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Scarpe, bombe e democrazia

di Alessandro Iacobellis - 19/12/2008


 

Le notizie che ci arrivano dall’Iraq da ormai cinque anni e mezzo, lo sappiamo bene tutti, sono tutto meno che imparziali.
Una delle cose più chiare sin dall’iniziale cavalcata delle truppe americane verso Baghdad di marzo-aprile 2003 (che, secondo i più ottimisti, fra i quali lo stesso George W. Bush, avrebbe posto fine alla guerra nel giro di poche settimane) fu che uno dei tavoli su cui si sarebbe giocata la partita sarebbe stato quello dell’informazione. Nulla di nuovo, pensandoci bene, perché ogni conflitto nella Storia ha sempre avuto al centro la volontà di impadronirsi o comunque di influenzare la produzione e circolazione delle notizie.
La guerra in Iraq, però, rappresenta un ulteriore salto di qualità in questa prassi, e ciò avviene col famoso (o famigerato, come preferite) utilizzo in forze dei cosiddetti reporter embedded. I giornalisti, insomma, diventano ufficialmente parte integrante della macchina militare, e vanno in pratica a rivestire il ruolo di semplici amplificatori delle veline del Centcom (il Comando Centrale delle operazioni belliche nei teatri afgano e irakeno). Il risultato è, inutile a dirsi, la rappresentazione presso l’audience globale di un solo punto di vista delle parti in causa, mentre quello dell’altra fazione non solo non viene mai preso in considerazione, ma viene demonizzato o, nel migliore di casi, sbeffeggiato (ricordarsi a questo proposito il Ministro dell’Informazione Sahaf, ribattezzato Alì il Comico dall’opinione pubblica americana per i suoi trionfalistici rapporti dal fronte, in realtà non meno lontani dalla realtà sul campo di un Bush che il I maggio del 2003 dichiarava la guerra già finita!).
Nel corso di questi cinque anni e mezzo di occupazione dell’antica Mesopotamia, di cose ne sono successe e di esempi di censura delle notizie ne abbiamo avuti tanti, troppi.
Basti ricordare la surreale Battaglia di Fallujah del novembre 2004, non coperta da alcuna fonte di informazione libera e indipendente, tanto che per saperne qualcosa abbiamo dovuto attendere mesi, e ricostruirne alcuni particolari scomodi attraverso le falle dello stesso esercito Usa. I bombardamenti al fosforo bianco, infatti, vennero scoperti attraverso articoli di una rivista specializzata dello stesso esercito nordamericano, che imprudentemente ne trattò in alcuni passaggi.
Va notato che tale operazione di guerra non dichiarata alla libera informazione ha avuto anche diversi picchi drammatici e tragici, sfociando in episodi sanguinosi. Tutti sempre giustificati dalle alte sfere dell’USArmy come episodi fortuiti. Fortuita fu dunque la cannonata del carro armato M1 Abrams che l’8 aprile 2003 centrò l’Hotel Palestine, uccidendo il giornalista spagnolo Josè Couso e l’operatore ucraino della Reuters Taras Protsyuk. Fortuiti sono stati in più occasioni i bombardamenti contro gli uffici di Al Jazeera a Baghdad, con l’uccisione del reporter Tariq Ayoub, fino alla definitiva estromissione per decreto del network arabo dall’Iraq (“Appoggia i terroristi”, tuonò Ayad Allawi, l’uomo di Washington al governo di Baghdad). Fortuita, per venire a casi a noi più vicini, la pioggia di piombo che presso l’aeroporto della capitale irakena investì la macchina su cui viaggiava Giuliana Sgrena, appena libera dalla prigionia, e che costò la vita all’agente del Sismi Nicola Calipari. Fortuita, infine, l’uccisione del reporter di Al Arabiya Mazen Tomeizi, falciato dalla mitragliatrice di un elicottero addirittura durante la registrazione di un servizio (la sua colpa era quella di mostrare un carro armato Bradley squarciato dall’esplosione di un’autobomba). Tutto questo senza addentrarci nemmeno nel drammatico conto dei giornalisti locali.
Arriviamo quindi ai fatti odierni.
Montazer Al-Zaidi ha 29 anni, ed è un reporter irakeno, giovane corrispondente di una tv abbastanza popolare (Al-Baghadiyah). In questi anni, stando alle testimonianze dei colleghi e della famiglia, Montazer ha visto e testimoniato cose che molto probabilmente non potrà mai più scordare, a cominciare dai bombardamenti su Sadr City, la grande e povera enclave sciita ai margini nord-orientali di Baghdad.
Montazer non è (tanto per fugare certi dubbi) un nostalgico del regime baathista. Anzi, pare che durante il regime la sua famiglia abbia subito un certo numero di grattacapi giudiziari. Muntazer è infatti di religione sciita. Ma non è nemmeno un fanatico in questo senso: proprio un anno fa, per dire, fu rapito nel pieno centro di Baghdad e rilasciato dopo tre giorni di pestaggi. Pare che nemmeno a certi estremisti sciiti andassero molto a genio le sue corrispondenze.
Insomma, il ritratto di un giornalista irreprensibile, amante della sua professione al di là dei rischi per la sua stessa persona (diversi suoi rinomatissimi colleghi occidentali avrebbero parecchio da imparare su questo aspetto). Che, però, dopo anni di corrispondenze e di orrori visti e raccontati in presa diretta, lo scorso 14 dicembre ha raggiunto la notorietà internazionale per altri motivi: il lancio delle scarpe a George W. Bush, nel corso della conferenza stampa di quest’ultimo in visita a Baghdad per l’ultima volta da numero uno della Casa Bianca. L’ultimo atto di un presidente che gli Irakeni non si dimenticheranno facilmente. Un gesto dalla fortissima valenza simbolica, considerando che il lancio delle calzature (unito all’epiteto “Cane”) indica nel mondo arabo il massimo disprezzo.
Sono passati alcuni giorni. Notizie certe di Montazer non ce ne sono: arrestato, picchiato, c’è chi gli prospetta una semplice multa, chi sette o addirittura quindici anni di carcere, chi parla di pentimento e scuse formali per il suo gesto (non si sa quanto spontanee, nelle carceri dell’Iraq democratizzato…).
Quel che è certo, è che già dal giorno dopo migliaia di Irakeni erano in piazza a chiedere la sua liberazione.
Come è certo che, scarpa o no, Montazer in questi anni in Iraq ha lavorato per la Verità. Quella che qualcun altro ha invece bombardato in più occasioni.