nel 1981 il segretario comunista affermava che «i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e clientela» prive di passione civile, «federazioni di correnti, camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sottoboss” » che gestiscono interessi «talvolta anche loschi». Insomma, «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo». Tuonando infine: «Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano»
Si capisce perché l’eco di queste parole del «dolce Enrico», del suo rivendicato maestro, dovrà accompagnare anche sotto le lenzuola Walter Veltroni, alle prese con le grandi e piccole beghe e grane che angustiano il Partito democratico in tante città in cui governa ed esprime classe dirigente, peggiori del ricordo del “compagno G” o delle storie delle scalate bancarie di un paio d’anni fa, perché mettono in questione ciò che è sempre stato il fiore all’occhiello della sinistra, la qualità amministrativa e morale del governo locale. Riprenderà forse in mano, Veltroni, la Carta dei Valori del Pd, dove si afferma la promozione di «un’etica pubblica condivisa, che consenta agli italiani di nutrire un senso più alto ai loro doveri». Ripenserà forse a un’intervista del maggio 2007 in cui Massimo D’Alema, un altro che con Piero Fassino ha commerciato a fasi alterne con la storia della diversità morale, denunziava «una crisi della credibilità della politica che tornerà a travolgere il Paese con sentimenti come quelli che negli anni '90 segnarono la fine della prima Repubblica». Gli ritornerà forse in mente l’elenco dei «valori morali necessari» redatto da Pietro Scoppola nell’introduzione a Partito democratico. Le Parole chiave (Editori Riuniti). Penserà forse alla decisione dello scorso febbraio, una bella pigiata sul pedale dell’acceleratore moralisteggiante, di non candidare né condannati né tantomeno inquisiti (al parlamento nazionale, mica alle amministrative, però), che ha trovato immancabili Curzi Maltesi pronti a lodare questo «“ma anche” coraggioso».


O, più prosaicamente, Walter penserà a quando, a ottobre, sul palchetto del Circo Massimo, ha cercato l’ovazione così: «L'Italia è migliore della destra che la governa». Un ritorno rumoroso al mito della diversità, un brusco abbandono delle promesse di normalizzazione della dialettica democratica formulate nel discorso del Lingotto. Questa frase, anche se non l’ha notato nessuno, è la clamorosa scopiazzatura di un pezzo del discorso di Barack Obama tenuto a Denver, 28 agosto 2008: «Noi siamo migliori di questi ultimi otto anni. Noi siamo un Paese migliore di questo». Complimenti per l’originalità veltroniana e per l’evidente, pur se involontaria, autoironia. Come Pietro Ingrao, volevano la luna, ma sono finiti nel pozzo.

INTERVISTA A DE MICHELIS (IL GIORNALE)

Roma Onorevole Gianni De Michelis, non dirà «l’avevo detto...».
«No, non lo dico».
Non dirà che è la nemesi.
«Non lo dico. Anche se la tentazione c’è: chi la fa l’aspetti...».
Non dirà che era meglio la prima Repubblica?
«Questo lo dico, forte e chiaro: la Prima era molto meglio della Seconda, e non già la sentina di tutti i mali. Almeno la politica non era così debole, e assicurava una governabilità nella media dei governi europei...».
La Tangentopoli del Pd chiude tutti i conti con la presunta «diversità» di postpiccì e postdc di sinistra.
«Non mi stupisce, perché entrambi non erano affatto più puliti degli altri partiti spazzati via dai giudici nel ’93-94. Anzi, i comunisti erano peggio: perché al reato del finanziamento illecito associavano il finanziamento diretto dall’Urss. Emerge oramai dai documenti storici: Berlinguer parlava di questione morale, ma poi scriveva per sollecitare i soldi da Mosca».
Storia, appunto. Incombe la cronaca: Domenici s’è incatenato, Cioni minaccia il Pd fiorentino, Bassolino non si dimette, la Iervolino strepita.
«Alcuni di costoro non li conosco nemmeno. Cioni mi fa simpatia, usa il vecchio metodo del “muoia Sansone con tutti i filistei”... Bassolino si sa che era un bluff, come la sua “primavera napoletana”, che ha coperto una semplice occupazione del potere. Questi non hanno saputo gestire neppure l’abc, cosa che è emersa chiara quando sono stati sommersi dai rifiuti».
Il Pd ha un male oscuro.
«Macché oscuro: emerge una classe dirigente penosa. Cacciari straparla sentendosi un Cattaneo, Chiamparino pensa di essere Cavour... Mi sembrano come i naufraghi sulla zattera di Medusa».
Un partito devastato dai cacicchi di provincia, come ha scritto Zagrebelski.
«Di provincia? No, la situazione di Napoli o Venezia è uguale a quella della Roma di Rutelli e Veltroni. Basti ricordare quell’inchiesta di Report sul piano regolatore veltroniano...».
Veltroni e D’Alema, siamo a un duello all’ultimo sangue.
«Non li giudico, sono politici a tutto tondo, figli di un’epoca che non c’è più. Sembrano poco attrezzati: certo, Veltroni è il nulla, D’Alema è più simpatico e almeno si dichiara ancora comunista. Un comunismo che andava già male quando c’era Breznev... Ecco, forse si può dire che sono figiciotti travolti dai tempi. Un giorno però scriverò la storia di due generazioni di figiciotti: i vincenti, quelli cinesi, e i perdenti...».
Si dice che le bufere giudiziarie saranno usate dall’uno contro l’altro.
«Questo non lo so, leggo sui giornali ciò che accade. È una guerra tra bande a tutti i livelli, che ora si scarica anche all’interno del Pd. Ma è colpa di una politica morta quando Mani pulite ha distrutto i partiti, e sono emersi gli interessi concreti, che si scontrano senza più regole. Come si vede persino nell’incredibile conflitto tra le Procure di Salerno e Catanzaro».
Il Pd langue, Di Pietro gode.
«Potrà guadagnare qualche voto, ma non è in grado di rappresentare alcun disegno di opposizione. Non voglio scendere su questo terreno: il personaggio somiglia a quei frati dell’Inquisizione che bruciano le streghe e gridano al male del mondo, ma poi gli si scoprono vizi e difetti peggiori di quelli degli altri. È noto che le prassi vigenti nel suo partito sono simili a quelle che denuncia. Lui però si copre stando sempre dalla parte dei giudici».

Che cosa resterà in piedi?
«Incredibile che in pochi mesi abbiano distrutto la sinistra e qualsiasi opposizione credibile. È folle che il Pd possa esplodere ora, persino prima delle Europee, quando il Paese avrebbe bisogno del concorso di tutti, magari con una formula di grande coalizione. E comunque per Berlusconi sarebbe preferibile avere il diaframma di un’opposizione, davanti a una situazione economica terribile, che impone scelte ardue, quasi impossibili».
Teme il dissolversi del Pd?
«Mi augurerei che il Pd fallisca il più presto possibile. Ma per la sua incapacità politica, non perché li arrestano tutti».

 

 

Cade il dogma dei comunisti onesti e dei giudici infallibili di G. Baget Bozzo (IL GIORNALE)

 

C’erano due assiomi, due verità evidenti alla base del processo alla politica che mise fine nel ’93 all’esistenza dei partiti democratici occidentali e consegnò il Paese ai postcomunisti e alla magistratura.

La prima evidenza riguardava la magistratura e si fondava sul principio che il suo giudizio è al di sopra di ogni sospetto e le ultime verità della politica sono stabilite dai magistrati inquirenti.

Il carcere preventivo e la stampa eseguivano la messa in stato di accusa. Il secondo assioma era che i comunisti e i loro alleati, a cominciare dai cattolici democratici, erano al di sopra di ogni sospetto. L’immagine della riserva morale era data dal compagno Primo Greganti che abitava il carcere con orgoglio mentre il socialista Gabriele Cagliari si suicidava. Ambedue i presupposti sono ora crollati.

La guerra tra le Procure di Salerno e di Catanzaro che si spediscono i carabinieri a vicenda per indagare sui reati commessi dai magistrati è la prova che la magistratura è un potere anch’esso logorato dal suo esercizio. Essendo divenuto un potere assoluto, si logora assolutamente.

E il processo che le due Procure si contendono non è piccola cosa. Vi sono incriminati, tra gli altri, Romano Prodi e Clemente Mastella. E tutto per la congiunzione con quello che con memoria d’infanzia, chiameremo il «feroce Saladino», esponente della Compagnia delle Opere nel Mezzogiorno. Non sappiamo se la Compagnia abbia dichiarato qualcosa rispetto al Saladino, ma la Compagnia è divenuta anch’essa un sistema clientelare che controlla i suoi terminali.

Ma chi spunta sul calabro confine? Non è Severino Boezio. Ma Nicola Mancino, il vicepresidente del Csm, demitiano di

Grido e autore della memorabile legge Mancino che ha introdotto in Italia il diritto di opinione con la legge contro l’omofobia e il razzismo. Anche lui coinvolto dal «feroce Saladino».

Si apre una pentola bollente, anzi scoppia. E ne esce fuori

l’istituzione principe dopo Mani pulite, la magistratura.

Non possiamo non ricordare che i democristiani moderati e

i socialisti vennero condannati alla gogna pubblica da chi oggi non è più al di sopra di ogni possibile sospetto. Ed è il presidente della Repubblica che deve avocare a sé come presidente del Csm gli atti di Salerno e di Catanzaro, due Procure l’una contro l'altra armate. La politica riprende i suoi diritti nei confronti dei magistrati.

Possiamo sperare che un giorno l’esilio in cui morì Bettino Craxi incontri una giusta riparazione da un’Italia liberata finalmente dal volto di Antonio Di Pietro. E la magistratura, che lo ha sempre coperto a Brescia nei suoi trascorsi milanesi, dovrà un giorno esaminare i casi che condussero

alla distruzione della democrazia italiana.

L’altro assioma che cade è quello della supermoralità dei comunisti in base all’autocertificazione di Enrico Berlinguer.

I comunisti per dottrina sostenevano che il partito era sopra lo Stato e sopra la nazione e portava in sé i semi della rivoluzione e della giustizia. Essi costruirono un sistema nel sistema in cui istituzioni regionali e locali, sindacati, cooperative, giudici e funzionari, costituivano un’unità di scontro contro il sistema occidentale del nostro Paese. Eccoli assieme Antonio Bassolino e Rosa Russo Jervolino che la morte di Giorgio Nugnes ora ha posto obiettivamente in condizione di pubblico sospetto. L’accusa che circola è che gli affari di Nugnes e quelli della coppia Bassolino-Jervolino arrivassero fino a Casal di Principe. E questo sarebbe anche il quadro in cui la camorra ha potuto controll