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Crisi. Non se ne esce…

di Riccardo Torsoli - 08/12/2008

Stiamo vivendo la grande depressione del nuovo millennio, perché così sarà ricordata nei libri di storia futuri, e ogni giorno il bollettino di guerra economico-sociale si aggiorna di nuovi fallimenti, di nuovi salvataggi o pseudo tali, di tagli del personale, di aspiranti stregoni che continuano a blaterare su flessibilità, competitività e produttività, insomma stiamo assistendo oltre che alla fine del sistema turbo capitalistico anche al tramonto della ragione e del buon senso.

 

La BOE, la Banca centrale della perfida albione, ha tagliato i tassi al 2%, tornando ai livelli del 1951, la BCE dopo che a luglio 2008 aveva addirittura aumentato i tassi di interesse per controbattere ad un’inflazione immaginaria, li ha portati al 2,5%, il livello più basso dalla sua fondazione, ma già si fanno i conti con una situazione che va peggiorando giorno dopo giorno e che fa prevedere, agli analisti di Citigroup, un possibile prezzo obiettivo dell’oro sui 2000$ l’oncia, praticamente l’avverarsi dell’apocalisse globale: roba da ultima profezia.

 

Dopo il nulla di fatto scaturito dalla riunione del G20 la situazione si è aggravata a causa della scarsa incisività nell’affrontare la crisi da parte europea e statunitense.  Negli Stati Uniti ormai si è scelta la strada monetarista dell’inondazione da parte della FED di fiumi di dollari nel sistema bancario con la concreta e certa deriva verso una iperinflazione, mentre in Europa si è scelta la strada della deflazione e dell’attendismo ad oltranza, esattamente la stessa sciagurata e pavida strategia adottata durante la depressione americana dalle autorità statali statunitensi. Ma in Europa - si sa - le politiche economiche si basano sullo stato di salute della Germania, che benchè sia molto provato è sicuramente più tonico di quello di paesi come l’Irlanda, l’Italia, la Grecia e la Spagna.

 

In Italia la situazione economica è sull’orlo del collasso, benchè da Palazzo Chigi si facciano proclami di forza e di tranquillità. Avremmo bisogno di riforme strutturali e di un forte piano di sostegno economico e sociale, ma invece si assiste ad un deprecabile spettacolo politico con situazioni che sfiorano il grottesco: da una parte l’opposizione, ormai profondamente minata all’interno che, assecondando la sua natura piccolo borghese, si scaglia contro la proposta di portare l’IVA al 20% alle televisioni a pagamento del magnate austrialiano Rupert Murdoch, confermandosi ampiamente inadeguata al ruolo politico che la minoranza degli Italiani le ha conferito e, dall’altra, abbiamo un governo che si trova impotente e dannatamente timido davanti ad una crisi di così vasta portata che annaspa e si limita solo a provocatori ed inutili proclami a consumare e a comprare titoli di stato.

 

Emblematica la situazione che ha visto il 4 di novembre il ministro per lo sviluppo economico (ancora mi domando di quale paese) Claudio Scajola guidare una missione di tre giorni in Vietnam con 150 imprenditori italiani e seguito confindustriale per assistere alla inaugurazione nuovo stabilimento della Piaggio nel paese indocinese. E’ stato lo stesso Presidente Roberto Colaninno a tagliare personalmente il nastro del nuovo insediamento industriale e non sarebbe una gran notizia se non fosse che ricopre anche l’incarico di Presidente della CAI, voluto fortissimamente proprio dal Presidente del consiglio per difendere l’italianità della nostra compagnia di bandiera, il capitano coraggioso di dalemiana memoria trasformato in tigrotto di Mompracem, proprio mentre Telecom Italia, controllata ormai dagli spagnoli di Telefonica, taglia 9000 posti per ridurre l’indebitamento.

 

Di questo passo la strada verso l’abisso è segnata. La forte disoccupazione a cui stiamo assistendo, ampliata dalla mancanza quasi totale di ammortizzatori sociali degni di nome e da un regime dei prezzi insostenibile porterà inevitabilmente ad un aggravamento della situazione economica. La domanda interna va sostenuta, anche con le tessere annonarie magari più corpose e con copertura più ampia, ma soprattutto con una serie di iniziative dirette dello Stato sul sistema produttivo. Inoltre sarebbe necessario tornare a fare programmi di industria pubblica anche se agli eurocrati a Francoforte la cosa non va giù. Sarebbe poi necessario Investire: su ricerca e sviluppo, per dotarsi di un sistema energetico indipendente miscelando investimenti sulle fonti rinnovabili e sul nucleare; nei settori ad alta tecnologica e nel comparto militare. Investire, infine e  soprattutto sui giovani che sono il futuro di questo paese, troppo spesso dimenticati o sfruttati.

 

L’Italia ha 200 miliardi di euro in scadenza del debito pubblico e fino ad oggi le aste di collocamento, non sono, fortunatamente, andate deserte, ma la paura è tanta soprattutto perchè il differenziale tra BTP e Bund si amplia a livelli pericolosi (1,38%) e le contrattazioni dei Credit Default Swap sulla possibile insolvenza italiana registrano in questi giorni nuovi massimi. E’ chiaro che in questa situazione globale, ogni paese cerchi di emettere più titoli di stato possibili per finanziare il proprio rilancio economico e, quindi, la concorrenza sui mercati dei titoli di stato si fa sempre più serrata.  I tassi aumentano a seconda del grado di solvibilità nazionale e se il debito non viene rifinanziato di continuo occorre monetizzarlo stampando nuova moneta. Ma, è proprio questo il punto: in Europa la sovranità monetaria è di pertinenza esclusiva della BCE e, non ultimo, paesi come la Cina, il Giappone ed i Paesi del Golfo Persico, che fino ad oggi si sono sobbarcati la maggior parte dei debiti occidentali , stanno rivedendo le loro posizioni a causa della crisi che attanaglia anche loro stessi .

 

Proprio a causa di ciò, per l’Italia, in caso di impossibilità di reperimento di risorse sui mercati finanziari globali si potrebbero aprire due strade possibili: la fuoriuscita dall’area euro, come previsto dal Trattato di Lisbona, oppure il commissariamento da parte dei vertici economici europei. In entrambi i casi a guidare il nostro paese sarà una personalità di alto profilo in ambito economico e, nel primo caso, potremmo assistere ad una situazione già avvenuta in passato in Argentina proprio sotto la guida del socialista Raul Ricardo Alfonsin. Il riferimento all’argentina non è casuale, in particolare per la famosa bancarotta che sconvolse il paese sudamericano alla fine degli anni ‘90. Vale la pena ricordare che Raul Alfonsin venne eletto nel 1983 alla guida dell’Argentina e dette il via al piano “austral ” che per cinque riuscì a migliorare sensibilmente la situazione economica del paese, grazie a politiche monetarie, fiscali e dei redditi mirate al contenimento dell’inflazione e a ridare sollievo alle fasce più deboli della popolazione. La sua dismissione, purtroppo, avvenuta nel 1989, aprirono la strada alla imponente opera di liberalizzazioni selvagge e al rapporto di parità con il dollaro che portarono successivamente alla clamorosa bancarotta.

 

Il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, continua a ripetere che l’Italia non farà la fine dell’Argentina, ma se a Francoforte continuano a rimanere ancorati al rispetto rigoroso dei parametri di Maastricht anche in regime di incipiente depressione e si limitano solo a tagliare i tassi con timidezza e colpevole ritardo allora è bene che cominci a ripassare la storia argentina dei primi anni ‘80, perché assomiglia dannatamente al nostro probabile futuro scenario e, comunque, ci sarà bisogno di tanto, tanto coraggio.

 

 

 

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