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Diossina suina

di Carlo Petrini - 09/12/2008

 

Un'Ansa di ieri sera dice che la diossina rilevata nei suini irlandesi proviene da olii industriali finiti in una macchina usata per asciugare il mangime. Cosa significa? Mistero.

Ma questo piccolo dettaglio tecnico spalanca un panorama vertiginoso, nel quale abbiamo una sola certezza: non abbiamo il controllo della situazione. Anche se in etichetta ci scrivono da dove viene e come è stato alimentato il maiale, come potremmo immaginare che il mangime che gli hanno dato è stato prodotto bruciando oli industriali non consentiti? È esattamente questo che cerchiamo di comunicare quando diciamo che occorre mangiare meno carne.

L'unica condizione per avere il controllo sulla qualità della carne che mangiamo è abbassare i consumi. Se ne mangiamo di meno, e quindi ne verrà prodotta di meno, con cicli meno veloci, con alimentazioni meno artificiali, che prevedano meno passaggi, meno elaborazioni, meno variabili, allora possiamo sperare di avere un qualche tipo di sicurezza alimentare. E intanto, ma queste sono riflessioni per visionari, si libererà il pianeta di un bel po' di Co2, si risparmierà acqua, si eviterà di spianare foreste, non sarà necessario pavimentare il mondo di monocolture di mais o di soia.

Chi chiede l'etichettatura e una norma che obblighi alla dichiarazione dell'origine di ogni alimento ha ragione. E si sta trovando davanti un'Europa poco reattiva, che sembra non comprendere che la tracciabilità, la trasparenza delle informazioni è l'unico strumento per proteggere la salute pubblica e al contempo l'economia.

Troppe volte le richieste di rigore informativo sono state respinte con la motivazione che un prodotto ben "tracciato" farebbe concorrenza sleale agli altri. Se io dico che un olio è prodotto in Italia, a patto di dire la verità, non sto facendo concorrenza sleale a nessuno: sto dando un servizio al cittadino. Non sono gli omertosi che vanno protetti. Non è la confusione che va alimentata.


 Tuttavia le etichette non possono metterci al riparo dall'infinita possibilità di delinquere che il mondo della produzione sa mettere in atto. L'unico elemento che ci può proteggere è la promozione della qualità.

Sembrava averlo intuito il presidente della Commissione agricoltura, Paolo Russo, quando ha dichiarato che oltre all'etichettatura occorre "una politica che incrementi il valore del lavoro degli allevatori"; ma evidentemente pensava a qualcosa di diverso perché ha aggiunto "favorendo l'aumento delle quantità dei capi ed il miglioramento delle performances produttive".

Non si fa qualità pensando alla quantità. E non c'è motivo di continuare con questa ossessione della quantità in un'Europa sempre più obesa, cardiopatica e diabetica, in cui tutti si sgolano a dire che bisogna mangiare meno carne. Mangiamone meno, mangiamola buona, paghiamola il giusto e compriamola da chi ci fidiamo.

O forse, un'altra opzione c'è, non alternativa, ma complementare. Quella di una comunità europea che lavori con cognizione di causa su ogni singola derrata alimentare, ricordandosi di essere un'istituzione eletta e pagata dai cittadini e che deve fare i loro interessi prima di quelli dei grandi poteri economici.

Un'Europa in cui le politiche agricole diventino politiche alimentari, e quindi guardino a un settore così complesso esaltandone le peculiarità e proteggendone le debolezze. Proviamo a pensarci, tra qualche mese, mentre andremo a votare: questa volta la Cina non c'entra.